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I
Il giornalismo tradizionale all’alba del terzo millennio
1.1 Quotidiani a pagamento, l’impero vacilla
Enciclopedie, dischi di musica classica, dvd con i migliori film horror o con i gol
dei più grandi giocatori di calcio, collane di romanzi d’avventura, ricette di cucina.
No, non abbiamo intenzione di scrivere l’inventario degli oggetti acquistabili presso
un qualsiasi centro commerciale. Si tratta semplicemente di un elenco parziale di
quei gadget che da anni vengono venduti insieme ai giornali. Li chiamano prodotti
collaterali, ma nel panorama dell’informazione cartacea, in realtà, sono il riflesso di
un declino che si è tentato di rallentare attraverso espedienti che di giornalistico non
hanno nulla. Com’è facilmente intuibile, un’industria in salute non avrebbe alcun
motivo per commercializzare beni che risultano estranei alla propria natura
aziendale. Un giornale non è un grande magazzino. Ma sembra quasi che lo sia
diventato. Grazie all’offerta di accessori a prezzi inferiori rispetto a quelli di
mercato, gli editori si sono a lungo cullati nella speranza di far fronte alla crisi che
da tempo investe la stampa, specialmente quella quotidiana. L’obiettivo di una
politica editoriale del genere è infatti evidente: mantenere elevato il livello di copie
vendute, per non perdere i cospicui ricavi derivanti dalla raccolta pubblicitaria.
Le varie testate, volenti o nolenti, hanno così dato origine a una vera e propria
“guerra dei gadget”, in cui l’abilità delle forze in campo sta nel proporre il regalino
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più attraente per il pubblico, nella consapevolezza che con una promozione mirata
aumentano le chance di soffiare lettori ai quotidiani rivali. Senza dimenticare che
con una collezione di medaglie o il cd di un artista di grido si possono attirare in
edicola persone che non hanno mai comprato un giornale in vita loro. Paradossi del
giornalismo.
Chissà come si comporterebbero oggi il World di Joseph Pulitzer (che lega il suo
nome al più ambito premio in campo giornalistico) e il Journal di William
Randolph Hearst (l’editore che ispirò a Orson Welles il film Quarto Potere), che si
contendevano il predominio nella New York di fine XIX secolo, sfidandosi a colpi
di articoli sensazionalistici. Il New York Press coniò il termine yellow journalism
proprio per riferirsi alla tendenza a vendere scandali che distingueva i giornali dei
due magnati statunitensi: malgrado il sensazionalismo, la serietà dei reportage
pubblicati dal Journal e dal World non era messa in discussione. Più di un secolo fa,
Hearst e Pulitzer erano consapevoli, in altre parole, che l’unica strada per
conquistare lettori e accrescere la propria influenza era “vendere” l’informazione in
modo diverso rispetto ai concorrenti. Esattamente il contrario di quanto fatto a
partire dagli anni ’90 da buona parte delle aziende editoriali che, come accennato,
per conservare la loro readership hanno preferito puntare su strategie di marketing
piuttosto che cercare di capire le cause del declino e migliorare il prodotto
principale del loro business: il giornale, appunto.
Certo, il Journal e il World operavano in una situazione completamente diversa da
quella attuale, visto che la stampa all’epoca era l’assoluta protagonista del mondo
dell’informazione, mentre oggi deve dividere la scena con radio, televisione e nuovi
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media. Tuttavia, se ai primi segnali di difficoltà fossero state adottate soluzioni di
ampio respiro, i giornali, forse, navigherebbero ora in acque più sicure.
È bene precisare che la scelta di affidarsi al traino dei prodotti collaterali è soltanto
un aspetto del problema, ma indubbiamente è sintomatico di una filosofia d’azione
che alle cure radicali (che spesso implicano massicci investimenti per innovarsi)
antepone i palliativi. Altre società editrici, per esempio, hanno puntato sul taglio dei
costi, che si è tradotto il più delle volte con riduzioni del personale poligrafico e di
redazione. Una strategia che secondo l’ex editore del Los Angeles Times, Jeffrey
Johnson, non porta lontano: “I giornali non possono avere un futuro puntando sui
tagli”, è stato il suo avvertimento.
Una ricerca condotta dalla Scuola di giornalismo dell’Università del Missouri
ribadisce quanto affermato da Johnson: quando i quotidiani aumentano le spese per
migliorare la redazione, crescono anche i profitti, perché il modo migliore per
prosperare è continuare a investire. Il concetto è stato efficacemente spiegato anche
dal giornalista della Stampa, Vittorio Sabadin, nel corso della conferenza “Lo
scenario futuro dei media. La stampa tra crisi e cambiamento” che si è tenuta a
Roma il 30 marzo di quest’anno. “I giornalisti - ha detto Sabadin - stanno seguendo
con grande preoccupazione le mutazioni in corso nell’editoria statunitense. Non è
tanto la transizione verso news multimediali a preoccupare, quanto piuttosto
l’esigenza degli investitori di Wall Street di mantenere alti i profitti in un momento
di difficoltà. Quando un giornale americano viene quotato in Borsa, il suo valore è
costituito per il 20 per cento dagli oggetti solidi e palpabili, come una rotativa, una
sede e centinaia di computer, ma il restante 80 per cento è rappresentato da qualcosa
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di impalpabile, il suo brand, la tradizione di autorevolezza e affidabilità che si è
costruito in decenni di storia”.
Tornando ai prodotti collaterali, bisogna dire che l’artificio, nelle battute iniziali,
aveva funzionato quasi alla perfezione, ridando ossigeno alle finanze delle aziende.
Secondo gli ultimi dati, però, l’espansione delle vendite trascinate dai gadget
sembra essersi arrestata. La quota di fatturato dei quotidiani prodotta dagli accessori
rimane alta (il 13 per cento in Italia
1
, uno dei primi Paesi, insieme alla Spagna, a
rifugiarsi nel lancio dei prodotti collaterali e dove il fenomeno è ormai
popolarissimo - vedi TAB. 1), ma non basta più a compensare la minore incidenza
relativa
2
della raccolta pubblicitaria, che oggi nel complesso cresce a ritmi modesti
rispetto al recente passato, e il contemporaneo aumento dei costi operativi. Questo
circolo vizioso rischia di portare a una nuova ondata di tagli di organico, unita
magari a una politica di assunzione con contratti a termine, con il doppio effetto di
ridurre la qualità del giornale e indebolire l’indipendenza dei giornalisti precari.
TABELLA 1: OPERE ALLEGATE AD ALCUNI DEI MAGGIORI
QUOTIDIANI ITALIANI NEL PERIODO 2005-2006
Quotidiani Opere allegate Numero volumi
Corriere della sera
La Repubblica
Il Giorno, La Nazione, il Resto del Carlino
La Stampa
Il Sole 24 Ore
45
24
16
19
9
643
239
318
229
207
Totale 113 1.636
Fonte: elaborazione Censis su dati Centro Studi Si.Na.Gi e Gruppo l’Espresso.
1
Il dato si riferisce al 2006 ed è contenuto in uno studio della Federazione italiana editori giornali (Fieg).
2
In termini assoluti, salvo qualche eccezione, i ricavi pubblicitari continuano a crescere.
5
La salute del giornalismo, in breve, potrebbe aggravarsi, prevedendo restrizioni che
non fanno bene né alla professione né alla diffusione delle copie. La situazione è
così seria da aver spinto la Federazione europea dei giornalisti (Efj)
3
a una
mobilitazione senza precedenti, proclamando per il prossimo 5 novembre una
giornata di protesta in tutte le capitali del Vecchio Continente. “È tempo di
sostenere il giornalismo - ha detto il segretario generale dell’Efj, Aidan White -. I
giornalisti protestano perché non possono svolgere il loro lavoro di fronte alle
interferenze politiche, alle precarie condizioni di lavoro e alla dilagante
commercializzazione che stanno colpendo al cuore il giornalismo di qualità”. Nelle
parole di White sono condensati due dei problemi trattati finora, assieme a un altro
male storico dell’informazione, ossia l’ingerenza della classe politica. Il leader
dell’Efj argomenta che “la qualità si sta riducendo e la gente non crede più che i
media possano difendere i suoi interessi. Dobbiamo rivendicare le virtù etiche della
nostra professione per comunicare ai nostri datori di lavoro che i tagli
dell’occupazione e degli standard devono cessare”.
Al riguardo, quello che sta succedendo in Italia - dove il disegno di legge di riforma
dell’editoria segue un percorso a ostacoli, il contratto nazionale di lavoro
giornalistico è scaduto da oltre due anni e mezzo e le federazioni degli editori e dei
giornalisti sono lontane dal trovare un punto d’accordo - è rivelatore del periodo
buio della stampa.
Il malessere interno al settore, dunque, è diffuso e investe sia i giornalisti sia gli
editori, che hanno una concezione opposta di quale debba essere la via da seguire
3
L’Efj è una costola della Federazione internazionale dei giornalisti (Ifj) e rappresenta circa 280 mila
giornalisti provenienti da oltre 30 Paesi.
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per scongiurare la morte dell’informazione stampata. Perché, mai come oggi, appare
realistico lo scenario delineato dall’Economist in un articolo dal titolo emblematico,
“Who killed the newspaper?” (“Chi ha ucciso il giornale?”, pubblicato nell’agosto
del 2006), dove, dopo aver ricordato la funzione di garanti dell’interesse pubblico
svolta dalle migliori testate
4
, si aggiunge che al giorno d’oggi “i giornali sono una
specie in pericolo d’estinzione. Il business di vendere parole ai lettori e vendere
lettori agli inserzionisti, che ha sostenuto il loro ruolo nella società, sta andando in
pezzi”.
Nel chiarire la sua posizione, il settimanale britannico spiega che, tra tutti gli “old”
media, i quotidiani sono quelli che hanno più da perdere dall’avvento di Internet,
che “negli ultimi anni ha accelerato il declino” della carta stampata. In particolare,
la piccola pubblicità, definita una volta da Rupert Murdoch come “il fiume d’oro”
dell’industria della comunicazione, sta rapidamente trasferendosi sulla rete, ritenuta
il canale ideale per far incontrare venditori e clienti. Un sito nato dal nulla come
Craigslist è diventato un punto di riferimento per la raccolta delle inserzioni divise
per categoria, estendendo la sua influenza dall’area di San Francisco a oltre 450
città sparse su tutta la Terra, col risultato di attirare a sé gran parte di quel fiume
d’oro che per tanti anni era stato la fonte di ricchezza dei quotidiani.
Tra gli altri segnali di crisi citati dall’Economist, la vendita di 32 giornali imposta
da un gruppo di azionisti all’americana Knight Ridder e motivata dagli
4
Come simbolo del buon giornalismo, il periodico inglese richiama il caso dei due cronisti del Washington
Post, Bob Woodward e Carl Bernstein, che con la loro inchiesta nei primi anni ’70 causarono la caduta del
presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon, coinvolto in quello che passò alla storia come lo scandalo
Watergate.
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insoddisfacenti dividendi prodotti dalla compagnia
5
; i tagli del personale pari al 18
per cento, effettuati nel panorama giornalistico a stelle e strisce tra il 1990 e il 2004;
le critiche della banca di investimento Morgan Stanley alla New York Times
Company, “colpevole” di aver assistito impotente al dimezzamento del valore delle
sue azioni nell’arco di quattro anni.
Ma cosa succede adesso? La prestigiosa rivista edita a Londra sostiene che molte
testate, dopo aver a lungo ignorato le nuove sfide del presente, si stanno muovendo,
seppur in direzioni spesso inverse, per evitare la chiusura. E, come avviene in altri
campi, è probabile che a fallire saranno le pubblicazioni che “stanno nel mezzo”,
ossia che non assolvono né le funzioni dei giornali di qualità né di quelli popolari,
stile tabloid inglesi. Pubblicazioni quali il Wall Street Journal o il New York Times,
da un lato, e il Sun o il Daily Mirror, dall’altro, avranno quindi più possibilità di
rimanere in vita, ammesso comunque che riescano ad adottare le giuste strategie di
mercato, valorizzando il proprio modo di fare informazione. Un’altra àncora di
salvezza per il giornalismo di qualità, inoltre, sarebbe quella delineata nel rapporto
realizzato dalla Carnegie Corporation (una fondazione filantropica con sede a New
York): il sostegno finanziario da parte di organizzazioni non profit, legittimato dal
fatto che l’esistenza stessa della democrazia presuppone cittadini ben informati e,
quindi, giornali autorevoli e imparziali.
Il solo pensiero di affidare le sorti del giornalismo a un sistema di finanziamento
che assomiglia molto alla beneficenza, non può fare dormire sonni tranquilli ai
vertici delle imprese editoriali, che devono poter contare su entrate sicure piuttosto
5
Per la cronaca, prima di essere comprata dalla McClatchy Company, la Knight Ridder (che, allora, era la
seconda più grande società editoriale degli Usa) aveva prodotto dei margini di profitto del 19 per cento.
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che su aiuti più o meno occasionali, condizionati dalla relativa disponibilità
economica delle associazioni culturali o umanitarie. L’informazione stampata, in
definitiva, si trova di fronte a un bivio.
Nel maggio 2006, all’annuale assemblea degli azionisti della sua holding, la
Berkshire Hathaway, Warren Buffett, soprannominato “l’oracolo di Omaha” per la
lungimiranza negli affari, disse esplicitamente che non aveva alcuna intenzione di
acquistare un giornale, perché “è difficile fare soldi con un business in costante
declino. I lettori dei giornali stanno andando verso il cimitero e i non lettori stanno
appena uscendo dal college”
6
. Il fatto che uno dei tre uomini più ricchi del pianeta
abbia emesso un giudizio così pessimista sul futuro dei giornali tradizionali non è
certo passato inosservato tra le file dei grandi investitori. Eppure, non tutti i
finanzieri la pensano come Buffett. O, forse, la pensano esattamente come lui, ma
hanno comunque la smania di acquisire quotidiani in ragione della loro possibilità
di condizionare l’andamento del dibattito pubblico e di dare voce agli interessi di
chi li controlla, come sostiene anche Philip Meyer nel libro The vanishing
newspaper. Lo stesso Buffett, del resto, sa bene che la “corsa ai giornali” è spesso
dettata da motivi che esulano dall’ambizione a fare profitti: “È probabile che
vedremo sempre più emergere compratori di giornali individuali e non economici,
del tipo che abbiamo visto acquistare le squadre sportive”.
Sulla questione si è soffermato di recente il Foglio, pubblicando un articolo con un
incipit molto icastico: “Se i giornali sono morti, perché tutti li vogliono comprare?”,
chiaro riferimento canzonatorio al già segnalato pezzo dell’Economist (“Chi ha
6
Cfr. Vittorio Sabadin, L’ultima copia del «New York Times», Donzelli editore, Roma 2007.
9
ucciso il giornale?”)
7
. La testata diretta da Giuliano Ferrara cita la schiera di
miliardari in prima fila nella lotta per il controllo dei quotidiani: Murdoch che tenta
di rilevare il Wall Street Journal
8
; l’ex capo di General Electric, Jack Weltch, che
guarda con attenzione al Boston Globe, mentre il magnate Maurice “Hank”
Greenberg strizza l’occhio al New York Times. Senza dimenticare che, intanto,
l’immobiliarista Sam Zell ha comprato la Tribune Company, editrice del Los
Angeles Times e del Chicago Tribune, e che negli ultimi mesi altri uomini d’affari si
sono tuffati nell’avventura editoriale. Alla luce di questi cambi di padrone e della
crisi in cui versa il settore, il Foglio ritiene che “i giornali si devono reinventare
nelle forme e nei contenuti”, ma poco dopo precisa: “Non è neppure detto che la
carta stampata sia condannata a sparire. Da un lato, leggere qualcosa di stampato
resta radicalmente diverso, spesso più facile, che seguire un testo su video.
Dall’altro, possedere un giornale implica spesso un coinvolgimento quasi
sentimentale”. Al di là dei guadagni che si vanno facendo sempre più difficili, il
fascino del Quarto Potere è quindi vivo e vegeto.
7
Il titolo scelto dal Foglio gioca anche con il contenuto di un altro servizio dell’Economist, pubblicato il 3
aprile 2007, in cui si osservava che “se i giornali sono morti, i loro cadaveri sono stranamente popolari”.
8
L’articolo del Foglio, scritto da Carlo Stagnaro, è stato pubblicato lo scorso 8 giugno, quando ancora non
era stata firmata l’intesa per l’acquisizione della Dow Jones, la società editrice del Wall Street Journal, da
parte della News Corporation di Murdoch.
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1.2 Quei controversi trend della stampa mondiale
“Newspapers: get the facts”. Chiunque volesse approfondire la conoscenza sul
mondo del giornalismo e scegliesse di visitare il sito della World association of
newspapers (Wan), noterebbe subito questa scritta in inglese (che possiamo tradurre
all’incirca come “Giornali: ecco i fatti”), collocata all’interno di un riquadro nero al
centro dell’home page. Sotto quella scritta, l’internauta di turno vedrebbe
comparire, una dopo l’altra, diverse cifre relative al mercato dei quotidiani. E, con
ogni probabilità, rimarrebbe stupito dalla valenza di quei numeri, che dipingono un
quadro roseo per i giornali, molto distante da quei cupi scenari delineati sempre più
spesso quando si parla di carta stampata. Cliccando sul riquadro nero, il visitatore
sarebbe trasferito su una pagina interna, che riporta un elenco di frasi, giudicate
dall’associazione mondiale dei giornali alla stregua di autentiche stupidaggini. Tra
queste, in fondo alla lista, salta agli occhi un’affermazione dell’Economist che
abbiamo riferito in precedenza: “I giornali sono adesso una specie in pericolo
d’estinzione”. Una frase che proprio non è andata giù al presidente della Wan,
l’irlandese Gavin O’Reilly, che ogni qualvolta viene invitato a una conferenza sul
futuro dell’editoria non perde occasione per rimarcare le cifre sullo stato di salute
del settore. “A chi dice che i quotidiani a pagamento stanno per scomparire, vorrei
ricordare che rappresentano il secondo medium più importante al mondo in termini
di raccolta pubblicitaria, con una quota che sfiora il 30 per cento, superiore a quella
che raccolgono insieme radio, affissioni, cinema, magazine e Internet. La nostra
11
industria fattura 180 miliardi di dollari l’anno e può vantare due milioni di
occupati”.
Questi dati sono soltanto un esempio delle frecce a disposizione di O’Reilly per
sconfessare chi crede nell’imminente scomparsa dei giornali cartacei. È bene allora
analizzare le statistiche più significative, aggiornate alla fine del 2006 e diffuse
dall’associazione degli editori di quotidiani, per capire se è vero quanto dice il suo
leader, ossia che “i giornali sono i media del futuro e non del passato”.
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TABELLA 2. CIRCOLAZIONE DEI QUOTIDIANI
A PAGAMENTO IN ALCUNI DEI PRINCIPALI PAESI
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Paesi Vendite
dei quotidiani
nel 2006 (%)
Vendite
dei quotidiani
nel 2002-2006 (%)
Austria
Belgio
Cina
Croazia
Danimarca
Finlandia
Francia
Germania
Giappone
Gran Bretagna
Grecia
India
Irlanda
Italia
Norvegia
Olanda
Polonia
Portogallo
Rep. Ceca
Romania
Slovacchia
Slovenia
Spagna
Stati Uniti
Svezia
Svizzera
Turchia
Ungheria
+9.43
-2.86
+2.27
+36.25
-1.71
-0.71
-1.55
-2.1
-0.83
-2.66
-4.85
+12.93
+5.54
+1.88
-2.91
-2.07
+2.13
+8.95
-1.78
+25.7
+1.09
-18.6
-2.14
-1.9
-2.14
-2.54
+2.8
-0.62
+10.25
-3.46
+15.53
-6.20
-11.5
-1.94
-5.7
-9.35
-2.42
-12.5
-2.79
+53.63
+35.36
-4.49
-10.1
-11.13
+24.95
+12.7
+1.24
non disponibile
-9.18
+1.74
-1.13
-5.18
-3.95
-9.64
+55.57
-9.03
9
La tabella è stata costruita in base ai dati resi noti dalla Wan.