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INTRODUZIONE
La tesi, partendo dalla descrizione dello stato dell’arte nel campo
della Linguistica Computazionale per quanto concerne il TAL
(Trattamento Automatico della Lingua), affronta la problematicità del
rapporto tra analisi quantitativa e qualitativa di un testo letterario e
tra filologia scientifica, nel suo approccio prevalentemente
funzionalista, ed ermeneutica, teleologicamente intesa quale sintesi
della capacità interpretativa di un evento storico-culturale, linguistico
nella fattispecie.
Il lavoro quindi si concentrerà sulle possibilità offerte dall’ausilio
di metodi computazionali e automatici nell’analizzare morfo-
sintatticamente un testo letterario al fine della sua rappresentazione
semantica anche in formati transmediali, grafici, cromatici e
tridimensionali, mediante l’utilizzo dei nuovi linguaggi di marcatura
del testo e della gestione relazionale dei corpora. Allo stesso testo si
tenterà di applicare alcuni modelli statistico-matematici al fine di
caratterizzare lo stile narrativo e poterne valutare le discriminanti con
altri scritti di autori e contesti letterari e storico-culturali diversi.
Nella conclusione si riprenderà il discorso sull’ermeneutica testuale
valutando le opportunità offerte dalle nuove tecnologie digitali al fine
di giungere ad una più accurata sintesi interpretativa a partire da
paradigmi filologici consolidati per finire con quelli che, grazie
proprio ai metodi computazionali, possono risultare maggiormente
innovativi e promettenti.
7
1 L’ESSERE SIMBOLICO
1.1 Homo simbolicus
La parola nasce dal silenzio. Nel silenzio si comunica e al silenzio
è destinata per essere accolta e compresa. Ma il silenzio non è il
vacuum, il nulla, bensì il pensiero inteso come autocoscienza e
consapevolezza relazionale, spazio-temporale e forse qualcosa che
vada oltre queste stesse coordinate dell’essere umano.
Ne consegue che il linguaggio è ritmo di assenza e presenza di
segni fonici, grafici, gestuali ecc. iscritto nella triangolazione
dinamica ontofenomenologica composta da essere, pensiero e sistema
di comunicazione (linguaggio in senso lato).
La dinamica tra essere, pensiero e linguaggio è stata al centro della
speculazione filosofica fin dall’antichità: Platone e Aristotele hanno
approfondito in modi molte volte divergenti la tematica, così come
sono state diversificate le posizioni di vari filosofi e linguisti lungo i
secoli. Solo in epoca moderna si sono creati i presupposti per la
formazione di una specifica disciplina scientifica e filosofica: la
linguistica e la filosofia del linguaggio. Ma il retroterra speculativo
permane comunque nella sua densità plurisecolare.
Questo retroterra è stato, come accennato, sopravanzato
apparentemente dalla nascita e dal progredire delle nuove scienze
cognitive e dalle neuro-scienze, ancorché dalle scoperte dell’archeo-
antropologia e dell’anatomia comparata. Anche l’etologia ha
8
contribuito a chiarificare i vari sistemi di comunicazione nelle e tra le
specie animali
1
.
Dai risultati complessivi di queste scienze risulta evidente che il
linguaggio, in senso stretto, parlato e scritto nella sua dimensione
diacronica ed evolutiva, costituisce una cosiddetta specificità che
distingue l’essere umano dalle altre specie viventi, alla pari, se non
più, del pollice oppositivo, della stazione eretta, ecc.
In particolar modo in questi ultimi anni si sono evidenziate le
correlazioni tra capacità linguistiche e specifiche aree cerebrali,
soprattutto nello sviluppo neurologico del bambino almeno fino ai
cinque anni. Se n’è dedotto che il linguaggio dipende esclusivamente
da un corretto sviluppo neuro-sensoriale, psico-ambientale ed
affettivo.
1.1.1 Una nuova prospettiva antropologica
Ma altri approcci conoscitivi ritengono il rapporto tra essere,
pensiero e linguaggio irrisolto a livello scientifico, mentre
prospettano il ritorno ad una sintesi antropologica che si fondi su di
un’ontologia della parola e del pensiero.
Il primo a parlare di piani di coscienza diversificati nell’essere
umano fu Henri Louis Bergson, che si confrontò in modo serrato con
le tesi positiviste e organiciste imperanti, specie tra i neurofisiologi, a
cavallo tra il XIX e il XX secolo. Le sue tesi fonderanno le basi
teoretiche per un nuovo approccio antropologico e psicologico
portando per esempio a ipotizzare la coesistenza di un piano cosciente
1
Cf Konrad Lorenz, L’anello di re Salomone, Milano, Adelphi, 1967; Konrad Lorenz, L’altra faccia
dello specchio – Per una storia naturale della conoscenza, Milano, Bompiani, 1986
4
.
9
e di uno più profondo, inconscio, che enuclea il vissuto del soggetto
nella sua durata e nella sua fusione mnemonica.
«L’opinione di Bergson è che solo un aspetto della vita
psichica possa trovare corrispondenza nel cervello e
precisamente l’aspetto motorio, schematico, rappresentabile
in rapporti spaziali, degli avvenimenti interiori. Questo
aspetto sta al tutto della vita psichica pressappoco nello
stesso rapporto in cui l’andirivieni degli attori sulla scena
sta al tutto della commedia che viene rappresentata. Per
dimostrare ciò nel caso particolare della memoria, Bergson
prese a studiare, su testi specializzati, tutti i casi possibili
di disturbi della funzione mnemonica, giungendo alla
conclusione che, quando il disturbo pare dipendere da una
lesione del tessuto nervoso, non l’esistenza del ricordo
come tale è stata abolita, ma solo la possibilità della sua
“attualizzazione” in forma cosciente. Questa attualiz-
zazione richiede anche, oltre al ricordo in sé, almeno un
inizio dell’impulso motore alla sua realizzazione sensibile:
ad esempio, nel caso di una parola, l’impulso a
pronunziarla. Ora la lesione al cervello farà venire meno
proprio questa possibilità di provocare un certo movimento
corporeo, e solo perciò di richiamare il ricordo alla mente.
Il tempo interiore può dunque continuare ad essere, secondo
l’immagine del Bergson, il gomitolo su cui tutto il passato
si arrotola, senza che se ne perda nulla: ma sul piano della
percezione attuale il passato così conservato non può più
comparire, perché la percezione attuale non può avvenire
senza un movimento corporeo, e questo movimento è
impedito dalla lesione cerebrale: il testo del lavoro teatrale
rimane intatto, ma gli attori non possono più, per dir così
comparire sulla scena. Questa tesi acutissima ebbe la
fortuna di venir confermata dagli specialisti in diversi casi
clinici, e di venire accettata da tutta la nuova scuola
neurologica»
2
.
Bergson distingue a questo proposito due modalità dell’essere: la
vita superficiale, esteriore, spaziale e che può essere soggetta ad
analisi (per quanto ci riguarda si tratta del campo linguistico vero e
proprio); ed una vita sotterranea, che si forma dalla percezione e dalla
memoria del soggetto e che può esplicarsi gnoseologicamente
nell’intuizione. Termine, intuizione, coniato da Bergson non senza
dubbi e perplessità, cui si potrebbe sostituire il termine «simbolico»
nel senso appunto di unione, fusione dei significati di tutti quei
2
Mathieu Vittorio, Prefazione in Bergson H. L., Introduzione alla metafisica, Bari, Laterza, 1970
3
, p. 14-
15.
10
vissuti che si esplicano in costruzioni di significanti che li
sintetizzano nel linguaggio umano, inteso nella sua più ampia
accezione.
D’altronde sono proprio due i ritmi fondamentali della nostra vita
«superficiale/sotterranea»: lo stato di veglia e lo stato di sonno. Nel
primo prevale il linguaggio ben formato, cosciente, propenso
all’analisi e alla contestualizzazione spazio-temporale. Nel secondo
risulta preponderante il cosiddetto stato onirico, una rappresentazione
simbolica dei vissuti così come si fondono e confondono nella
profondità del nostro essere, dove c’è appunto ciò che analiticamente
non possiamo minimamente conoscere
3
.
Per questo l’essere umano ha una propria specificità che potremmo
riassumere nella denominazione di «homo simbolicus», la quale per
altro sia lo allontana dagli appellativi finora usati da Aristotele in poi,
quale quello di «animale razionale» ecc., sia sottolinea che nella
continuità della filogenesi è avvenuto un qualche salto qualitativo.
Nulla fa escludere che questo salto, per cui l’uomo è ciò che è, sia
avvenuto non solo sullo strato superficiale, neurobiologico, anatomo-
fisiologico, espressivo e linguistico, ma anche in quello profondo,
sulla modalità di accomodazione simbolica della realtà e della propria
identità. Anzi, forse il salto interiore ha preceduto quello esteriore,
visto che l’impulso espressivo è sempre conseguente ad un impulso
intenzionale che nasce dalla nostra interiorità, dal nostro più nascosto
silenzio.
3
La scuola psicanalitica fondata da Sigmund Freud (L’Io e l’Es, 1923) e la corrente analitica e simbolista
di Karl Gustav Jung tenteranno questa impresa con controversi risultati e la segmentazione in una miriadi
di scuole, molte volte in contrapposizione teoretica e metodologica tra di loro.
11
1.2 Noscere ut Agnoscere
Per gli antichi la curiositas, il desiderio (œroj) della conoscenza di
sé (gnîqi seautÒn) e della realtà naturale (fàsij) costituiva
l’autentica propensione intellettiva dell’essere umano. Ma la natura
del desiderio rimaneva irrisolta e categorizzata semplicemente quale
impulso innato. L’istinto conoscitivo (noscere) non era sufficiente per
produrre vera e propria conoscenza (agnoscere) senza una
metodologia che fosse priva di ambiguità. Ma proprio l’ambiguità
fondamentale fra essere e non-essere o, meglio, fra essere e divenire
doveva dividere l’ontologia e la gnoseologia antica fino al moderno
conflitto fra scienze positive e correnti antirazionaliste e nichiliste. Il
principio di non-contraddizione di Platone offriva infatti una risposta
logica al problema, con beneficio d’inventario (vedi il paradosso di
Zenone), ma non metafisica.
Non intendiamo qui affrontare la storia della gnoseologia, ma solo
far presente alcune aporie e, alla luce delle acquisizioni inerenti il
rapporto essere, pensiero e linguaggio, proporre un’angolazione
diversa di affrontare il tema.
1.2.1 Epistemologia scientifica
Cartesio con il suo cogito aveva posto la questione gnoseologica
come prioritaria e di fatto come principio di ogni ricerca filosofica
non contraddittoria
4
. Ponendo l’attenzione sul cogito egli però la pone
4
Nell’epoca moderna lo sguardo non è più rivolto al mondo, né a Dio, quanto piuttosto all’uomo in
quanto tale. Al centro si colloca l’uomo con i suoi problemi, la sua esistenza, il suo vivere nel mondo, il
quale comincia veramente a diventare la riserva delle possibilità umane, l’ambito dell’attività umana, il
termine del progetto umano: dunque alla fine l’antropocentrismo, dopo il cosmocentrismo delle antiche
civiltà pre-cristiane e il teocentrismo giudeo-cristiano, tanto per rimanere nell’ambito delle civiltà
mediterranee e mediorientali. A causa della centralità riservata all’uomo il pensiero moderno non soltanto
subisce profonde modificazioni di contenuti, ma pure l’eredità del passato acquista nuove movenze,
12
implicitamente sul soggetto del cogito e cioè sull’entità pensante
ovvero l’uomo. Da questa posizione di partenza si svilupperà
quell’antropocentrismo che delineerà l’uomo stesso, nella sua
struttura, quale responsabile del proprio procedere conoscitivo e
quindi della propria costruzione storica.
I trascendentali cartesiani sono il disvelamento della struttura
cognitiva umana: un oggetto non è conoscibile tanto in se stesso,
quanto piuttosto esso viene in relazione con il soggetto conoscente; il
soggetto conoscente inoltre può conoscere il dato oggetto solo
secondo regole intrinseche che ne determinano i caratteri di validità.
nuove figure, nuove accentuazioni. Cartesio è colui che sul piano filosofico porta a termine questo
processo di riflessione sull’uomo che caratterizza l’epoca moderna. Il cogito viene posto come principio:
ciò significa affermare che prima di tutto l’uomo è alle prese con se stesso, con i suoi problemi. Con il
problema, per esempio, della certezza. Infatti il mondo con tutta la sua consistenza, a volte terribile e
minacciosa, in fondo in fondo non riesce, da solo, ad affermarsi neppure come genuina presenza: di fronte
alla realtà io dubito. È certo che io possa essere minacciato, ma non so dire se da realtà o fantasmi, non so
provare se ciò che si dispiega di fronte al mio sguardo è realtà o parvenza. Nemmeno la vita posso dire se
sia veglia o sonno! Ecco quindi che, dopo una lunga esperienza di pensiero e di vita, l’uomo cartesiano è
condotto a mettere in crisi ogni fondamento di certezza: l’uomo si trova a cercare su nessuna base, su
nessun fondamento, perché immediatamente nulla gli si offre come tale, come capace di garantire l’uomo
a se stesso sul piano della coscienza, della conoscenza e ovviamente da questo a quello della
progettazione sul mondo, dell’azione nel mondo, sul piano della prassi. Il primo problema dell’uomo
moderno diventa proprio questo: cercare il punto sul quale si possa appoggiare il venire meno di qualsiasi
realtà capace di dare fondamento di certezza. Il cosmo può essere a questo livello corroso e svuotato di
fronte al dubbio scettico. Ma in tutto questo frangersi di certezze proprio una cosa ed una soltanto riesce
inconfutabile, riesce ad imporsi a qualsiasi attacco: è il dubbio stesso o, meglio, il fatto che io dubiti, che
io viva questa incertezza. Ecco quindi trovato un punto di appoggio su cui costruire un qualsiasi pensiero
dell’uomo su se stesso e sul reale. Cartesio qui fonda sia il punto di partenza, sia pure il limite
dell’indagine antropologica e dei suoi futuri sviluppi. Ciò perché l’aver trovato certezza nel dubitare
equivale di fatto ad ammettere che questa certezza non si fonda su di una verità oggettiva, sulla Verità,
bensì su di una condizione strutturalmente limitante dell’uomo stesso. L’uomo in Cartesio ha trovato la
certezza, non la Verità; ha trovato un punto di partenza, i1 criterio di discernimento, non il dominio della
realtà; ha trovato una salvezza nella tempesta del dubbio, non la Verità perfetta. Il limite intrinseco del
cogito quindi consiste proprio in questo tipo di certezza raggiunta: «io sono certo di me che dubito». E
con ciò affermo pure che l’io pensante, in senso lato e non solo l’io raziocinante, diventa la premessa che
fonda qualsiasi base vera e non illusoria dall’essere. Si antepone qui la realtà esperienziale del dubbio alla
realtà ontologica dell’esistere. L’io viene anteposto all’essere spostando l’attenzione sui criteri
gnoseologici applicabili all’esperienza umana.
13
Non ha perciò senso parlare di verità assoluta, slegata cioè da ogni
determinazione relazionale. Tutto ciò comporta un ribaltamento
radicale sia della funzione della metafisica, sia della filosofia in
generale, quale fonte di interrogativi e di risposte, ancorché del
metodo di ricerca adottato fino al presente.
1.2.1.1 La scienza moderna: un sapere diverso o un sapere alternativo?
La scienza moderna per caso può delinearsi come una nuova
filosofia, come un sapere che ha ripudiato quanto acquisito in
precedenza, azzerando l’elaborazione culturale antecedente e dando
quindi ragione alla volontà di rifondazione ex-novo della filosofia
caldeggiata da Cartesio?
Oppure la scienza moderna proprio nel suo prodursi esclude
automaticamente, ipso facto, qualsiasi altro tipo di conoscenza sia
essa metafisica, sia essa teologica?
Il problema cioè sta nell’identità della scienza, se sia essa una
filosofia post-litteram oppure un sapere totalmente diverso e nuovo
nella storia della conoscenza umana, le cui premesse teoretiche sono
riscontrabili nell’accordo fra empirismo e razionalismo elaborato nel
pensiero di Immanuel Kant.
Dalle evidenze sperimentali razionalmente elaborate nasce
l’avventura scientifica contemporanea, la quale sarà pure difesa ed
assunta a norma generale del sapere umano da correnti ideologiche
particolari (circolo di Vienna, neopositivismo, modernismo, ecc.).
14
Proprio questi ambiti culturali propugneranno il sapere scientifico
come unica forma di autentica conoscenza, scartando come velleitario
e infantile quanto acquisito in altro modo.
1.2.1.2 L’epistemologia scientifica:
da una scienza esclusiva ad una scienza in fieri
Sarà invero la crisi cui sfocerà il pensiero neopositivista a causare
una maggiore cautela nell’asserire assoluto ed esclusivo il sapere
scientifico e a porre la necessità di una riflessione critica proprio sui
metodi della conoscenza scientifica.
Si citi, per esempio, la critica popperiana del principio di
verificabilità e ancor più del principio di induzione come indicativa di
un malessere metodologico diffuso in campo scientifico, le cui aporie
sono paradossalmente e momentaneamente superate, o, meglio,
accantonate con un tecnicismo congetturare, il quale giunge a dare
solo la capacità di non sospendere l’indagine scientifica, ma tuttavia
non a risolverne i reali problemi d’impostazione a priori
5
.
La scienza oggi si pone quindi in un atteggiamento assai meno
sicuro ed arrogante e si configura sempre più indissolubilmente
connessa con la quantità di dati sperimentali realmente conosciuti e
da cui può estrapolare delle teorie interpretative più o meno utili alla
comprensione storica dei fenomeni.
Volendo trarre l’assoluto dal relativo essa si è accorta di essersi
lasciata attrarre nell’irreale ipotetico e, quindi, di non essere scienza
del concreto, bensì scienza delle idee-ipotesi che di esso si è fatta.
5
Radnitzky Gerard, L’epistemologia di Popper e la ricerca scientifica, Roma, Borla, 1986.
15
È quindi scienza continuamente perfettibile, continuamente
integrabile e modificabile per sua natura. Se questo demitizza la
scienza quale risposta ultima alla domanda fondamentale che l’uomo
fa a se stesso sul senso del cosmo e della propria esistenza, d’altro
lato rende possibile la riproposizione di altre piste di ricerca per lo
spirito umano, che chiameremo sapienziali in senso generico,
ermeneutiche in senso stretto.
Infatti il pluralismo scientifico e filosofico ha comportato di fatto
una frammentazione del sapere e 1’incapacità strutturale di cogliere
in re la verità assoluta, per la cui ragione 1’area d’ambiguazione
culturale che si sta manifestando è di una virulenza e progressività
tale da sembrare porre il logos umano su di una china irreversibile.
L’uomo si è ritrovato infatti con una serie di teorie certamente più
significative e maggiormente esplicative di quelle passate, ma
incapace di coglierne il nesso universale. L’acquisito, al giorno
d’oggi, non è tanto il vero, quanto piuttosto il già superato. La crisi
della metafisica e della ricerca dell’essere è stato il preludio per la
crisi dell’identità esistenziale dell’uomo stesso e del suo possibile
sviluppo autocosciente.
Il voler conoscere, il voler possedere l’Essere ha portato, per dirla
con Martin Heidegger, all’oblio dell’Essere o, in altre parole, alla sua
riduzione ontica oppure ancora, facendo le debite proporzioni,
ontoteologica, se trattasi dell’Essere supremo.
Alla perdita del senso dell’Essere e quindi del senso della realtà, si
è sviluppata una teoretica giustificativa di tale smarrimento: il
nichilismo è appunto il tentativo di motivare l’assenza dell’Essere dal
campo dell’intelligibilità.
16
Dal positivismo scientista, da un forte realismo razionale, si è
caduti perciò in un’era di realismo nichilista, in quanto sistema di
negazione di una realtà ontologicamente fondata
6
.
1.2.2 L’Ermeneutica: la via «sapienziale»
Appare quindi evidente anche per le scienze linguistiche che la
crisi epistemologica apre nuovi orizzonti di ricerca e metodologie
innovative per teorizzare nuovi paradigmi interpretativi.
Se infatti il linguaggio, con le sue caratteristiche analizzate da
varie scuole, è finalizzato a comunicare il pensiero ed il pensiero,
come abbiamo detto sopra, attinge alla profondità del nostro essere,
allora possiamo affermare che il linguaggio è lo svelamento
conoscitivo dell’essere. E specie nel dialogo a due o più soggetti è lo
svelamento dell’essere comune. Platonicamente inteso questo
svelamento, se correttamente intenzionato alla ricerca della verità, è
un’ascensione apofatica verso l’Essere nella sua totalità e quindi nella
sua esperienziale verità. È un ritorno al silenzio ineffabile
prelinguistico, cui nessuna analisi meccanicistica può giungere.
Inoltre se, secondo Wittgenstein, i limiti del linguaggio, inteso
come struttura proposizionale razionalmente intelligibile, sono i limiti
6
Dalla non soluzione metafisica del principio di non-contraddizione e ancor più dalle contraddizioni nate
dal cogito cartesiano si dipartiranno i due grandi filoni della filosofia moderna. Da una parte l’idealismo,
il positivismo, il marxismo... fino allo strutturalismo contemporaneo, nei quali si mette in luce il pensare
come ragionare e quindi come ricerca fiduciosa di un’affermazione positiva dell’essere quale atto finale
del conoscere (nosse et esse), come possibilità insita nell’uomo di rappresentare in forma non
contraddittoria, non confutabile il reale. Dall’altro versante il nichilismo, l’esistenzialismo... fino alla
cosiddetta filosofia debole contemporanea, in cui l’attenzione viene posta sulla persistenza indeclinabile
del dubbio come unica fondazione certa dell’autocoscienza umana, sull’affermazione quindi che proprio
nell’impossibilità di conoscere il reale, in quanto altro dal soggetto e che non venga ad intersecarsi con la
struttura umana dubitante del soggetto medesimo, si fonda la possibilità che l’uomo rifletta su se stesso e
trovi un senso al suo porsi nel reale, al suo esistere.