6
Il terzo capitolo presenta la figura di Luigi Rovere attraverso i film da lui prodotti e le
varie case di produzione da lui create. Dagli esordi alla Fert fino alla conclusione a
Cinecittà. Nel breve capitolo successivo ho riunito i due protagonisti di questo lavoro
con lo scopo di introdurre il corpo centrale della tesi. Come Macario e Rovere si sono
incontrati e quali erano i loro rapporti anche fuori dal set. I capitoli seguenti passano
ad analizzare i cinque film prodotti da Rovere ed interpretati da Macario: Come persi
la guerra del 1947, L’eroe della strada del 1948, Come scopersi l’America del 1949,
Il monello della strada del 1950, tutti diretti da Carlo Borghesio e girati a Torino e
infine Due sul pianerottolo del 1976, diretto da Mario Amendola e girato a Roma.
Ogni capitolo presenta un ampio riassunto della trama e affronta i temi presenti nel
soggetto, passando dalla guerra, alla povertà, all’emigrazione, agli inganni. È facile
individuare nei primi quattro film un unico corpo che riunisce temi e caratteristiche
comuni, si stacca invece decisamente Due sul pianerottolo che ha una sua storia
particolare: nasce come riduzione di una commedia ed inoltre il caso ha voluto che
fosse l’ultimo film interpretato da Macario ed anche l’ultimo film prodotto da
Rovere, accomunando ancor di più in questo modo i due personaggi. Il capitolo
conclusivo prova ad analizzare quanto i film di Macario possono essere ancora oggi
efficaci, quanto la sua comicità ancora valida. Inoltre prova ad indicare quali tra i
comici contemporanei hanno raccolto la sua eredità e provano a sviluppare quella
comicità così lunare e surreale tipica di Erminio Macario.
In appendice ho cercato di riunire il più precisamente possibile le notizie
tecniche di cui sono venuto in possesso nel corso delle mie ricerche. In particolare le
schede dei cinque film analizzati, l’elenco dei quaranta film interpretati da Macario
comprese le partecipazioni, le apparizioni ed anche un titolo mai distribuito, l’elenco
dei cinquantadue film prodotti da Luigi Rovere completi dei visti di censura e delle
date della prima proiezione pubblica, ed infine la riproduzione di alcuni dei
documenti che mi sono serviti per la realizzazione di questo lavoro: lettere e contratti
soprattutto.
7
IL COMICO AL CINEMA
“Credo che il riso sia un tratto distintivo dei fantasmi
e degli spiriti, persino gli spiriti potenti come me.
Hai mai letto i resoconti degli studiosi?
I fantasmi sono famosi per le loro risate! I santi ridono.
Gli angeli ridono. Il riso è il suono del paradiso, penso.”
Anne Rice
1
Un uomo elegantemente vestito, dal portamento fiero e sicuro di sé, sta
camminando per una strada affollata. Ad un tratto, un passo che sembra sicuro come
gli altri, lo porta invece ad appoggiare il piede su una buccia di banana. Il distinto
signore scivola, compie una mezza giravolta e finisce a gambe all’aria. La gente che
lo circonda, invece di correre ad aiutarlo ed assicurarsi che non abbia riportato danni,
scoppia in fragorose ed inarrestabili risate. È l’esempio più classico di un’improvvisa
e non preparata scena comica. Ammetto che la “scena della buccia di banana” è
difficile che si verifichi, ma tutt’altro che raro è imbattersi nel distinto ed impettito
signore che ruzzoli per le scale o inciampi in un gradino o ancora si chiuda due dita
nello sportello della macchina. In tutti questi casi la reazione è la medesima: ci
prende un’irrefrenabile voglia di ridere.
Ma perché?
Qual è il processo che ci porta a ridere di fronte ad una scena del genere?
Come mai ridiamo delle disgrazie altrui? Cosa, in definitiva, ci fa ridere e cosa no?
Secondo Baudelaire <<il riso viene dall’idea della propria superiorità. Idea satanica
come nessun’altra! Orgoglio e aberrazione!>>
2
, cioè noi ridiamo per un senso di
superiorità, un certo orgoglio inconscio: io, al posto suo, non sarei caduto, avrei fatto
più attenzione, io avrei evitato questa figuraccia, io, sostanzialmente, sono migliore di
lui. Il riso, dice Baudelaire, è satanico e di conseguenza profondamente umano,
essenzialmente contraddittorio. Rifacendoci ad un’idea di grandezza infinita, ridiamo
della miseria infinita, suo esatto contrario. <<Il comico, la potenza del riso è nel
soggetto che ride e niente affatto nell’oggetto del riso>>
3
, lo sfortunato signore che
scivola sulla buccia di banana e magari si fa anche male non troverà proprio nulla da
ridere nella situazione che si è creata.
1
Anne Rice, Lo schiavo del tempo, TEA, Milano, 1996, p. 24.
2
Charles Baudelaire, Scritti sull’arte, Einaudi, Torino, 1981, in Strutture del comico e modelli narrativi, testi scelti da
A. Scotton e L. Termine, CELID, Torino, 1985, p. 137.
3
Ivi, p. 138.
8
Il comico che nasce dal senso di superiorità ha origini letterarie tra le più nobili
e antiche. Ci pensa Armando Plebe
4
a ricordarci la figura di Tersite che nell’Iliade
viene a scontrarsi con Ulisse all’interno del campo Acheo e finisce denudato,
percosso e, appunto, deriso. In realtà Tersite, pur brutto, deforme, maldicente e
sconfitto, viene deriso fondamentalmente per un altro motivo: egli, infatti, è persona
ambiziosa, incapace di perdere e per di più dotata di una caratteristica estranea ai suoi
compagni Achei, cioè un’oratoria fuori dal comune. Entra quindi in gioco un nuovo
elemento: una sorta di vendetta contro chi si crede più furbo ed invece viene
sconfitto: <<proprio da questo contrasto sorge il comico: il forte ride del debole, non
solo perché questi è sconfitto, ma soprattutto perché questi è ambizioso nell’intelletto
e si duole della sua inferiorità fisica>>
5
.
Il lavoro a mio modo di vedere più completo sul comico e sul riso risulta essere
il saggio Il riso di Bergson
6
, capace di schematizzare in maniera piuttosto precisa le
origini e di scovarne l’essenza. Tre sono per Bergson le caratteristiche indiscutibili
del comico. Prima di tutto è comico solo quello che riguarda la sfera umana, non
ridiamo di un animale perché è buffo in sé ma perché un qualche suo aspetto, fisico o
comportamentale, ci ricorda un amico, un parente, comunque un uomo
7
. In secondo
luogo, caratteristica fondamentale del comico è l’insensibilità, una sorta di
indifferenza verso la situazione o la persona oggetto del riso; se la pietà, l’emozione,
prendono il sopravvento, la situazione smette per noi di essere esilarante e diventa
qualcos’altro, diventa pietosa, triste, addirittura drammatica (il filo che divide il
comico dal drammatico è sempre stato sottilissimo). <<Il comico esige dunque, per
produrre tutto il suo effetto, qualcosa come un’anestesia momentanea del cuore: si
dirige alla pura intelligenza.>>
8
E da qui nasce il terzo punto fondamentale: questa
intelligenza deve venirsi a trovare in mezzo ad altre intelligenze. L’uomo, per ridere,
ha bisogno della presenza di altri suoi simili intorno a lui, il comico è un fenomeno di
massa. Un’improvvisa scena comica raramente ci fa scoppiare a ridere se vi
assistiamo da soli, al limite ci strappa un sorrisino, ma se siamo in compagnia di
amici siamo capaci di esplodere in sonore risate per molti minuti e addirittura
torneremo a ridere ricordando la scena anche diverse ore più tardi. Gli sceneggiatori
delle sit-com americane hanno imparato a sfruttare questa regola già dagli anni
Settanta inserendo quelle terrificanti (ma efficaci) risate registrate per spingere lo
spettatore a farsi coinvolgere in una situazione che altrimenti lo lascerebbe quasi
indifferente
9
.
4
Armando Plebe, La nascita del comico, La Terza, Bari, 1956, Ivi, p. 22 ss.
5
Ivi, p. 23.
6
Henri Bergson, Il riso, Utet, Torino, 1971.
7
<<Si riderà d’un cappello; ma non del pezzo di feltro o di paglia, bensì della forma che l’uomo gli ha data, del
capriccio umano di cui esso ha preso la forma. Io mi domando come mai su un fatto, sì importante nella sua semplicità,
non si sia più a lungo indugiata l’attenzione dei filosofi. Parecchi hanno definito l’uomo “un animale che sa ridere”;
avrebbero potuto definirlo un animale che “fa” ridere, giacchè se qualche altro animale o qualche altro obietto
inanimato vi perviene è sempre per una rassomiglianza con l’uomo, per l’impronta che l’uomo vi imprime o l’uso che
ne fa>>. (Ivi, p. 146).
8
Ibidem
9
Bergson conclude l’analisi di questi tre aspetti fondamentali del comico riassumendoli in un unico periodo: <<Il
“comico” nasce quando uomini riuniti in gruppo dirigono l’attenzione su uno di loro, facendo tacere la loro sensibilità
ed esercitando solo la loro intelligenza.>> (Ivi, p. 147).
9
Esaurita l’analisi di questi tre aspetti fondamentali, Bergson prende in
considerazione altre due caratteristiche del comico che trovo indiscutibili. La
situazione comica è solitamente involontaria, o quantomeno riprodotta in modo da
sembrare tale. Se il nostro distinto signore, invece di inciampare, decide
improvvisamente di sedersi per terra, non si viene a creare una situazione che ci
stimola la risata, anche se il risultato finale è esattamente lo stesso: l’uomo si ritrova
seduto per terra. Se il gesto è però involontario, ecco che scatta il meccanismo, ecco
che viene a crearsi la situazione comica. Allo stesso modo il personaggio comico
dovrà essere incosciente. Dovrà cioè non avere coscienza della propria situazione.
Sono molteplici i caratteri, legati alla Commedia dell’Arte ma non solo, in grado con
la loro sola presenza in scena di reggere uno spettacolo. L’avaro, il geloso, il marito
tradito, il vecchio innamorato della giovinetta sono tutti personaggi intorno ai quali si
sviluppano infinite commedie. Tutto questo è possibile perché l’avaro crede di essere
al limite parsimonioso, il geloso pensa di essere solo innamorato, il vecchio
innamorato, in quanto tale, crede di essere ringiovanito ed il marito tradito è
invariabilmente all’oscuro di tutto. Ognuno di essi, cioè, è incosciente della propria
condizione e diventa oggetto comico sia per gli altri personaggi sia per lo spettatore,
tutti al corrente della reale situazione.
Sono tre i livelli del comico presi in considerazione ne Il riso. Il più semplice,
il più immediato è il comico delle forme. Per riuscire a comprenderne la causa, scrive
Bergson, è necessario provare ad aggravare il brutto, spingerlo verso il limite estremo
fino alla difformità ed ecco che facilmente si arriverà al ridicolo. Di nuovo è
necessario osservare senza pensare, lasciare da parte i sentimenti, e vedremo
l’atteggiamento grottesco nella sua essenza comica, <<cancellate il posticcio, cercate
l’impressione naturale, immediata, originale; ecco, afferrerete una visione di questo
genere, e vedrete dinnanzi a voi un uomo che ha voluto irrigidirsi in una data
attitudine, e, per dir così, contrarre in una smorfia il suo corpo>>
10
, quindi
un’espressione rigida, un tic perpetuo, una smorfia fissa, praticamente una
caricatura
11
. In definitiva una fisionomia ci fa ridere a patto che sembri rigida,
meccanica, contratta e conservata.
Passando al comico dei movimenti possiamo mantenere inalterato l’ultimo
assunto. Il punto centrale rimane il meccanico sovrapposto ad un corpo umano, ma in
questo caso la situazione è ancora più chiara. Un movimento armonico compiuto da
un corpo umano non è certo comico, un balletto non è comico anzi suscita emozioni
ben diverse, ma se un corpo umano, da cui ci si aspetta movimenti aggraziati, agisce
invece in maniera rigida, scomposta, meccanica, questo suscita il riso. Lo stesso
effetto suscita anche la ripetitività di una stessa azione, purché sia un’azione
meccanica che ci dia l’impressione di essere fuori posto.
10
Ivi, p. 152.
11
Un’interessante analisi del comico nella caricatura si trova anche in Sigmund Freud, Il motto di spirito e altri scritti,
Boringhieri, Torino, 1972. Scrive Freud: <<La caricatura, come è noto, produce la degradazione dando risalto,
nell’espressione generale dell’oggetto elevato, a un solo aspetto comico per se stesso, il quale è destinato a passare
inosservato finché è percepibile solo nel quadro generale. Isolando questo aspetto si può ottenere un effetto comico che,
nel nostro ricordo, si estende all’oggetto tutto intero. […] Quando un simile aspetto comico rimasto inosservato manca
nella realtà, la caricatura non esita a crearlo esagerandone uno niente affatto comico in sé stesso. >> (Ivi, p. 271).
10
<<Perché? Perché io ho dinanzi a me un meccanismo che funziona
automaticamente; non è più la vita, è l’automatismo installato nella vita ed imitante la
vita: è il comico.>>
12
Il terzo livello del comico è quello più ovvio ma anche più articolato delle
situazioni. Con la consueta precisione Bergson parte dall’analisi della ripetizione,
procedimento che prevede una combinazione di circostanze che ritornano più volte
sempre nella stessa forma, alla stessa maniera.
Se in una commedia inseriamo una scena, anche di per sé non comica, e la
ripetiamo più volte inserendola in momenti diversi dello spettacolo, finiremo per
creare un’attesa che assicurerà l’effetto comico. L’effetto sarà tanto più esplosivo
quanto più la scena sarà complessa ed inserita in maniera naturale nello svolgersi
della vicenda.
<<Il vaudeville contemporaneo si vale di questo procedimento in tutte le sue
forme; uno dei meglio conosciuti consiste nel fare agire un certo gruppo di persone,
di atto in atto, negli ambienti più diversi in maniera da far rinascere in circostanze
sempre nuove una stessa serie di avvenimenti che si corrispondano
simmetricamente…>>
13
. Il secondo procedimento è definito dell’inversione e
presume che lo spettatore sia a conoscenza di una certa situazione per poter poi
sorprenderlo invertendo le parti dei personaggi. È la classica situazione del ladro
derubato o di chi come lui finisce per essere vittima di una circostanza da lui stesso
creata. L’analisi del comico delle situazioni si chiude con l’interferenza della serie. È
il “quiproquo”, una stessa situazione che prevede due o più significati differenti. Il
caso più diffuso è quello in cui il pubblico è a conoscenza di particolari della vicenda
sconosciuti ai personaggi che quindi si trovano a dialogare ognuno seguendo il suo
filo di pensiero; solo lo spettatore è in grado di cogliere la comicità della scena perché
è l’unico ad avere a disposizione il quadro generale. In realtà il “quiproquo” è solo un
mezzo per rendere evidente l’interferenza della serie. L’effetto può essere svelato
anche in modi diversi. Di per sé il procedimento consiste nel creare due situazioni
parallele e indipendenti e giocare poi avvicinando e allontanando le due serie
portando lo spettatore a credere che il gioco venga svelato da un momento all’altro.
I tre procedimenti analizzati sono in fin dei conti riconducibili ad un unico
concetto, <<che vi sia interferenza di serie, inversione, o ripetizione, noi vediamo che
l’obiettivo è sempre lo stesso: ottenere ciò che abbiamo chiamato una
meccanizzazione della vita – si prenderà un sistema d’azioni e di relazioni e si
ripeterà tale quale, o si capovolgerà, o si trasporterà completo in un altro sistema col
quale coincide. Tutte queste operazioni consistono nel trattare la vita come un
meccanismo a ripetizione, con effetti riversabili e con parti che si possono cambiare
fra di loro.>>
14
C’è ancora un aspetto del saggio di Bergson che vorrei segnalare, mi riferisco
al capitolo in cui analizza le caratteristiche del carattere comico.
12
Henri Bergson, Il riso, cit. , p. 155.
13
Ivi, p. 172.
14
Ivi, pp.175-176
11
Quali sono le caratteristiche che rendono un personaggio comico?
15
Soprattutto il personaggio in questione deve essere insociabile, deve avere un
comportamento, un modo di porsi che lo ponga al di fuori delle riconosciute regole
sociali. Non un ribelle però, il termine utilizzato da Bergson è quello che meglio
rende l’idea: insociabile appunto. Egli vorrebbe comportarsi come gli altri, al limite
crede anche di farlo, ma la sua ingenuità, la sua distrazione lo pongono al di fuori
della società. Noi ridiamo nel vedere il suo imbarazzo, il suo essere fuori luogo in
qualunque situazione affronti. Non importa che sia buono o cattivo, è fondamentale
che si trovi sempre fuori posto. A questo punto entra in gioco il secondo aspetto
importante: lo spettatore non deve commuoversi nel vedere un personaggio del
genere. Il discorso è già stato affrontato, l’intelligenza deve cancellare l’emozione,
altrimenti l’effetto comico non scatta. Un personaggio insociabile, quindi, che si trovi
ad affrontare situazioni da cui non è in grado di districarsi e che tuttavia non ci faccia
piangere ma ridere: direi che ci siamo trovati all’improvviso nel bel mezzo della
commedia all’italiana!
Non posso certo concludere questo veloce viaggio nelle cause del comico
senza almeno citare il saggio di Pirandello sull’umorismo
16
. Il lavoro è tra i più
conosciuti, a me interessa solo richiamare l’attenzione su quello che è il punto
fondamentale dell’opera: la differenza tra comico e umoristico. Il comico è
l’avvertimento del contrario. Vedo una vecchia truccata e vestita come una ragazzina
e mi rendo conto, avverto a prima vista che in quella figura c’è qualcosa che mi fa
ridere, si tratta della contrapposizione tra la figura esterna di quella vecchia e ciò che
lei è in realtà, due immagini assolutamente inconciliabili. Se però mi fermo ad
analizzare i motivi per cui quel personaggio si è in tal guisa agghindato mi rendo
conto che probabilmente è un estremo tentativo di tenere vicino il giovane marito e
l’effetto comico scompare. Entra in gioco il sentimento del contrario, ho affrontato le
cause di quello che ho visto e la risata è sostituita da un sorriso, il comico è diventato
umoristico.
Proviamo ora a spostarci verso l’argomento che più direttamente ci interessa,
vale a dire il comico nel cinema. Abbiamo visto cosa ci fa ridere e perché, ma quando
il cinema si è accorto che avrebbe potuto essere un affare fissare su pellicola scene
comiche? La domanda è chiaramente retorica.
Un uomo sta annaffiando il suo giardino ma dalla pompa non esce più acqua,
alle sue spalle un ragazzino sta bloccando il flusso pestando la pompa con un piede;
nel momento in cui l’uomo guarda dentro al tubo per controllare qual è il problema, il
bambino toglie il piede ed il getto d’acqua investe il malcapitato giardiniere.
15
La stessa domanda si pone Alberto Savinio alla voce “comico” della Nuova Enciclopedia. La sua risposta è però più
vicina all’idea che abbiamo visto in Baudelaire: <<Nel comico (“personaggio” comico) lo spettatore trova rappresentato
colui che egli non vorrebbe essere. Peggio: trova se stesso, ma quel se stesso di cui egli si vergogna e nasconde. Trova il
suo “io” vergognoso e segreto. Trova l’immagine di quell’io che egli vorrebbe scacciare da sé, distruggere, far sparire.
Della commedia, Aristotele dà la seguente definizione: “La commedia è l’imitazione di uomini di qualità inferiore”.
S’intende che chi ride alla rappresentazione di questi “personaggi di qualità inferiore”, è fornito di una cospicua dose di
sadismo; e di masochismo, quando nel personaggio di qualità inferiore egli riconosce il suo “io” vergognoso e
segreto.>> (Alberto Savinio, Nuova Enciclopedia, Adelphi, Milano, 1977, Ivi, p. 349).
16
Cfr. Luigi Pirandello, in Saggi, Mondadori, Milano, 1952.
12
È L’arrosseur arrosé dei fratelli Lumière, la data di edizione è il 1895, se
questo breve film non è stato proiettato al Grand Cafè sul Boulevard des Capucines a
Parigi durante la storica serata del 28 dicembre 1895, la sua apparizione possiamo
farla risalire a qualche mese dopo ma la sostanza non cambia. Il comico è entrato a
far parte del cinema fin dai primissimi giorni della sua ancor breve vita.
L’arrosseur arrosé è un classico esempio di gag. Sarebbe un lungo elenco che
ci porterebbe forse fuori strada analizzare i diversi scritti che si sono occupati di cosa
sia una gag comica, anche perché l’argomento è controverso
17
. Ci basti ricordare che
la maggior parte degli studiosi che se ne sono occupati la considerano un’inserzione
esterna alla storia principale, uno sketch comico a sé stante capace di inserirsi nella
narrazione e di lasciarla poi riprendere al suo esaurirsi. Allo stesso tempo però la gag
è fondamentale all’interno di un film comico e addirittura la maggior parte dei film
comici muti sono composti esclusivamente da un susseguirsi di gags. La logica
principale è quella della sospensione dell’azione, dal punto di vista narrativo il ritmo
diventa artefatto: più è concitato, più finisce per rallentare l’azione globale, si
sostituisce ad essa.
La gag è quindi la prima situazione comica che il cinema assimila, fa sua e
riproduce spesso re-inventandola. Uno dei primi a comprendere la possibilità di
abbandonare la staticità della scena teatrale con lo sfruttamento del nuovo mezzo
anche in ambito comico fu Mack Sennet
18
. Sin dai primi film rifiutò lo stretto spazio
del palcoscenico teatrale per girare all’aperto su sfondi per lo più cittadini. Allo
stesso modo abbandonò la narrazione tradizionale sostituendola con una linea di
racconto che aveva il solo scopo di unire e tenere insieme le varie gags. Questo, unito
ad un montaggio serrato ed efficace, finiva per creare un ritmo sempre più serrato e
frenetico.
17
L’argomento è realmente tra i più dibattuti. In Francois Mars, Le gag, Editions du Cerf, Parigi, 1964, troviamo alcune
secche definizioni: per France Roche il gag è <<un episodio comico esterno all’azione>>; per Roger Regent è
<<un’ellisse visuale>>; lo stesso Mars aggiunge che si tratta di <<un incidente brutale, breve e improvviso che trova in
se stesso il suo completamento comico […] è un fenomeno esterno all’azione>>. Per Gianni Celati in Finzioni
occidentali, Einaudi, Torino, 1975, <<nel music hall e nella slapstick comedy il gag può manifestarsi in piena libertà
dalla logica drammatica che ogni testo sottende e questa logica diventa un pretesto per infilare interpolazioni ed effetti
recitativi autonomi: quindi un meccanismo secondario, di ripiego, diventa il meccanismo principale, sconvolgendo le
basi stesse della logica drammatica>>. A spostare leggermente il centro del dibattito ci pensa Jean-Pierre Coursodon in
Buster Keaton, Seghers, Parigi, 1973, quando scrive che <<il gag è insieme fenomeno parassitario ed essenziale. Ogni
gag interrompe la storia e ne rallenta lo sviluppo. Tuttavia la storia, in un film comico, non è niente senza i gag>>.
Tocca (come spesso succede) a Pier Paolo Pasolini fare il punto della situazione, nel suo Empirismo eretico, Garzanti,
Milano, 1972, infatti conclude: <<la gag è generalmente un processo stilistico che vuole rendere automatica l’azione:
un po’ come la maschera del teatro dell’arte vuole rendere automatico il personaggio. La gag e la maschera si muovono
tra due poli (tra due usi diametralmente opposti); da una parte possono raggiungere il massimo dell’automatismo
trasformando l’azione e il personaggio in una astrazione che conta come elemento di una rappresentazione non-naturale;
dall’altra parte, attraverso la sintesi che esse operano[…] rendono essenziale l’umanità di un’azione o di un
personaggio, presentandoli in un loro momento fulmineo e ispirato […]. Generalmente le gags sono disseminate nei
films, interrompendo un diverso tipo di tecnica narrativa. Solo i films comici muti sono costituiti soltanto di gags>>.
(Giorgio Cremonini, Il comico e l’altro, Nuova Universale Cappelli, Bologna, 1978, p. 18 ss.).
18
Il primo in assoluto ad intuire che il cinema è da considerarsi uno strumento non di riproduzione della realtà ma di re-
interpretazione e di re-invenzione della stessa fu George Meliès. Durante una serata in cui era ospite, Maurizio Nichetti
affermò che Meliès ha inventato il cinema, i Lumière la televisione; la dichiarazione suscitò un notevole brusio in sala
ma questo è probabilmente dovuto al fatto che Nichetti si trovava sul podio del Centro Cinematografico “Louis
Lumière” a Parigi.
13
<<Risale a quei tempi l’invenzione della maggior parte dei cosiddetti “trucchi
cinematografici” e Sennet si appropriò subito di questa grande capacità del cinema di
mentire: il referente primario del mito divenne la contraddizione, il sogno,
l’assurdo>>
19
. La comicità dei film di Mack Sennet si basa su tre elementi
principalmente: abbiamo già accennato all’uso ripetitivo e assillante delle gags e ad
un ritmo decisamente accelerato, il terzo punto è l’uso continuo della caricatura. I
suoi personaggi sono tutti caratteri eccessivi, il loro volto, il loro modo di muoversi, i
loro gesti sono sempre oltre il limite, sopra le righe. <<La connotazione era, prima
che comportamentistica, somatica in senso lato: trucco e abbigliamento erano in
funzione di una caratterizzazione estrema e sempre sulla strada del grottesco.
L’elemento base era l’accentuazione dell’anomalia fisica: un grosso naso, gli occhi
strabici, i baffi spropositati, la grassezza>>
20
, delle vere e proprie maschere
estrapolate, loro sì, dalla tradizione teatrale. E come tutte le maschere anche i
personaggi di Sennet esistono solo in funzione del ruolo che svolgono, hanno certe
caratteristiche perché dovranno comportarsi in un certo modo trovandosi in
determinate situazioni. Addirittura saranno sempre schiacciati dalle situazioni che li
circondano, si troveranno ogni volta in difficoltà impossibili, per loro, da superare, in
avvenimenti più grandi di loro. E quando, non certo per merito loro, stanno per
venirne fuori, ecco che qualcosa li risucchierà di nuovo al centro dell’intreccio
comico ed il circolo si chiuderà per ripetersi quasi all’infinito in maniera ossessiva. Il
cinema di Sennet è stato definito addirittura apocalittico, un continuo precipitare di
avvenimenti di per sé banali in situazioni enormemente sproporzionate. Il tutto
finisce per creare una situazione di disagio tanto che <<il riso diventa un riso isterico,
insieme “meccanismo di difesa” e propria condanna. Anziché forma di liberazione
diventa un’ulteriore forma di rimozione come affermazione isterica di una rimozione
già effettuata>>
21
, una sorta di fuga da una realtà insostenibile.
In una situazione per molti versi simile a quella dei personaggi di Sennet si
trova in tutti i suoi film Buster Keaton, una delle prime “maschere” del cinema. Gli
intrecci in cui lo sfortunato Buster si trova invischiato rispecchiano però con maggior
precisione quelli della commedia. È di nuovo Cremonini a ricondurre l’articolazione
narrativa dei film di Buster Keaton ai tre movimenti classici della commedia. Si parte
da una situazione narrativamente instabile, creata da un equivoco che apre la logica
drammatica della vicenda. Questo equivoco prevede l’inserimento del personaggio in
una situazione a lui non pertinente, una situazione che non gli appartiene e dalla quale
non è in grado di districarsi con i suoi mezzi. Il protagonista diventa un puro oggetto
tra gli oggetti, coinvolto nel meccanismo della narrazione. Siamo di nuovo al
personaggio insociabile di Bergson. Il secondo movimento prevede lo sviluppo
sempre più complicato della vicenda, la situazione originaria, già instabile di per sé,
diventa sempre più complessa attraverso le gags e lo sviluppo narrativo. La maschera
Keaton mantiene il suo ruolo e si lascia trascinare senza reagire, anche perché non ne
è in grado, nell’intreccio della vicenda.
19
Giorgio Cremonini, Il comico e l’altro, cit. , p. 49.
20
Ivi, p. 50.
21
Ivi, p. 57.
14
Mantiene il suo ruolo fino in fondo, inabissandosi sempre più nell’equivoco
che a sua volta cresce raggiungendo dimensioni parodistiche, <<le contraddizioni
rivelate ingigantiscono, assumono il carattere di incubo o di “apocalisse”>>
22
. Il
cerchio si chiude con la ricomposizione dell’equilibrio saltato all’inizio. Si tratta
dell’happy end, figura classica del cinema americano. Buster Keaton non fa
eccezione, tranne rari casi, presentandola però con alcune novità importanti. <<Non
tutte le contraddizioni precedentemente esposte si dissolvono, alcune permangono
sottoforma di gag divergenti. L’happy end viene spesso addirittura contraddetto da
gag che rimettono in discussione l’ordine e l’equilibrio apparentemente
raggiunti>>
23
, si lasciano così aperte due strade completamente contraddittorie tra di
loro che tuttavia coesistono perfettamente e si finisce per rovesciare il finale
gratificante del modello classico. Per chiudere il discorso su Keaton, torniamo sulla
figura del personaggio che rappresenta. Abbiamo detto che viene ridotto al rango di
oggetto, è lui che subisce gli eventi e non può fare nulla per ribaltare la situazione; la
sua unica scelta è quella di mantenere invariabilmente una linea retta mentre tutto
intorno a lui si sgretola e finisce in pezzi, una sorta di ingenuità su cui
inevitabilmente torneremo.
Ancora indissolubilmente legati alla gag sono i film della coppia comica Stan
Laurel & Oliver Hardy. I loro film, soprattutto i primi mediometraggi, sono un
inesauribile susseguirsi di situazioni comiche, di gags infinite che spesso degenerano
nella bagarre coinvolgendo tutti i personaggi che li circondano e riempiendo
l’inquadratura di oggetti e di personaggi-oggetti. Nel loro caso però non è l’intreccio
che li avvolge e li fa soccombere; nella maggior parte dei casi sono essi stessi che
creano le situazioni di cui poi diventano vittime. Come e più che in Sennet ed in
Keaton lo sviluppo narrativo è solo una scusa per legare tra di loro le irresistibili
gags. Laurel & Hardy non hanno bisogno di un equivoco che dia il via alla vicenda,
di un problema da risolvere o di una situazione intricata da cui uscire, a loro basta
mettere un piede fuori casa o anche solo giù dal letto per trovarsi in un momento nel
pieno della bagarre. Non sono però oggetti che subiscono, al contrario creano in
continuazione situazioni impossibili e nel tentativo di risolverle finiscono
invariabilmente per peggiorarle. Coinvolgono nel loro mondo privato fatto di
ingenuità e incoscienza i personaggi che li circondano. Distinti signori in vestiti
eleganti, ricche signore dell’alta società, poliziotti e uomini d’ordine, direttori di
scuole e onesti commercianti, tutti finiscono per prendere parte alla bagarre. La
coppia non si limita ad essere inetta ed “insociabile” di per sé, ma ogni volta
trasforma in incapaci tutti gli sventurati che incontra sul suo cammino. Un solo
accenno sulla più vistosa novità introdotta da Laurel & Hardy, vale a dire il passaggio
dal personaggio comico alla coppia comica. La coppia è in realtà un personaggio
unico e indivisibile. L’accostamento si basa su caratteristiche opposte e
complementari: Hardy è grasso, irascibile, falsamente sicuro di sé, Laurel è invece
magro, ingenuo, dichiaratamente incapace.
22
Ivi, p. 61.
23
Ibidem
15
L’effetto comico nasce dal confronto dei due personaggi, dal loro modo
opposto di agire e di muoversi nello spazio dell’inquadratura. Ma lo stesso effetto
comico viene poi raddoppiato dall’inversione improvvisa delle parti: Hardy decide di
togliere l’iniziativa all’inetto compagno e dimostra una invidiabile sicurezza nel
compiere quel gesto che Laurel non era in grado di fare, ma ecco che dopo pochi
istanti finisce per commettere lo stesso errore del suo compagno e la risata esplode
incontrollabile; lo stesso Laurel, timido e incapace per la maggior parte del tempo ha
poi degli scatti di violenza incontrollati e nei rari casi in cui i due risolvono un
problema è sempre lui trovare la soluzione.
Il discorso sul comico si fa più vario e complesso quando arriviamo a parlare
di Charles Spencer Chaplin, in arte Charlot. Se andiamo ad analizzare le gags di
Charlot, ci accorgiamo che non sono poi così diverse da quelle dei personaggi che
abbiamo sin qui incontrato. Ma allora in cosa consiste la grandezza di Chaplin?
Dov’è la novità? Per la prima volta è importante non fermarsi a guardare il singolo
sketch, ma l’intero film se non l’intera opera. <<La struttura narrativa diventa un
pretesto per facilitare il discorso: ciò che conta è l’intromissione del personaggio
Charlot, laddove egli corrisponde apparentemente ad uno stereotipo che appartiene
alla cultura popolare della fine dell’800, ma che all’ideologia di quella cultura si
oppone. […]
L’individualismo chapliniano è dunque la risposta alla dominazione dell’Altro,
che assume di volta in volta connotazioni storicamente determinate: la fame di Vita
da cani, de Il monello; la Natura, che si identifica con il Capitale attraverso il ricorso
simbolico all’oro, ne La febbre dell’oro; il denaro in Luci della città; la tecnologia di
Tempi moderni; il nazifascismo de Il dittatore – fino all’America della “caccia alle
streghe” di Un re a New York. […] Alle possibili connotazioni storiche Chaplin
oppone il mito Charlot, cioè l’Uomo, al di fuori di ogni determinazione che non sia
quella della maschera. […] Tutto il cinema di Chaplin oscilla fra l’astrazione (il mito)
e la concretezza (la storia).>>
24
Il “caso” dei fratelli Marx è pressochè unico nella storia del cinema. Groucho e
Harpo, spalleggiati da Chico, sono due caratteri completamente opposti, la loro è una
comicità surreale, che sfiora il nonsense con Harpo e ci si tuffa a pieno con Groucho.
I fratelli Marx sono protagonisti assoluti della scena, gli altri personaggi dei loro film
sono solo un contorno, vittime predestinate degli scherzi e dei giochi dei tre terribili
personaggi. Il malcapitato che si trova tra le grinfie di Groucho e Harpo non ha via di
scampo, non gli resta che aspettare la fine delle innumerevoli torture e se solo prova a
ribellarsi i due si accaniranno su di lui con ancora maggior foga. Harpo non parla
mai, è l’unico rimasto muto in un cinema ormai completamente sonoro. Lui è però in
grado come nessun altro di muovere gli oggetti: raccatta tutto quello che trova, dalle
sue tasche escono le cose più impensabili. Può fare ciò che vuole con tutto quello che
è inanimato, sembra incapace ma è in possesso di facoltà da grande prestigiatore.
Riesce ad animare tutto ciò che è inanimato e fa di più: rende inanimato ciò che di
norma sarebbe animato, vale a dire i corpi di chi lo circonda e, nel massimo della sua
24
Ivi, pp. 63-64
16
“magia”, anche se stesso
25
. Groucho è il suo esatto contrario, è un fiume inesauribile
di parole che si riversano sui suoi avversari stordendoli. Addirittura non ha bisogno di
qualcuno con cui parlare perché spesso si ritrova a parlare da solo e comunque
raramente ascolta ciò che gli viene detto se non per ritorcerlo contro il suo
interlocutore. La comicità di Groucho è realmente una comicità nuova, è la prima
comicità fatta di parole e non di movimenti.
Facendo un bel salto diamo un’occhiata ad un’altra figura importante. La
carriera di Jerry Lewis è spezzata in due momenti ben distinti: la prima parte è legata
alla coppia con Dean Martin, coppia che sembrava indistruttibile, il bello e lo
sciocco, il bravo e l’inetto; la seconda parte è una scommessa vinta da Lewis. Quando
infatti decise di provare la strada del successo da solo, in pochi credevano in una
riuscita dell’operazione, invece ci si accorse che la comicità di Lewis poteva
funzionare anche senza l’apporto della sua “spalla” classica. La caratteristica centrale
di questa comicità è riscontrabile in una mimica esagerata, in una gestualità eccessiva
che va forse oltre la semplice caricatura. <<Anche se qua e là sono inserite battute ad
effetto, la recitazione di Jerry Lewis è di solito mimata sul tema inesauribile delle
smorfie, le quali, se da un lato rappresentano le forme più primitive e grossolane di
comicità. Racchiudono in sé d’altro canto un elemento irreale che non può essere
ignorato>>
26
. Ma Lewis è anche l’esaltazione alla massima potenza dell’ingenuo,
disadattato, incapace di affrontare le difficoltà della vita di tutti i giorni, terrorizzato
da tutto e tutti. Una specie di bambinone troppo cresciuto, lui sì realmente fuori posto
in una società troppo frenetica. La sua comicità nasce quindi dalla più classica
situazione che abbiamo affrontato: l’incapacità di stare al mondo.
Non posso certo chiudere questo veloce viaggio nella comicità al cinema senza
fare una fermata in Italia per accennare al “principe” Antonio De Curtis, per tutti
Totò. Pur avendo girato oltre cento film Totò è un comico da palcoscenico, pare che
avesse così in pugno il pubblico da sapere anticipare dietro le quinte il tipo di risata
che la platea avrebbe riservato alla sua battuta successiva. Per quanto riguarda il
cinema, la sua comicità è strettamente legata alla sua origine partenopea, l’arte di
arrangiarsi, la capacità di ridere anche nelle situazioni più difficili. Il tema ricorrente
è quello della fame, raramente Totò cambia personaggio nelle sue opere migliori, gli
spunti comici nascono dalle trovate che il povero personaggio è costretto ad inventare
per portare a casa il pasto quotidiano.
25
In un articolo apparso in “Il Verri” del novembre 1976 ed intitolato Il corpo comico nello spazio, Gianni Celati
analizza proprio questo aspetto della comicità di Harpo. Prende in considerazione la scena di Una notte all’Opera in cui
un fiume di persone si riversa nella piccola cabina di Groucho dove Harpo sta dormendo: <<Guardando bene questa
scena si notano alcune regole di questo tipo di comicità. Prima di tutto la necessità dell’inflazione di corpi e oggetti,
persone e mobili, gente che porta delle cose e che non si sa più dove mettere, Harpo che si comporta come un oggetto
inanimato e che continua a dormire. Carattere collettivo di questa comicità. Dentro alla stretta cabina ognuno continua a
fare il suo mestiere, la manicure le unghie, l’operaio aggiusta i tubi, la passeggera telefona, Harpo addormentato casca
da tutte le parti, etc. E’ un corpo solo che fa tutt’uno con lo spazio, un corpo totale dove ognuno perde la propria
singolarità, continuando però nel suo specifico movimento corporeo.[…] Corpi e oggetti in questo spazio non hanno
una netta separazione, sono entrambi presenza e materia, ma soprattutto corporeità dello spazio, idea d’uno spazio tutto
pieno e senza vuoti, dove il vuoto non è che un effetto momentaneo di spostamenti, di mosse, che subito si cancella con
altre mosse e spostamenti.>> (in Strutture del comico e modelli narrativi, cit. , p. 358).
26
Sergio De Sanctis, Il fenomeno Jerry Lewis, in <<Cinema>>, n.151, 25 settembre 1955
17
Quasi sempre finisce per avventurarsi in imprese più grandi di lui o comunque
fuori dalla sua portata ed allora ecco che in Totò, Peppino e la malafemmina di
Mastrocinque, anche un semplice viaggio a Milano diventa un’avventura infinita per
due contadini che mai avevano abbandonato il loro paesello campano. Totò è però
anche una maschera. Quel volto triste e affamato, quel suo mento inspiegabilmente
piegato da un lato lo avvicinano senza troppo azzardo a Pulcinella ed Arlecchino; è in
possesso di una mimica eccezionale e di una gestualità addirittura eccessiva. Totò
farebbe ridere anche se rimasse in silenzio, ma quando inizia a parlare diventa
assolutamente irresistibile.
La comicità della maschera-Totò supera ogni limite quando è accompagnata da
una “spalla” degna di nota e per nostra fortuna i compagni d’avventura del “principe”
sono stati tanti e tutti degni, da Nino Taranto ad Aldo Fabrizi fino a sfiorare la
perfezione nei duetti con Peppino De Filippo, vero pungolo in grado di stuzzicare il
compagno e di porgergli la battuta in ogni situazione. Totò quindi è comico perché è
una maschera, perché è un personaggio fuori posto, ma anche per il modo in cui è in
grado di assalire verbalmente e fisicamente i suoi avversari e le sue “spalle” (su tutti
il povero Peppino).
Ho voluto affrontare questo veloce viaggio nel comico prima e nel cinema
comico poi con lo scopo di disegnare un panorama, certo non esauriente, su cosa può
considerarsi comico e sui mezzi grazie ai quali i grandi comici della storia del cinema
riescono, ancora oggi, a farci ridere. Ora cercherò di inserire in questo quadro
generale l’attore comico a cui questo lavoro è dedicato, vale a dire Erminio Macario.
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Aria di paese (1933). Foto di scena.
Non me lo dire (1940). Locandina
19
MACARIO COMICO AL CINEMA
“Dunque, voi siete Candidetta Candido
del fu Immacolato,
professione imbonitore di fiera?”
“Sì, sì signore!”
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I comici che abbiamo fin qui incontrato hanno, come abbiamo visto, diverse
caratteristiche in comune; tra queste mi interessa segnalare la loro “cattiveria
comica”, dai calcioni di Chaplin agli spintoni di Laurel & Hardy, dai capitomboli di
Jerry Lewis agli attacchi verbali e fisici dei fratelli Marx. Esiste però un altro tipo di
comicità che più volte abbiamo sfiorato nelle pagine precedenti, senza mai toccarla
direttamente. Mi riferisco alla comicità creata dal personaggio ingenuo, incapace di
affrontare il mondo, vittima delle angherie dei più furbi.
Si tratta di una figura sicuramente più rara da riscontrare nella storia del
cinema rispetto ad esempio al più classico comico spaccone e combina-guai e
soprattutto mette in scena una comicità decisamente diversa. Assistere alle
disavventure di un comico ingenuo non trascina lo spettatore in una risata
incontrollabile, non procura quell’esplosione di divertimento effetto di una battuta
irresistibile; l’ingenuo procura invece una risata a denti stretti, un sorriso che scappa
quasi contro la nostra volontà. Proviamo allora a porci la stessa domanda del capitolo
precedente: perché un atteggiamento del genere ci fa ridere?
Il processo che porta alla risata di fronte all’ingenuità di un personaggio è in
realtà molto simile a quelli che già abbiamo visto in precedenza. Ridiamo, o
sorridiamo, perché ci sentiamo superiori allo sventurato protagonista della scena,
perché noi, trovandoci nella stessa situazione, avremmo saputo affrontare le difficoltà
in maniera molto più efficace. Ma allora dov’è la differenza? Ritengo che l’incapacità
dell’ingenuo di affrontare il mondo susciti una sensazione ulteriore, ci porti cioè a
provare una sorta di simpatia nei suoi confronti. Vederlo cadere in ogni situazione
non ci procura quella sorta di piacere perverso, quella satanica soddisfazione di cui
parlava Baudelaire, anzi direi che ogni volta ci troviamo a sperare che il poveretto
riesca ad uscirne indenne, ci troviamo schierati dalla sua parte, ci dispiace per le sue
disavventure. Ed è per questo che quasi ci arrabbiamo quando non riusciamo a
trattenere quella risata che ci sfugge tra le labbra contro la nostra volontà.
27
Il chiromante, di Oreste Biancoli, 1941.