2
permanente esigenza della natura umana, e, nella comunità la condizione della prassi
culturale del singolo.
Questo lavoro intende illustrare le indicazioni demartiniane poste come soluzione
alla pericolosa disposizione apocalittica dell’Occidente. Per rintracciarle ripercorreremo
le tematiche che caratterizzano il pensiero demartiniano più maturo, ovvero successivo
alle autocritiche da lui formulate a partire dal 1951,
1
anno nel quale avviene il suo
“ritorno a Croce” dopo la parentesi del Mondo magico. Saranno esplicitati quei temi e
quelle nozioni che fanno parte del suo impianto concettuale e che sono indispensabili ad
avvicinarci alla comprensione del suo progetto di lavoro, della sua visione
antropologica e della metodologia storico-religiosa da lui adottata.
La ragione occidentale ha creato una falsa sicurezza esistenziale, credendo di poter
fare a meno dei ponti simbolici che legavano l’individuo alla società. Ma, non ci può
essere “presenza” senza “mondo”, e il mondo, in quanto spazio domestico, abituale,
familiare, deve essere rassicurante e protettivo. Che strategia adottare, quindi, per
affrontare lo spaesamento caratterizzante la realtà contemporanea e creare le condizioni
per “sentirci a casa”?
La proposta demartiniana contro le crisi individuali e collettive dell’Occidente
contemporaneo è fondata sul rinnovamento dello storicismo crociano, sul
potenziamento della tecnica profana, sulla fede nella unificazione socialista del nostro
pianeta, sulla riscoperta della comunità umana e sulla creazione di un simbolismo civile.
La nostra civiltà dovrebbe riuscire a realizzare un umanesimo integrale, passando
dai “simboli mitico-rituali” della religione ai “simboli mondani” di una democrazia
laica, e riconoscere alla presenza individuale il suo essenziale carattere di apertura alla
tradizione e alla solidarietà comunitaria. Essenziale è l’allargamento dell’autocoscienza
occidentale e la creazione di una coscienza comunitaria (una comunità salvifica) senza il
ricorso alla mediazione simbolica della metastoria. Allargare la coscienza storicistica
significa soprattutto acquisire la consapevolezza del rischio antropologico permanente
che sottende la presenza, aprendo in questo modo nuove possibilità di intelligenza
storica.
Il rimedio all’apocalisse della nostra civiltà emerge dalla riflessione antropologica,
la quale scopre nella comunità e nella mediazione simbolica le condizioni di ogni
possibile rinascita culturale,
2
ma è condizionato alla base dall’organizzazione
1
A partire dalla sua “Prefazione” a E. Durkheim, H. Hubert, M. Mauss, Le origini dei poteri magici,
Einaudi, Torino 1951, pp. 9-14, De Martino sacrifica quella parte del Mondo magico in cui, considerando
l’unità della coscienza individuale una conquista e un prodotto storico, egli andava a storicizzare le
“eterne categorie del reale”.
2
La “fine del mondo” riflette la crisi della condizione della prassi individuale, ovvero della dimensione
comunitaria (che custodisce la memoria dei comportamenti e percorsi culturali possibili) interiorizzata
dall’individuo.
3
economico-politica. La società borghese limita l’accessibilità ai beni culturali e la
dignità della persona ad una cerchia ristretta di uomini. Per questo, nel caso
estendessimo il discorso demartiniano alla situazione attuale, dovremmo affermare che
il suo progetto umanistico non può essere adattato ad una società capitalistica, la quale
ostacolerebbe la nascita di una grande “patria culturale”; il superamento dell’apocalisse
occidentale è, quindi, vincolato alla unificazione socialista dell’intero pianeta.
Tra le proposte demartiniane, riteniamo possibili la presa di coscienza della
condizione della presenza e dell’ontologia occidentale, la consapevolezza della costante
rischiosità del negativo, e la riduzione della presunta autonomia metastorica del simbolo
religioso a copertura della storicità dell’esistenza (consapevolezza che De Martino legge
come conseguenza naturale del telos dell’Occidente). Appare, invece, poco realistica
l’auspicata fondazione di una comunità ecumenica capace di risolvere il pericolo
sempre ritornante. Abbracciare il telos occidentale, nell’interpretazione che ne dà De
Martino, vuol dire anche esporsi a culture diverse, scambiarsi esperienze, linguaggi,
valori, combattendo la tendenza alla chiusura e al ripiegamento in un gruppo
circoscritto. Tuttavia è difficile credere ad una spontanea ed armonica coesistenza delle
diverse culture: la molteplicità culturale porterà sempre a conflitti dovuti a sostanziali
incompatibilità, al di là di potenziali valori etico-politici da condividere universalmente.
Inoltre, l’idea comunitaria ripresa dal mondo primitivo e dalla cultura contadina del
Mezzogiorno, cioè da una realtà arcaica e periferica, è quella di un sistema protettivo
forse improponibile nella realtà occidentale in cui la struttura sociale ha spinto
l’individuo verso l’autonomia rispetto ad una possibile comunità.
4
Capitolo primo
Il simbolo mitico-rituale
5
1.1 Genesi, struttura e funzione del simbolo mitico-rituale
Il più importante strumento ermeneutico messo a punto nel Mondo magico
3
e mai
abbandonato da De Martino nelle sue indagini etnologiche è “la tesi della crisi della
presenza come rischio di non esserci nel mondo e la scoperta di un ordine di tecniche
(alle quali appartengono e magia e religione) destinate a proteggere la presenza dal
rischio di perdere le categorie con le quali si innalza sulla cieca vitalità e sulla ingens
sylva della natura, e destinate altresì a ridischiudere mediatamente il mondo dei valori
compromesso dalla crisi.”
4
La presenza è un bene elementare e fondamentale, e va difesa dal costante rischio di
dissoluzione mediante una tecnica rivolta a proteggerla e garantirla come presenza fisica
(attraverso tecniche economico-produttive che permettono di dominare la natura e
soddisfare i bisogni fisici) e come personalità (attraverso il simbolo mitico-rituale).
Senza un centro unitario che si rende volta a volta presente al divenire storico immettendo
in esso determinazioni umane, la storia della c u l t u r a dileguerebbe nella storia della
n a t u r a. La presenza è dunque il primo bene vitale umano: e lo è proprio perché, in
date condizioni storiche, può correre il rischio di andare perduto.
5
Vi è dunque u n a t e c n i c a d e l l a p r e s e n z a v e r s o s e s t e s s a, al fine di
non diventare natura e di potersi permettere una cultura: una tecnica […] contro il
naturalizzarsi della presenza
6
L’esserci, inteso come presenza-al-mondo, rischia costantemente di veder crollare
l’orizzonte storico-culturale in cui è inserito, perciò è impegnato a controllare i momenti
critici e a rinnovarsi continuamente riaffermandosi come presenza-al-mondo. Il rischio
della crisi può interessare non soltanto l’individuo ma un’intera società. Ogni umanità è
sottoposta al rischio di perdere la presenza, ed è quindi impegnata nella continua
riappropriazione della “unità trascendentale dell’autocoscienza”.
La crisi della presenza è frequente quando scarsi sono i mezzi di controllo tecnico
della natura (come nelle culture primitive o marginali) o quando una cultura è incapace
di proporre nuovi valori efficaci (come appare dai limiti della ragione borghese).
3
E. De Martino, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo (1948), Boringhieri, Torino
1997.
4
Ivi, pp. 273-274, postilla conclusiva della seconda edizione.
5
E. De Martino, Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto, in SMSR, 28, 1957.
6
Ibid.
6
Il rischio della crisi si produce sul piano del “vitale”. L’attività economica
rappresenta il primo passo per la creazione di istituti destinati al controllo della natura.
Va chiarito che:
la forma del vitale non esaurisce la sua propria potenza produttiva nella magia e nella
religione, ma ha un’estensione molto più vasta. Vitale è certamente la sfera del corpo e
delle sue funzioni organiche, dei suoi bisogni e dei suoi istinti, mercé dei quali noi
affondiamo nel mondo della natura e partecipiamo al destino animale; vitale è la sfera del
dominio tecnico della natura oggettiva […] Il sacro come tale non rientra ovviamente in
nessuna di queste due sfere del vitale, poiché nella prima di esse non è ancor nato (il
mondo animale non ha religione!) e nella seconda esso è già scomparso, almeno nel senso
che l’homo faber in quando fondatore di tecniche produttive si lascia sempre
realisticamente guidare dal criterio della efficienza dei suoi strumenti […] Entra così in
considerazione quel dominio tecnico del vitale umano che è la presenza individuale come
centro di decisione e di scelta oltre il mero vitale organico o corporeo o animale, cioè
l’unità dell’individuo come possibilità del dispiegarsi di tutte le distinte potenze operative
che fanno uomo l’uomo
7
De Martino, al contrario di Croce, distingue il vitale (inteso come naturalità)
dall’economico.
L’economico è la coerenza dell’esserci che provvede al distacco dalla immediatezza del
vitale, il rischio della presenza è la impotenza a compiere tale distacco, la vita religiosa è
l’economia dell’alienazione mediante la tecnica della destorificazione al fine di potere
reintegrare la presenza nella storia umana.
8
La crisi esprime l’incapacità di oltrepassare il vitale biologico (non la vitalità umana
intesa come presenza) nell’economico e, quindi, di inaugurare la cultura distaccandosi
dalla natura.
Quando il patire con la sua polarità di piacere e di dolore, e con le sue reazioni conformi,
viene inserito in un piano razionale, deliberatamente scelto e storicamente modificabile, di
produzione di beni secondo regole dell'agire, la vitalità si risolve nell'economia, e la
civiltà umana c o m i n c i a.
9
Il progetto comunitario dell’utilizzabile (produzione, distribuzione e consumo di beni
economici) rappresenta il distacco dell’uomo dal naturale. L’economicità (cioè
l’orizzonte dell’utilizzazione) è un valore intersoggettivo, “infatti un determinato regime
7
Ivi, pp. 18-19.
8
E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino
1977, p. 664.
9
E. De Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico. Dal lamento pagano al pianto di Maria,
Einaudi, Torino 1958, p. 12.
7
economico comporta una scelta socializzata”.
10
L’economico (dominio tecnico della
natura), in quanto forma inaugurale di distacco dalla vitalità, dischiude l’autonomia
delle altre forme della vita culturale (la vita morale, l’arte, il logos).
…il distacco profano della cultura dalla natura si compie inauguralmente proprio nella
sfera economico-sociale, dove in rapporto ai modi di produzione dei beni utili e al grado
di controllo delle forze naturali si determina la misura di ciò che è “critico” e di ciò che
non lo è.
11
…nelle singole concrete civiltà religiose spetta ai momenti critici a carattere economico-
sociale una importanza egemonica nella determinazione della qualità, del numero e della
rischiosità del sistema dei punti nodali del divenire, e nella strutturazione dei modelli di
destorificazione e di reintegrazione della stessa vita religiosa
12
Nonostante il trascendimento inaugurale del vitale (che è sempre materia, naturalità)
per opera dell’economico permetta l’accesso alla vita culturale e la presenza come
volontà di forma, va precisato che il distacco dal vitale non è mai definitivo.
Se “ristretto e precario è l’ambito del mondo dell’utilizzabile e degli strumenti
tecnici materiali e mentali di utilizzazione”, frequente è il rischio della crisi, “che si
delinea quando si annulla la operabilità utilitaria progettata dalla propria cultura, quando
si toccano i suoi punti-zero di utilizzabilità del mondo secondo un certo progetto
comunitario dell’utilizzabile”.
13
In Etnologia e cultura nazionale negli ultimi dieci anni il ricorso alla metastoria è
indicato come risposta all’angoscia e come difesa dell’esserci:
…questa “angoscia della storia umana”, questo senso di “attentato” alla presenza suscitato
da determinati momenti critici dell’esistenza non è affatto una struttura ontologica
dell’uomo; tanto meno appartiene alla “natura umana” la parodossia del riscatto mercé la
ideologia della destorificazione. L’esperienza della presenza “precaria” è connessa a una
reale precarietà umana nel mondo, ma questa precarietà è semplicemente la rudimentalità
dei mezzi tecnici di dominio della natura (come è il caso delle società primitive) o il loro
impiego a fini distruttivi (come accade nelle guerre moderne): ovvero è un rapporto a
vario titolo disumano fra uomo e uomo, un limite di umanesimo, onde determinati gruppi
umani stanno rispetto ad altri in una condizione strumentale, come “natura” o “anime
morte”. Il che equivale a dire che la esperienza della precarietà corrisponde a una reale
precarietà del modo di esistenza, ma la precarietà esistenziale è a sua volta contesta di
situazioni che l’uomo ha generato e che l’uomo può raggiungere e modificare, sino alla
10
E. De Martino, La fine del mondo, cit., p. 458.
11
E. De Martino, Storicismo e irrazionalismo nella storia delle religioni, in SMSR, 28, 1957.
12
E. De Martino, Storicismo e irrazionalismo nella storia delle religioni, cit.
13
E. De Martino, La fine del mondo, cit., p. 643.
8
fondazione di un ordine umano in cui l’uomo sia realmente integrato nella storia, vi si
ponga come cittadino di diritto e di fatto, e possa perciò accettarla senza angoscia.
14
L’angoscia è la reazione della presenza al rischio di non esserci nel mondo e così non
poter decidere secondo valori (dominio tecnico della natura, produzione di beni
economici, organizzazione della vita sociale e politica, ethos, arte, logos) e svilupparsi.
L’angoscia, che è sempre angoscia della storia, traduce la resistenza della presenza di
fronte al rischio di dissolversi nel mondo subumano.
Attraverso il simbolo mitico-rituale (che è un modello formalmente metastorico) si
recupera la storia occultandone il divenire: il divenire storico è mascherato, si sta nella
storia “come se” non ci si stesse, in modo tale che l’angoscia della iniziativa, della
scelta, della decisione responsabile è attenuata. “In generale ogni momento del divenire
è nuovo, e quindi critico per la presenza”:
15
se l’angoscia del divenire e la pressione
aumentano, l’unica “medicina è un momento di riposo nella metastoria, un
alleggerimento del divenire mercé la paradossia della soppressione del momento della
novità”
16
attraverso il simbolo mitico-rituale.
Il crollo esistenziale può essere determinato dal dispiegarsi delle forze naturali
distruttive, dalle incidenze luttuose, dalle malattie mortali, dalle fasi dello sviluppo
sessuale (come la crisi della pubertà), dai rapporti con l’autorità sociale o politica, e così
via.
Nelle società primitive e nel mondo antico l'arco della vita individuale nel quadro della
vita collettiva è disseminato di rischi esistenziali che per noi hanno perso ogni significato:
l'incontro con animali pericolosi, l'attraversamento di paesi sconosciuti e selvaggi,
l'incerto esito della caccia da cui dipende per intero il destino alimentare della comunità,
la perdurante scomparsa della selvaggina che insieme alle radici costituisce l'unica base di
regime dietetico, le vicende meteorologiche sfavorevoli che aprono per il gruppo sociale
una prospettiva di morte per affamamento, la siccità che inaridisce i pascoli e uccide
l'unica ricchezza del bestiame, le grandi e frequenti epidemie sterminatrici costituiscono
altrettante esperienze critiche di cui la moderna civiltà industriale ha perduto quasi la
memoria. Restano per noi in comune con le civiltà primitive e con il mondo antico
l'esperienza critica della morte della persona cara e delle fasi della evoluzione sessuale
(sulle quali è merito della psicanalisi aver richiamato l'attenzione), o l'insorgere delle
grandi catastrofi naturali o delle malattie mortali; senza contare i momenti critici che sono
connaturati alla civiltà capitalistica come tale (le crisi economiche e le forme spietate di
14
E. De Martino, Etnologia e cultura nazionale negli ultimi dieci anni, in “Società”, 9, 1953, pp. 322-
323.
15
E. De Martino, La fine del mondo, cit., p. 138.
16
Ivi, p. 139.
9
sfruttamento), o all'atrocità delle guerre moderne, o al crudo dispotismo degli stati
dittatoriali capitalistici o socialistici che siano.
17
La precarietà dei beni vitali elementari, l’insicurezza delle prospettive concernenti il
futuro, la pressione di forze naturali e sociali non dominabili, impegnano duramente la
presenza che si ritrova priva di comportamenti realistici efficaci per fronteggiare la
potenza del negativo. La protezione mitico-rituale del mondano operare è necessaria
quando la tradizione realistica appartenente alla cultura è limitata: attraverso la
mediazione del “divino” ci si riappropria dell’umano. Soprattutto nelle civiltà primitive,
in cui è insufficiente il dominio tecnico della natura, è indispensabile il ricorso ad istituti
atti a proteggere la presenza dal rischio di non esserci al mondo. Questa esigenza
costituisce l’origine della vita religiosa come ordine mitico-rituale.
Fra il momento materiale economico e il momento dell’elaborazione religiosa esiste
una stretta relazione. La cultura – in questo caso la religione – nasce da esigenze della
vita pratica immediata che, quindi, idealmente precedono il momento culturale. Una
volta nata l’elaborazione magico-religiosa, conseguente a bisogni vitali riguardanti la
“sfera del corpo e delle sue funzioni organiche, dei suoi bisogni e dei suoi istinti”,
18
questa si sviluppa in modo autonomo, secondo una propria logica, indipendente dal
momento economico-sociale.
Al di là della diversa evoluzione dei gruppi umani nello spazio e nel tempo,
sembrano ripetersi forme simboliche simili nelle varie culture,
19
nella vita onirica e
negli stati psicopatologici degli occidentali. Tale fenomeno, però, non va spiegato
ricorrendo a presunte immagini astoriche e archetipiche affioranti, ma ad esperienze
culturali simili.
La analogia dei regimi esistenziali, dei momenti critici dell'esistenza e delle esigenze di
difesa e di reintegrazione culturali possono produrre sistemi protettivi analoghi,
indipendentemente da qualsiasi iter di diffusione da un unico centro. Caccia e raccolta,
pastorizia nomade, agricoltura primitiva e agricoltura cerealicola, disciplina dei rapporti
sessuali e forma della famiglia, dispersione tribale e accentramento urbano e statale,
comportano così importanti analogie di regimi esistenziali, di esperienze critiche e di
esigenze di difesa, da far comprendere il protrarsi di analoghi simboli mitico-rituali di
difesa e di reintegrazione, più o meno indipendentemente da trasmissioni culturali. D'altra
parte il ritorno di certi simboli mitici nella vita onirica o negli stati psichici morbosi di
singoli individui appartenenti alla civiltà occidentale, significa semplicemente che, nella
carenza della vita psichica culturalmente integrata, possono riattivarsi tecniche espressive
17
E. De Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico, cit., pp. 36-37.
18
E. De Martino, Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto, cit., p. 19.
19
Ciò avviene anche senza un reciproco contatto e una trasmissione culturale diretta o indiretta.
10
e dispositivi di difesa e di reintegrazione che si ricollegano a più o meno arcaiche
esperienze culturali dell'uomo: tecniche e dispositivi che, almeno da quando la civiltà
occidentale è venuta istituendo la egemonia del suo orientamento verso la coscienza e
verso la razionalità, sono stati ridotti a latenze dell'inconscio, da dove riemergono come
una sorta di folklore psichico nel sogno e nella malattia, o anche, in dati casi, come
materia della plasmazione artistica e della sua disciplina formale.
20
Tuttavia accade anche l’opposto, ossia che partendo dalle medesime condizioni
economico-sociali le varie civiltà possono operare scelte culturali diverse, quindi c’è
consequenzialità ma anche autonomia nello sviluppo di un certo tipo di civiltà a partire
dai bisogni vitali immediati, tanto che si può parlare di “autonomia relativa del
simbolico”.
Il simbolo nasce in funzione della crisi (che può essere considerata una sorta di
informe materia precategoriale ordinata e risolta dal simbolo), ma una volta nato
acquista un aspetto proprio, un linguaggio autonomo, non riducibile alla sua funzione
originariamente terapeutica.
Ad esempio, nella Terra del rimorso De Martino parla del tarantismo come di una
sorta di “religione del rimorso” e ne sottolinea l’autonomia culturale contro la riduzione
naturalistica a malattia. Nella crisi del tarantismo emerge un conflitto irrisolto
dimenticato che ha imprigionato la presenza e che torna a manifestarsi come sintomo
chiuso, nevrotico, mascherato.
…il tarantismo si era manifestato come un simbolo mitico-rituale culturalmente
condizionato, come un orizzonte di evocazione e di deflusso di conflitti irrisolti operanti
nell'inconscio, come un ordine culturale dotato di una sua propria autonomia rispetto alle
occasioni e alle condizioni esistenziali che lo alimentavano. In particolare, il morso reale
di un aracnide velenoso patito durante il raccolto dei frutti estivi doveva aver
rappresentato un importante condizionamento esistenziale del simbolo, in un passato più
meno remoto della storia. L'analisi aveva messo in evidenza una serie di indici
testimonianti tale autonomia, e cioè la immunità locale, la ripetizione annua del nesso
crisi-esorcismo, la prevalente partecipazione femminile, la distribuzione familiare, la
incidenza della crisi nel periodo di pubertà, il vario simbolismo che si ricollegava
all'episodio del «primo morso».
21
Il tarantismo si presenta quindi come ordine simbolico culturalmente condizionato (che
si esprime attraverso l’esorcismo della musica, della danza, dei colori) nel quale è
possibile risolvere una crisi nevrotica anch’essa modellata culturalmente
(l’avvelenamento da parte del morso della taranta): siamo di fronte a un simbolo mitico-
rituale resosi autonomo rispetto agli stati morbosi che lo avevano occasionato.
20
E. De Martino, Furore simbolo valore, Il Saggiatore, Milano 1962, p. 84.
21
E. De Martino, La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud (1961), Il Saggiatore,
Milano 1996, p. 118.
11
Alla prova della ricerca sul campo fu riconosciuto come occasionale il nesso con forme
particolari di aracnidismo - e soprattutto di latrodectismo - e così pure - dimostrata la
irriducibilità del tarantismo a disordine psichico: si rese al tempo stesso percepibile una
ben definita autonomia simbolica, culturalmente condizionata, del fenomeno, cioè un suo
orizzonte mitico-rituale di ripresa e di reintegrazione rispetto ai momenti critici
dell'esistenza, con una spiccata elettività per la crisi della pubertà, per il tema dell'eros
precluso e per i conflitti adolescenti, nel quadro del regime di vita contadino.
22
Le varie forme magico-religiose sono l’espressione di un certo tipo di razionalità
che cerca di costituirsi in determinate condizioni sociali ed economiche con un proprio
ordine di coerenze. Il simbolismo mitico-rituale ha la funzione di mediare il mondo
della prassi sociale quando la presenza, provata da determinate situazioni materiali, è
incapace di dominare la realtà. Il simbolismo si realizza secondo una precisa struttura,
ha una sua logica interna ma anche una vita storica determinata.
Il pensiero storiografico può ripercorrere la coerenza tecnica del sacro “senza
lasciare proprio nessun residuo all’immediatezza (e all’arbitrio) di un mistico
rivivere”.
23
La coerenza tecnica del sacro è diversa da quella dell’arte o della filosofia,
ma è comunque una forma di razionalità e non è riducibile ad alcun nucleo irrazionale.
Questa coerenza non si può riconoscere finché ci si limita ad abbracciare l’irrazionalità
del divino così com’è vissuta nella immediatezza della coscienza mitico-rituale.
Il sacro come nesso mitico-rituale maschera il divenire storico nella ripetizione
rituale di modelli metastorici, permettendo di entrare in rapporto con le alienazioni della
crisi, di riconquistare la presenza operativa e di riaprire al mondo delle iniziative
culturali.
Questa dialettica di ripresa e reintegrazione dei rischi di alienazione è caratterizzata dalla
coerenza tecnica della destorificazione mitico-rituale che si fa mediatrice del
ridischiudersi delle altre forme di coerenza culturale, dall'economia all'ordinamento
sociale, giuridico e politico, al costume, all'arte e alla scienza.
24
La tecnica profana si inserisce in un piano realistico avendo come scopo la
soppressione di un determinato negativo, mentre la magia ha come scopo la protezione
della presenza dai rischi propri della crisi esistenziale di fronte alla manifestazione del
negativo, e la mediazione delle potenze operative realisticamente orientate.
22
Ivi, p. 269.
23
E. De Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico, cit., p. 43.
24
Ivi, p. 40.
12
In senso psicologico-protettivo le pratiche magiche hanno sempre successo per coloro che
vi sono impegnati, e in senso psicosomatico possono anche facilitare la guarigione: ma
ciò che le mantiene è la regolarità del successo psicologico-protettivo e non la
eccezionalità e la irregolarità delle effettive guarigioni organiche.
25
D’altra parte i comportamenti magici non documentano affatto un’altra logica, ma
soltanto l’adattamento della coerenza tecnica dell’uomo a quel particolare fine che è la
protezione della presenza individuale dal rischio di smarrirsi: rispetto a tale funzione le
tecniche magiche svolgono una coerenza che in sé non è affatto minore di quella
impiegata per il controllo realistico della natura e per la fabbricazione di strumenti
materiali. L’equivoco nasce quando si giudica la magia sullo stesso piano e rispetto alla
stessa finalità della scienza moderna: col risultato o di non poter più distinguere le
pratiche magiche e la stessa vita religiosa dai deliri e dalle aberrazioni della mente umana,
o di postulare una «struttura» della mentalità primitiva che «impedirebbe» di vedere come
stanno realmente le cose. […] Non si nega quindi che una pratica magica possa per es.
agevolare il buon esito di una battuta di caccia, ma nessuna civiltà poté mai rinunziare a
cacciare realmente: e i cacciatori del paleolitico non hanno mai optato per i soli disegni
magici di animali con frecce fitte nelle carni.
26
Nella vita magico-religiosa c’è la consapevolezza dell’esistenza di una dimensione
profana, realistica e razionale:
Malinowski mise […] in evidenza come, nella concretezza della vita culturale funzionante
del mondo primitivo, non soltanto i comportamenti razionali governavano di fatto la sfera
delle attività profane, ma non mancava neppure una coscienza relativamente precisa della
distinzione fra i due tipi di comportamento, il profano-razionale e il sacro-magico: gli
indigeni ritenevano entrambi indispensabili per la vita individuale e per quella collettiva,
senza che fra di essi insorgesse un conflitto, dato che mancano le esperienze culturali che,
nella storia dell'Occidente, hanno reso questo conflitto inevitabile.
27
Per Malinowski gli stessi comportamenti magici divengono incomprensibili se non si
stabilisce di volta in volta il loro nesso con i momenti critici dell'esistenza quotidiana,
nella concretezza di un determinato regime di esistenza e nei limiti che, nella civiltà data,
hanno i procedimenti razionali di comportamento efficace.
28
In Sud e magia, la teoria intorno al nesso crisi-riscatto è verificata attraverso
l’indagine dell’ideologia magico-religiosa propria dei ceti subalterni del Meridione:
25
E. De Martino, Sud e magia (1959), Feltrinelli, Milano 1996 (6° ed.), pp. 31-32.
26
Ivi, pp. 193-194, nota 3.
27
E. De Martino, Magia e civiltà, Garzanti, Milano 1962, p. 189.
28
Ivi, p. 203.
13
La ideologia della forza magica, della fascinazione, della possessione, della fattura e
dell'esorcismo offre un quadro rappresentativo stabile, socializzato e tradizionalizzato nel
quale il rischio di alienazione delle singole presenze si converte in ordine metastorico,
cioè in un piano sul quale può essere effettuata la ripresa e la reintegrazione del rischio;
d'altra parte ripresa e reintegrazione del rischio possono aver luogo nella misura in cui la
negatività attuale o possibile del divenire possono essere ritualmente destorificati. Si
profila così il secondo momento protettivo della magia, il mito in quanto exemplum
risolutore dell'accadere e il rito in quanto iterazione del mito.
29
La tecnica magica lucana ferma la crisi in un orizzonte mitico-rituale che maschera la
storicità del divenire e la consapevolezza della responsabilità individuale.
La crisi del cordoglio (che accompagna la perdita di una persona cara) va
considerata come un altro caso particolare del rischio di perdere la presenza. L’antico
lamento funebre lucano, studiato in Morte e pianto rituale, è un sistema di
destorificazione istituzionale (azione rituale circoscritta da un orizzonte mitico) della
morte.
Sempre in quanto tecnica del piangere il lamento funebre antico concorre, nel quadro
della vita religiosa, a mediare determinati risultati culturali; ciò significa che attraverso i
modelli mitico-rituali del pianto sono mediatamente ridischiusi gli orizzonti formali
compromessi dalla crisi, e cioè l'ethos delle memorie e degli affetti, la risoluzione poetica
del patire, il pensiero della vita e della morte, e in genere tutto il vario operare sociale di
un mondo di vivi che si rialza dalle tombe e che, attingendo forze dalle benefiche
memorie di ciò che non è più, prosegue coraggiosamente il suo cammino.
30
La morte della persona cara deve trasformarsi nel nostro farla morire interiormente
(ricordandone il meglio della sua vita). È necessario oltrepassare la situazione critica –
in questo caso la morte della persona cara – in modo che tale situazione non torni in
forma irrisolvente facendo prigioniera la presenza.
La destorificazione istituzionale del divenire si compie mediante un ordine mitico
(l’orizzonte operativo del rito) e un correlativo comportamento rituale.
…la vita religiosa nasce innanzi tutto come ripresa che arresta la alienazione della
presenza in una configurazione definita (mito) e in un orizzonte operativo che stabilisce
un rapporto con l'alienazione così arrestata e configurata (rito). In quanto tutt'altro il mito
è metastoria, ambito separato dal profano, ma in quanto alienazione arrestata e
configurata e al tempo stesso trattenuta in un comportamento separato da quello profano,
il mito è azione drammatica rituale, e si prolunga necessariamente in essa. Qui è dato già
scorgere il carattere tecnico della ripresa religiosa, poiché in luogo della alienazione
29
E. De Martino, Sud e magia, cit., p. 103.
30
E. De Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico, cit., p. 58.
14
irrelativa e delle diverse inautenticità esistenziali che ne derivano viene ora istituito un
modello di rappresentazione e di comportamento che segnala, ferma e riporta a sé
l'alienazione stessa. Ma vi è un secondo aspetto tecnico del nesso mitico-rituale che
conferisce alla ripresa religiosa una efficacia collettiva prolungata nel tempo, cioè il
carattere di tradizione culturale. […] Si profila così il terzo aspetto tecnico del nesso
mitico-rituale, che si può chiamare di mediazione dei valori culturali profani. A vari livelli
di autonomia e di consapevolezza si enucleano infatti, per entro la protezione tecnica
mitico-rituale, vita economica e sociale, diritto e politica, ethos, arte e speculazione, cioè
l'orizzonte umanistico propriamente detto di una civiltà. In virtù di tale mediazione il
rappresentare mitico e il comportarsi rituale si permeano di senso e di valore, e la storia
che fu tecnicamente occultata in un sistema di simboli, riprende il suo cammino verso la
coscienza
31
Rito e mito sono momenti del processo ierogenico distinguibili idealmente. Tutta una
serie di errori nasce quando si dimentica che, nella concretezza di questo processo, il rito
è sempre rito di un mito, e il mito è sempre il progetto di un rito in azione. Le ragioni
delle false interpretazioni del rito e del mito come ipostasi fuor del processo sono varie.
Per esempio, lo scambio del rito con i cerimoniali coatti, con i cerimoniali animali, o con
il gioco; le forme elementari di vita religiosa (certi tratti della magia) in cui il mito è rozzo
e scarsamente autonomo; le religioni in via di disgregazione in cui antichi temi mitici
hanno perduto la loro autonomia e la loro complessità per quasi ridursi al gesto per il
gesto, alla parola per la parola; la degradazione delle religioni superiori negli strati sociali
incolti; l'arbitrario continuare a parlare di miti fuor della loro funzionalità religiosa e
rituale, e quando sono già letteratura, arte, poesia, riflessione cosmologica o teologica più
o meno autonoma, metafisica, e filosofia; la polemica moderna contro il ritualismo che
tende ad isolare il comportamento rituale contrapponendolo alla vita morale che non ha
bisogno di riti e di miti; l'uso e l'abuso moderni delle parole «mito» e «rito», per cui si
parla p. es. del «mito della tecnica», o «dello Stato», o «della scienza», e dei riti della
burocrazia, delle cerimonie civili, del galateo e simili. Il centro nel quale occorre
collocarsi per il giudizio è il nesso mitico-rituale nella vita religiosa in atto: e soltanto da
questo angolo prospettico si potrà poi giudicare del resto, e stabilire un quadro semantico
impegnato che distingua gli usi legittimi da quelli illegittimi dei due vocaboli, i significati
originari e quelli secondari e derivati, le istanze polemiche inconsciamente operanti e la
teoresi scientifica per quanto possibile pura.
32
Il mito è metastoria, orizzonte metastorico. È mito delle origini, che il rito ripete e
rinnova, riassorbendo in esse la proliferazione storica del divenire mondano e
ripresentando il mondo sempre di nuovo secondo la potenza esemplare della prima volta,
quando il mondo ebbe inizio per la decisione inaugurale di numi: onde mantenere il
mondo, sostenere la vita, significa ripetere ritualmente il suo mito di fondazione. Il mito è
mito della fine annunziata come imminente o prossima o lontana, e comunque già
prefigurabile e anticipabile in una esperienza rituale: una fine tuttavia che a sua volta è
31
E. De Martino, Storicismo e irrazionalismo nella storia delle religioni, cit.
32
Appunti tratti dall’“archivio di Ernesto de Martino”, raccolti in E. De Martino, Storia e metastoria. I
fondamenti di una teoria del sacro, a cura di M. Massenzio, Argo, Lecce 1995, pp. 143-144.
15
inizio o della ripetizione del ciclo o della liberazione dal mondano o dall’umano. Il mito
infine è mito del centro, di un evento privilegiato che dà senso alla totalità della storia
santa, sia nel senso del passato che dell’avvenire: onde quell’evento la storia entra nella
prospettiva del finire, e nulla di decisivo può più accadere, tranne la fine e la continua
iterazione sacramentale dell’evento centrale che ha deciso una volta per sempre.
33
I simboli mitico-rituali non sono altro che simboli socializzanti (modelli metastorici
teorico-pratici), che permettono all’individuo di affrontare il divenire storico
appoggiandosi alla tradizione. L’eventuale dramma esistenziale dell’individuo non
rimane isolato, ma si avvale dei simboli che la tradizione conserva e tramanda. Questi
simboli sono “autenticamente comunicanti”,
34
poiché consentono “un progetto di «vita
insieme», un impegno ad uscire dall'isolamento nevrotico per partecipare ad un sistema
di fedeltà culturali e ad un ordine di comunicazioni interpersonali tradizionalmente
accreditato e socialmente condiviso”.
35
L’efficacia dei simboli mitico-rituali dipende
dalla loro “carica di intersoggettività e di comunicabilità”.
36
Tutto il movimento dialettico della ripresa religiosa è dominato da una tecnica
fondamentale che può essere concettualmente formulata come tecnica di destorificazione
istituzionale dei rischi di alienazione attuali o possibili, e di reintegrazione culturale della
destorificazione: tale tecnica protegge dalla destorificazione irrelativa, senza orizzonte di
cultura, che ha luogo nella alienazione radicale, o perdita, della presenza.
37
La locuzione “simbolo mitico-rituale” appare per la prima volta nel saggio Mito,
scienze religiose e civiltà moderna
38
e serve a specificare il concetto di destorificazione
istituzionale del negativo. Le principali funzioni del simbolo mitico-rituale, più volte
riformulate da De Martino, sono: la ripresa e la risoluzione dei momenti critici rescissi
del “cattivo passato” (il “cattivo passato” è un contenuto psichico passato conflittuale
che si presenta nella maschera del sintomo); la riduzione e l’attenuazione dei momenti
critici ricorrenti in un dato regime esistenziale; l’anticipazione dell’incertezza del futuro
riassorbendola nella ripetizione di un ordine costante; la capacità di far compiere una
catabasi nell’inconscio per riaprire strade nuove, e di realizzare l’anabasi verso la
coscienza e i valori mondani; la possibilità di riprendere una prassi realistica. Il simbolo
magico-religioso è quindi insieme una terapia e una profilassi esistenziale del rischio di
perdere la presenza.
33
E. De Martino, La fine del mondo, cit., p. 240.
34
E. De Martino, Magia e civiltà, cit., p. 186.
35
E. De Martino, La terra del rimorso, cit., p. 179.
36
E. De Martino, La fine del mondo, cit., p. 66.
37
E. De Martino, Storicismo e irrazionalismo nella storia delle religioni, cit.
38
E. De Martino, Mito, scienze religiose e civiltà moderna, in “Nuovi Argomenti”, 37, 1952, p. 22, nota
32.