soluzione che avrebbe comunque assicurato una sopravvivenza
dignitosa. I destini dunque erano segnati, ma c’era una certa
differenza tra i maschi e le femmine. Se anche i figli cadetti
venivano destinati alla vita ecclesiastica contro la loro volontà,
avevano comunque un certo margine di libertà e la possibilità di
fare carriera.
Il fenomeno delle monacazioni forzate è difficile da tracciare
anche se la malmonacata diviene un’icona emblematica nella
storia delle donne creando una serie di figure immaginate o reali
sempre in bilico tra la rinuncia alla vita e la disobbedienza alla
regola. Ma la monacata a forza che si ribella non è solo una
donna che cerca in qualche modo di ritrovare i propri spazi, è
anche e soprattutto la sposa di Cristo che ha rotto un voto
solenne, infranto un vincolo eterno ed è fuggita, è impazzita, si è
uccisa o ha cercato consolazioni terrene sempre in lotta tra il
sacro e il profano, tra misticismo e peccato, tra castità ed
erotismo. E’ un tema trasversale che attraversa i secoli, dal
Medioevo al Novecento, e i generi, da quello “alto” e poetico di
Dante al quello osceno e comico di tanta produzione popolare.
Come non ricordare, per citare i più famosi, la Novella seconda
della nona giornata del Decamerone di Boccaccio, il quale in
tutta l’opera peraltro non manca di descrivere i costumi licenziosi
2
di frati e monache, Avventura con la monaca di Chambéry o con
MM, di Casanova, Arcangela Tarabotti, Gertrude de I Promessi
Sposi, la Storia di una Capinera di Verga, La Suora Giovane di
Giovanni Arpino o i personaggi di ieri e di oggi de L’Uovo di
Gertudrina di Laura Pariani.
Il fenomeno delle monacazioni forzate comunque doveva essere
antico e ben radicato se persino il Concilio di Trento ritiene di
doversene occupare:
«Sottopone il Sacro concilio all’escomunicatione tutti, e ciascuno
di qualunque qualità e conditione essi siano, così chierici come
laici, secolari e regolari e in qualunque degnità costituiti, se per
qualunque modo haveranno sforzato alcuna vergine o vedova
over altra qual si sia donna contra sua voglia, eccetto ne casi
espressi in iure, ad entrar ne monasteri, over a pigliar l’abito di
qual si voglia Religione, o a fare professione a che haveranno
dato in questo caso consiglio, aiuto o favore e chi sapendo quella
non entrar spontaneamente nel Monasterio, overo pigliar l’abito,
o vero far professione, haveranno in qualunque modo interposto
o la presentia o il consenso o l’autorità…»
1
Il Concilio di Trento
1
Canone XVIII del Concilio di Trento cit. in Giovanna Paolin, Lo spazio del silenzio monacazioni forzate, clausure e
proposte di vita religiosa femminile nell’età moderna. Montereale, Valcellina, 1998, pag.31
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rappresento un momento di svolta per la vita claustrale. Fino a
quel momento il convento aveva rappresentato una adeguata
sistemazione per una ragazza di buona famiglia che non doveva e
non poteva essere maritata ma che nonostante ciò continuava a
fare una vita abbastanza spensierata, stava più spesso in famiglia
che in clausura e ciò veniva accettato anche dalla gerarchia
ecclesiastica. Potremmo senz’altro affermare che in molti casi la
monacazione era una sistemazione che conferiva alle donne uno
status sociale che permetteva loro poi di condurre la vita che
volevano. I conventi erano aperti e si potevano ricevere visite di
ogni genere, ma si poteva anche uscire piuttosto liberamente e
intrattenere rapporti sociali. Non è un caso che tanta letteratura
abbia abbondato nell’utilizzo di storie licenziose sui conventi.
Insomma la vita era tutt’altro che pia e ascetica. Il Concilio di
Trento pose fine a tutto ciò e se da un lato si preoccupò di
limitare (almeno formalmente) le monacazioni forzate dall’altro
il vento moralizzatore che si era abbattuto sulla Chiesa con la
riforma obbligava a porre rimedio a quella allegra gestione. Si
alzarono muri, si chiusero finestre e porte, si costruirono grate e
le monache furono recluse per sempre. A nulla valsero proteste e
ribellioni (per la verità poche), i conventi si chiusero al mondo
4
Ma nonostante le nuove regole le fanciulle continuano ad entrare
in convento contro la loro volontà e le testimonianze che
abbiamo, non sono come sarebbe ovvio pensare, le loro, ma
ancora una volta documenti ufficiali di uomini di chiesa e non
che cercano di arginare il fenomeno. La famiglia agiva sulle
figlie quasi mai con violenza, era più diffusa la persuasione e
l’insistenza. Manzoni ci regala delle pagine sublimi su come la
piccola Virginia sia stata educata e su come poi il padre, e non
solo lui ma tutto il contesto familiare a cominciare dalla serva, si
comportino in modo che alla ragazza non resti altra scelta e
rinunci a qualunque tentativo di ribellione. Scrive un avvocato
milanese, Pietro Antonio Prandoni, attorno alla metà del
Seicento: «Altri [padri], che si mostrano più astuti, non tengono
mai parola di queste cose alla fanciulla, ma nei fatti pure a tal
punto la conducono che, vedendosi mal sopportata in casa, le
sembri di entrare in Paradiso, quando fa ingresso nel Monastero.
Ne ho udito alcuni dar questo consiglio come degno di persona
saggia: esser opportuno preparare in casa alle bambine un
Purgatorio, affinché di loro spontanea volontà cerchino di
uscirne».
2
2
Ibidem pag 43
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«Ad alcune non ancora generate – o esecrabile crudeltà paterna!
– vien da’ genitori assignato il monastero per abitazione, onde,
non così tosto nate, odono intonarsi alle orecchie il nome di
monacha anche prima che l’appiano profferire. Innventione
diabolica, tradimento accorto e perfidi inganni che insegniano
alle misserelle e innocenti e semplici ad esprimer con lingua
balbetante quel nome che a suo luogo e tempo è da loro così
fervidamente aborrito! Queste , in tal guisa allevate, sempre con
speciosi tittoli e vocaboli di religione tottalmente dannosi, a
credere che Iddio le voglie tali e per tali l’habbia segniate, né
s’accorgono che non son state poste al mondo dissimili dalle
maritate, ma che queste son astutie inventate per ingannarle. Così
poscia pare che di propria volontà s’inducano a quell’ingresso et
elettion di vita che nel tempo della perfetta cognitione è da loro
aborrita et odiata in paragon di morte. Ben poi tardi s’avedono
che “erraverunt in cogitatationibus suis. […]
Non può già l’humana mente immaginarsi maggior sceleragine di
quella che commetton questi padri, che fan quasi l’offitio di
Caronto nel traghettar le loro figlie a quelle rive oscure alle quale
può ragionevolmente darsi titolo d’Inferno per le serate monache,
poi ché vien dinegato lo sperarne mai più l’uscita. Se l’Evangelo
dice che “In Inferno nulla est redentio” et che “Ibi erit fletus ed
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stridor dentium”, queste son conditioni che rendono poco
dissimile il monastero dagli abbissi infernali»
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È poco probabile che la Caracciolo conoscesse le memorie di
suor Arcangela Tarabotti,
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anch’essa monaca benedettina scritte
prima del 1650, ma il tema è simile come anche molto ricorda la
descrizione dell’infanzia e dell’educazione che fa il Manzoni
della piccola Virginia.
Salvaguardia di patrimoni, doti costose, soluzione del problema
ereditario e del mantenimento di figlie o sorelle non maritate
erano la principale ragione della scelta del chiostro da parte di
padri o fratelli che non volevano accollarsi l’onere di maritare o
mantenere figlie o sorelle. Inoltre la legislazione prevedeva che al
momento di entrare in convento la fanciulla, se proprietaria di
beni, facesse testamento a favore del parente più prossimo, e
questo non faceva che aumentare le possibilità che una giovane,
soprattutto se rimasta orfana, venisse forzata dai loro tutori .
Strana legge questa che implica anche un significato più
profondo e recondito: il convento equivale alla morte.
Se per i maschi cadetti spesso al seminario era preferita la
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Francesca Medioli, L’Inferno monacale di Arcangela Tarabotti, Torino, Rosenberg & Sellier, 1990, pp..35- 37
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Il manoscritto dell’Inferno monacale, conservato presso l’Archivio privato Giustiniani potrebbe essere databile intorno
alla seconda metà del XVIII secolo in copia anonima non autografa.
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carriera militare, le figlie femmine non avevano scampo. Ed è
singolare come in tutte le poche testimonianze che abbiamo
ricorra il tema della persuasione o addirittura la reclusione in
convento fin dall’infanzia.
Le monacazioni forzate non erano foschi e isolati episodi legati
alla particolare crudeltà del singolo. Francesca Medioli in un
articolo apparso su Clio del 1994
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esamina alcuni casi di
monache che si sono ribellate al loro destino. Purtroppo il
materiale è scarso e per avere prove attendibili si è rivolta ai
documenti relativi ai processi di nullità , bolle papali, relazioni di
congregazioni. Questa documentazione, comunque, costituisce
soltanto la punta di un iceberg, non c’è infatti nessuna
testimonianza di tutte quelle che si sono arrese o che hanno
violato i voti pur rimanendo in convento. Gli scandali che ogni
tanto scoppiavano nei conventi non sono necessariamente legati
al fenomeno della monacazione forzata, e anche quando questo
risulta evidente la stessa monaca preferisce portare a sua difesa
argomentazioni di tipo diverso piuttosto che appellarsi al fatto di
essere stata obbligata dalla famiglia, come per esempio risulta
dalle dichiarazioni fatte durante il proprio interrogatorio da
Marianna de Leyva nel 1607 in cui dichiara di essere stata
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Francesca Medioli ,Monacazioni forzate: donne ribelli al proprio destino, in Clio rivista trimestrale di studi storici,
1994 n.3, pp.431-454
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