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Unico, il quale ha unificato trattamento giuridico ed economico di circa
15.000 dipendenti pubblici.
Il primo capitolo presenta un excursus storico del rapporto di
lavoro nelle Pubbliche Amministrazioni, dalle origini della sua evoluzione
fino ai giorni nostri, con particolare rilievo alla riforma portata dalla
“privatizzazione” nei suoi diversi momenti sino al d. lgs. 30 marzo 2001,
n. 165, attualmente in vigore, non tralasciando la contrattazione
collettiva integrativa e le problematiche legate alla rappresentanza delle
Amministrazioni e dei lavoratori.
Il secondo capitolo presenta invece il sistema delle relazioni
sindacali nella regione Friuli Venezia Giulia alla luce del suo “Comparto
Unico del pubblico impiego”, il quale è slegato completamente dalla
contrattazione collettiva nazionale per quanto riguarda il lavoro pubblico
nella Autonomie Locali.
La tesi di laurea termina con l’analisi del contratto integrativo in
vigore nell’Amministrazione provinciale di Trieste (CCDIA 5 ottobre
2004), con particolare riferimento agli istituti della produttività collettiva
ed individuale, alla tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di
lavoro ed alle indennità collegate allo svolgimento di particolari
mansioni.
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CAPITOLO I
LA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA ED
INTEGRATIVA NEL PUBBLICO IMPIEGO
PRIVATIZZATO
Sommario: 1.1 L’evoluzione della contrattualizzazione del rapporto di pubblico
impiego – 1.2 L’efficacia della contrattazione collettiva nel rapporto di lavoro
pubblico – 1.3 La struttura della contrattazione collettiva. Il contratto nazionale
di comparto – 1.4 Segue. La contrattazione integrativa 1.5 I soggetti della
contrattazione. La rappresentanza dei lavoratori – 1.6 Segue. La rappresentanza
delle Amministrazioni – 1.7 L’oggetto della contrattazione: le materie
contrattabili
1.1 L’evoluzione della contrattualizzazione del
rapporto di pubblico impiego
Una delle innovazioni legislative più rilevanti degli ultimi anni è
stata la riforma del rapporto di lavoro pubblico realizzata, con reiterati
interventi normativi, nel corso degli anni ’90 e, successivamente,
confluita nel Testo Unico d. lgs. 30 marzo 2001, n. 165, con il quale si è
completato l’iter della c.d. privatizzazione del pubblico impiego, cioè il
suo assoggettamento alle regole del diritto del lavoro privato.
In origine, il rapporto di pubblico impiego non aveva natura
paritaria e contrattuale. La Pubblica Amministrazione, datrice di lavoro,
assumeva una posizione di supremazia speciale nei confronti dei suoi
dipendenti, indi per cui le sue regole non potevano essere dettate da
una fonte insieme contrattuale e privatistica, considerata paritaria,
come il contratto collettivo.
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In questo senso, l’azione delle Organizzazioni Sindacali risultava
confinata nei limiti di un’attività di pressione politica sul legislatore o
sull’autorità titolare del potere regolamentare.
Una soluzione compromissoria si ebbe appena nel 1983, con il varo
della legge quadro sul pubblico impiego (l. 29 marzo 1983, n. 93).
Questo provvedimento unificò le regole dettate nelle precedenti leggi di
settore, mantenendo lo schema, secondo il quale, l’accordo sindacale
era solo un momento di un procedimento amministrativo, che sarebbe
sfociato successivamente in un atto regolamentare di recezione (di
solito un decreto del Presidente della Repubblica), il quale andava, a
sua volta, a disciplinare il rapporto1.
Ma questa scelta si dimostrò fin da subito contraddittoria in quanto
prevedeva, in modo rigido ed analitico, di regolamentare tutti gli aspetti
della contrattazione: l’oggetto, i soggetti, la struttura ed il
procedimento.
Eppure, un’autorevole dottrina amministrativistica2, aveva già da
tempo evidenziato che solamente il rapporto di preposizione all’ufficio, o
munus publicum, doveva necessariamente essere sorretto da norme
pubblicistiche poste a tutela dell’interesse pubblico per cui l’ufficio viene
creato e, di conseguenza, dei cittadini sottoposti ai poteri di quell’ufficio,
mentre il rapporto di scambio fra l’attività lavorativa necessaria per il
funzionamento dell’organizzazione e una retribuzione, non necessitava,
giuridicamente, di un avallo pubblicistico, quindi poteva essere
sostenuto dal diritto privato.
Una distinzione, questa, fra uffici e personale pienamente
giustificabile dal testo letterale del primo comma dell’art. 97 Cost.,
nonché dal necessario contemperamento con l’art. 39, comma 1, tale da
mettere chiaramente in discussione la legge quadro del 19833.
1
A. Vallebona., Breviario di diritto del lavoro, G. Giappichelli Editore, Torino, 2001, p.
220.
2
M. S. Giannini., Diritto amministrativo, Milano, 1993.
3
F. Carinci., Una riforma “conclusa”. Fra norma scritta e prassi applicativa, in Diritto
del lavoro – Il lavoro nelle Pubbliche Amministrazioni, commentario diretto da F.
Carinci e L. Zoppoli, UTET, Torino, 2004, p. XLIV.
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Tutto ciò ha portato nel tempo alla consapevolezza della necessità
di una scelta legislativa in grado di sottrarre al diritto pubblico i rapporti
di lavoro dei dipendenti pubblici e, successivamente, di una parte
dell’attività giuridica di auto-organizzazione delle Pubbliche
Amministrazioni.
Il processo di riforma (la c.d. riforma Bassanini) può essere
suddiviso convenzionalmente in due fasi.
La prima fase, attuata con il d. lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 sulla
base della legge delega 23 ottobre 1992, n. 421, prevedeva la
distinzione tra organizzazione (pubblicistica) degli uffici, che è ordinata
«secondo disposizioni di legge e di regolamento ovvero, sulla base delle
medesime, mediante atti di organizzazione» (art. 2 del d. lgs. 3 febbraio
1993, n. 29) in attuazione dell’art. 97 Cost., e organizzazione
(privatistica) del lavoro, all’interno della quale i rapporti di lavoro sono
regolati dalle norme del lavoro subordinato nell’impresa «salvi i limiti
stabiliti […] per il perseguimento degli interessi generali cui
l’organizzazione o l’azione amministrativa sono indirizzate» (art. 2 del d.
lgs. 3 febbraio 1993, n. 29).
Ma la modifica più evidente riguardava la tecnica utilizzata nella
c.d. ripartizione fra le competenze delle fonti legislative e negoziali.
Infatti, nella legge 29 marzo 1983, n. 93, le due fonti coabitavano
sulla base di una ripartizione per materie pensata come simmetrica. Ciò
era inequivocabilmente visibile nella tecnica di ripartizione usata per
entrambe le fonti, cioè l’elencazione chiusa.
Infatti, l’art. 2 della legge quadro del 1983 disponeva che «sono
regolati in ogni caso con legge dello Stato e, nell’ambito di competenza,
con legge regionale o delle province autonome di Trento e di Bolzano,
ovvero sulla base della legge, per atto normativo o amministrativo,
secondo l’ordinamento dei singoli enti o tipi di enti: […]» tutta una serie
di settori che vanno dagli organi agli uffici, alla durata massima
dell’orario di lavoro giornaliero, alle modalità di conferimento della
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titolarità dei medesimi ed ai criteri per la determinazione delle qualifiche
funzionali e dei profili professionali.
Nel d. lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, il legislatore ha voluto
conservare il metodo dell’elencazione chiusa, ma solo per individuare
l’ambito delle competenze riservate alla legge e comunque alla fonte
unilaterale, mentre per la contrattazione utilizzava formule aperte,
anche in maniera molto diversa da quelle risultanti dalle elencazioni
contrapposte della legge quadro del 1983.
Invero, secondo l’art. 45 del d. lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, la
contrattazione collettiva è nazionale e decentrata e si svolge su tutte le
materie relative al rapporto di lavoro con l’esclusione di quelle riservate
alle fonti unilaterali. L’indicazione generale è quella prevista dall’art. 2,
comma 2 del suddetto decreto legislativo, in base al quale i rapporti
individuali di lavoro e di impiego sono regolati “contrattualmente”, cioè
dai contratti individuali e collettivi.
È questo il principio cardine della riforma, in quanto segna il
passaggio del rapporto di impiego pubblico nel genus dei rapporti
contrattuali di lavoro, sia pure con caratteri di specialità.
La tecnica di ripartizione utilizzata dal legislatore del 1993 ha il
significato di generalizzare l’ambito di competenza, o per meglio dire di
possibile intervento, della contrattazione collettiva, riducendo
corrispondentemente la riserva per la fonte legislativa ed unilaterale
all’ambito tassativamente indicato nella legge delega, ma con gli
allargamenti di non poco conto contenuti in altre norme del d. lgs. 3
febbraio 1993, n. 29.
Da tenere presente che la prassi sindacale maturatasi
successivamente alla legge quadro del 1983, ha ulteriormente alterato il
rigido assetto delle riserve di competenza perseguito dal legislatore del
1993 in una duplice direzione.
Da una parte ha introdotto elementi di negoziazione anche nelle
aree riservate alla legge, prolungando la ben sperimentata tecnica della
legislazione negoziata ed influendo nella elaborazione degli atti
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unilaterali di amministrazione dei rapporti di impiego emanati sulla base
della legge. Dall’altra parte la negoziazione ha progressivamente esteso
la propria influenza, a scapito delle fonti unilaterali, nell’area non
menzionata specificamente dal legislatore, assumendo di fatto quel
carattere di prevalenza, se non di tendenziale generalità, che il
legislatore del 1983 aveva voluto negarle.
Tale espansione ha inciso, più che sulla competenza legislativa,
comunque formalmente irrestringibile, sul potere delle singole
amministrazioni di regolare unilateralmente i rapporti di lavoro, anche
nelle aree non contrattualizzate dal legislatore. Questa prassi
contrattuale è rilevante non solo per la sua incidenza fortemente
invasiva nei poteri di amministrazione dei rapporti di impiego, ma altresì
per i condizionamenti procedurali che essa ha introdotto negli stessi
poteri.
L’estensione della negoziazione infatti non si è realizzata solo di
fatto, ma è stata sostenuta da una rete di regole procedurali sancite sia
nei contratti nazionali di comparto, che a livello decentrato, e dirette a
riconoscere diritti di intervento del sindacato in vari aspetti della
regolazione e della gestione del rapporto, per quasi tutte le aree non
riservate alla legge.
Tali procedure vanno a comprendere l’intera gamma dei possibili
vincoli ai poteri datoriali riguardanti il rapporto di impiego: da meri
doveri del datore pubblico di informare il sindacato su certe materie, ad
obblighi di consultazione preventiva, a doveri di trattare
(terminolgicamente identificati come “esame congiunto”, “confronto”,
ecc.), fino a veri e propri obblighi di codecisione o poteri di veto
sindacale4.
In tal modo la prassi ha superato, in un certo senso, il dettato
attribuito alle norme dal legislatore, riconoscendo ampi spazi alla
contrattazione collettiva.
4
T. Treu., La contrattazione collettiva nel pubblico impiego: ambiti e struttura, in
Giorn. Dir. Lav. Rel. Ind. I, 1, diretto da Gino Giugni, Edizioni Franco Angeli, Milano,
1994, pp. 2-4.