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La seconda parte (capitoli 3, 4, 5), si occupa delle emozioni: dai concetti generali
su cos’è un’emozione e come si manifesta, all’importanza della socializzazione e
dello sviluppo emotivo. Vengono inoltre descritte le cinque emozioni considerate
nella nostra ricerca, facendo riferimento alla letteratura esistente in materia.
Al tema della regolazione emozionale è dedicato un capitolo a parte (capitolo 5),
in quanto ci è sembrato il processo centrale in cui, forse più che in altri momenti
del processo emotivo, si esplica l’influenza della cultura.
Oltre a descrivere come questo processo si esplichi e come rifletta le
caratteristiche culturali degli individui, abbiamo considerato, in una prospettiva
evolutiva, come esso si evolve nel corso dello sviluppo del bambino.
La terza parte (capitoli 6 e 7), si occupa più specificatamente della relazione tra
emozioni e cultura: viene fatta un’analisi della problematica inerente gli aspetti
universali e culturalmente specifici del fenomeno emotivo ed una panoramica
delle principali differenze inerenti le emozioni che possiamo riscontrare tra
culture diverse.
Nel capitolo 8, ci occupiamo invece di aspetti più propriamente educativi, relativi
allo sviluppo delle competenze emotive e a quello che, la scuola in particolare e
l’educazione più in generale, fanno per raggiungere questo obiettivo nel bambino.
Infine, viene presentata la ricerca (capitolo 9), con la descrizione delle scelte fatte
per esaminare questo argomento e le procedure utilizzate.
Nei due capitoli seguenti, vengono presentati e discussi i risultati.
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CAPITOLO 1:
LA CULTURA
1.1 La cultura come contesto
“La cultura forma la mente”, dice Jerome Bruner, “essa ci fornisce l’insieme degli
attrezzi mediante i quali costruiamo non solo il nostro mondo, ma la nostra
concezione di noi stessi e delle nostre capacità” (Bruner, 2002, p.8).
Sono la partecipazione dell’uomo alla cultura e la realizzazione delle potenzialità
della sua mente attraverso la cultura che impediscono di considerare l’essere
umano solo da un punto di vista naturale.
La cultura e la mente si compenetrano in modo tale che ogni comportamento è
inevitabilmente culturale.
La cultura infatti, agisce virtualmente su tutti gli aspetti del comportamento e
dell’esperienza umana: il nostro modo di percepire il mondo dipende
dall’acculturazione ricevuta nella società dove siamo cresciuti.
Bruner afferma che l’elaborazione del significato che noi attribuiamo ad ogni cosa
o evento ha una natura culturale, essendo legato allo scambio interattivo
all’interno del quale vengono veicolati gli elementi di base che caratterizzano una
cultura: non c’è interazione che non sia culturalmente mediata.
La nostra visione della realtà è filtrata dai sistemi simbolici di riferimento, la
nostra rappresentazione del mondo è in gran parte costituita da regole
socioculturali, da convenzioni linguistiche. Di conseguenza, il significato è
continuamente oggetto di negoziazione interpersonale.
La vita mentale viene vissuta con gli altri, è fatta per essere comunicata e si
sviluppa con l’aiuto di codici culturali, tradizioni e simili.
Questa posizione è condivisa anche da Geertz, che scrive che “il pensiero umano è
in primo luogo un atto palese svolto con i materiali oggettivi della cultura
comune, e solo secondariamente una questione privata” (Geertz, 1988, p.106).
Mantovani (1998), per spiegare la consistenza dei fatti culturali sulla nostra vita e
sull’educazione dei bambini in particolare, introduce una metafora, quella
dell’elefante invisibile, che illustra in maniera efficace come tale consistenza sia
difficilmente percepibile, addirittura “invisibile”, fino a quando si resta all’interno
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della stessa cultura, ma che diventa evidente, con le proporzioni di un elefante,
mettendosi in una diversa prospettiva.
Come un grosso elefante, la cultura lascia la sua impronta su tutto ciò che siamo e
facciamo, sebbene ciò non sia sempre evidente.
La cultura per Mantovani è un sistema di strutturazione cognitiva dell’esperienza:
tutta l’attività cognitiva individuale è permeata dall’influenza dell’ordine
simbolico, i processi cognitivi di base sono culturalmente determinati.
L’individuo non può quindi essere compreso separatamente dal suo contesto, dalla
sua cultura di appartenenza: è necessario prestare attenzione agli ambienti in cui le
persone vivono se si vuole comprendere il senso delle loro azioni.
All’interno di questo approccio culturale vi sono comunque posizioni differenti:
c’è chi considera la cultura il fattore più determinante dello sviluppo umano, e chi
invece assume posizioni più sfumate, ritenendo che si tratti di un’interazione tra
caratteristiche individuali e ambiente di vita.
In ogni modo, attualmente l’attenzione degli studiosi di psicologia dello sviluppo
va al “bambino-nel-contesto”.
A seconda della cultura e del sistema di organizzazione sociale al quale
apparteniamo, il nostro comportamento, le azioni e le credenze sottostanti
assumeranno un significato diverso, con delle notevoli conseguenze anche sul
piano dello sviluppo.
Nel generale processo di adattamento al mondo che ha luogo nell’infanzia, il
bambino inizia ad usare le “attitudini culturali”, ovvero i segni, che lo aiutano a
risolvere svariati compiti o problemi e ad affrontare le varie situazioni.
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1.2 La prospettiva culturale
La prospettiva culturale ribalta l’idea corrente che l’individuo sia il punto di
partenza dell’interazione sociale: essa sostiene che è la cultura che conferisce
esistenza e identità a individui, gruppi ed organizzazioni.
Come sostiene Geertz, “senza uomini certamente non c’è cultura, ma allo stesso
modo senza cultura non ci sarebbero uomini […] poiché siamo animali incompleti
o non finiti, che si perfezionano attraverso la cultura” (Geertz,1988, p.64).
Le risorse culturali sono quindi ingredienti fondamentali, e non semplici
accessori, del pensiero umano.
Che cosa sia la cultura è un problema aperto, darne una definizione è cosa assai
difficile. Alcuni problemi sembrano derivare dal fatto che essa designa sia un
processo, il trasmettere ciò che è stato appreso a generazioni successive, sia una
particolare classe di cose, per esempio, la conoscenza condivisa.
“Una definizione di cultura come processo, indicherebbe tutto ciò che viene
trasmesso mediante apprendimento da una generazione all’altra, ma le cose
trasmesse sono davvero tante, e non tutti sarebbero d’accordo nel considerarle
sempre cultura. Una seconda strategia consiste invece nel definire la cultura sulla
base di precisi contenuti, il problema in questo caso è che esistono diversi tipi di
contenuti: quali dovrebbero essere definiti cultura?” (D’Andrade, 1997, p.140).
Sul finire degli anni Cinquanta, con la diffusione delle teorie cognitive, si giunse a
guardare alla cultura come a un sistema di conservazione delle informazioni, con
funzioni simili a quelle svolte dal DNA delle cellule: come esso fornisce
l’informazione necessaria all’auto-regolamentazione e alla crescita differenziata
degli individui, così le istruzioni necessarie per affrontare l’ambiente e realizzare
ruoli specifici sono date agli uomini dalle informazioni apprese, che vengono
codificate simbolicamente e trasmesse culturalmente.
Negli anni Ottanta, si è affermata una concezione secondo cui la cultura
funzionerebbe come un programma di computer. La cultura, secondo tale visione,
non è una serie di modelli concreti di comportamento (usanze, tradizioni,
abitudini), ma è un insieme di meccanismi di controllo (piani, ricette, regole),
come quelli che i progettisti chiamano programmi, che servono ad orientare il
comportamento. Come un computer opera attraverso un programma consistente in
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una serie di regole che prescrivono come muoversi in varie condizioni, così
l’individuo può operare attraverso un programma culturale (Geertz, 1988).
Questa visione non è però soddisfacente in quanto porta con sé un potenziale
equivoco, facendo pensare alla cultura come a qualcosa che ingloba gli individui
e, come uno stampo, rende uniformi le credenze e i comportamenti delle persone
(Mantovani, 1998).
Secondo quanto emerso dal Convegno di Psicologia Culturale del 1999
(Spagnolli, 1999), il concetto di cultura va inteso come un repertorio di risorse
interpretative, non un contenitore che si impone sulle persone e le modella a sua
immagine e somiglianza, ma una rete di riferimenti pratici costantemente
rimodellati nelle relazioni stesse.
La cultura, quindi, è costituita da pratiche socialmente accettabili e riconoscibili
che servono per dare significato alla realtà e per interpretare le circostanze
quotidiane.
Le culture non forgiano direttamente specifici tratti o disposizioni, ma forniscono
all’individuo dei modi per interpretare e classificare la realtà, dei copioni di
comportamento, che costituiscono la base dell’uniformità osservabile all’interno
di una stessa cultura.
Il confronto tra rituali di culture diverse ha evidenziato, al di là delle innegabili
differenze esteriori, alcune somiglianze di fondo.
Molti rituali, spesso ben diversi sul piano esteriore, sono elaborazioni culturali di
strategie elementari di interazione, il cui fondamentale modulo comune rimane
spesso nascosto e invisibile, proprio a causa del “rivestimento” della cultura.
In realtà, si tratta di forme diverse di moduli di interazione universali, di strategie
interattive elementari che vengono sottoposte ad un’elaborazione culturale
specifica.
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1.3 Le funzioni della cultura
Quali sono le funzioni della cultura?
Anzitutto, la cultura svolge una funzione di mediazione, è il tramite tra noi e il
mondo esterno.
La cultura rende infatti possibili le relazioni tra individui, dando ad esse una
cornice. Essa permette di attribuire un’etichetta alle relazioni tra individui e di
classificarle in tipi, consentendo l’esistenza di un insieme limitato di ruoli,
implicanti diritti e doveri, definiti nell’ambito delle istituzioni entro ciascuna
società.
La cultura influenza anche i nostri giudizi: la soluzione dei problemi (problem
solving) dipende dal modo in cui essi vengono impostati (problem setting),
all’interno di una data cultura.
Le nostre decisioni risentono della cornice in cui collochiamo il problema che
abbiamo di fronte.
Quasi senza rendercene conto, esploriamo la realtà con l’aiuto delle mappe che la
cultura ci mette a disposizione: “una mappa per esplorare la realtà: ecco cos’è la
cultura. Essa media tra individui e ambiente avvolgendoli in una rete di senso”
(Mantovani, 1998, p.117).
L’esperienza ci insegna l’ordine di priorità adatto per esplorare il mondo che ci
circonda, ma è la tradizione che ci dice quali siano le esperienze che dobbiamo
fare e come le dobbiamo fare.
Attraverso una rete di analogie, la cultura collega aree diverse della realtà e
attribuisce a ciascun elemento un significato definito e comunicabile. Essa
permette ai membri di ciascun gruppo di condividere simboli che impongono un
ordine al mondo, classificando i fenomeni in maniere più o meno specifiche a quel
gruppo e diverse da quelle che si incontrano in altri gruppi.
Il sistema di categorie che organizza l’esperienza delle persone ha origine dalla
cultura: gli individui interpretano le situazioni facendo ricorso ad un repertorio di
categorie preesistenti, che non sono prodotte dalle menti individuali, ma sono
trasmesse dalle comunità in cui quelle persone sono iniziate alla vita sociale.
Ogni cultura insegna ai suoi membri che cosa sia onorevole, cosa valga la pena
desiderare, in che cosa consista la dignità.
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L’esistenza di questo repertorio è ciò che permette alle persone di agire secondo
fini socialmente riconoscibili e di comunicare con gli altri (Eibl-Eibesfeldt, 1992).
Ciò che la cultura trasmette è un corpus organico di principi incarnati nelle
pratiche: essa ci dice cosa fare, come farlo e perché farlo, ci fornisce cioè un
grande repertorio operativo, fatto di scopi e di azioni reciprocamente riconoscibili,
a cui le persone ricorrono per costruire i loro progetti di vita.
La rete di senso in cui la cultura avvolge la realtà ha dei “buchi”, come ogni rete.
Essa funziona proprio grazie ai suoi buchi, che le consentono di trattenere
qualcosa e di lasciar passare tutto il resto.
Le reti di senso che le culture costruiscono sono infatti mappe che privilegiano
certi aspetti della realtà a danno di altri.
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1.4 L’acquisizione della cultura
Il comportamento sociale coordinato non sarebbe possibile se non ci fossero
regole che lo guidano in tutte le situazioni in cui gli individui vengono a trovarsi.
Le regole sono nella maggior parte dei casi implicite e il rendere abituali,
familiari, condivisi tra un bambino e un adulto i gesti, i comportamenti e le azioni,
diventa il fondamento del processo di socializzazione e acculturazione.
Possiamo dire che il compito della cultura è quello di garantire che le credenze, i
valori e le conoscenze di maggiore importanza siano adeguatamente appresi ed
espressi nel sistema di simboli disponibili, così come è compito dell’individuo,
sfruttando le sue competenze intellettive, padroneggiare e poi utilizzare questi
sistemi di simboli
“E’ attraverso l’interpretazione dei gesti e delle azioni ripetuti, consolidati nelle
routine di ogni giorno, che il bambino trova il suo posto nel mondo delle relazioni
e apprende la cultura del gruppo a cui partecipa, le sue regole, i suoi ruoli, le
pratiche che strutturano quella realtà” (Emiliani, 2001, p.55).
Le creazioni attraverso cui le conoscenze culturali sono trasmesse all’individuo
con le sue competenze intellettive, costituiscono dei sistemi di simboli.
Questi sono costituiti da elementi fisici (come disegni, testi), o immateriali (come
le parole, i pensieri), attraverso cui la conoscenza può essere catturata e trasmessa
da un individuo all’altro.
Uno dei compiti fondamentali dei sistemi di significati è quello di guidare le
reazioni e i comportamenti umani.
L’apprendimento di un sistema di significati non dipende, per chi lo apprende, da
un automatico e involontario rispetto di certe regole. Piuttosto, “diversi elementi
del sistema di significati vengono ad acquisire una forza direttiva, vissuta dalla
persona come necessità o come obbligo di fare qualcosa” (D’Andrade, 1997,
p.119). Ogni cultura umana, ha una forza “direttiva” che obbliga i suoi membri ad
adattarsi alle sue caratteristiche, pena l’esclusione, l’ostracismo, la pazzia.
Le agenzie di socializzazione culturale come la famiglia e la scuola, e più in
generale l’organizzazione della vita di tutti i giorni in una data cultura, si sforzano
di costruire individui che si adattano al meglio alle richieste ambientali.
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Le sanzioni sociali, la pressione verso il conformismo, una più intrinseca
gratificazione diretta, agiscono probabilmente insieme, unitamente ai valori, per
conferire a un particolare sistema di significati la sua forza direttiva.
La cultura motiva gli individui, indicando loro gli obiettivi a cui tendere, essa
fornisce ai suoi membri i criteri per compiere valutazioni, ma non attraverso un
insieme di regole e prescrizioni che dirigono le azioni delle persone: non affida i
suoi valori a sistemi astratti di regole, quanto piuttosto a modelli attraenti
(Mantovani, 1998).
Tuttavia, la forza prescrittiva di tali modelli è moderata dalla capacità
dell’individuo di organizzare in modo autonomo il proprio comportamento
(Dogana, 2002).
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1.5 Modi e luoghi di trasmissione
Ci sono molti luoghi e modi di trasmissione di cui le culture possono servirsi per
trasmettere la conoscenza attraverso le generazioni.
Per quanto riguarda i luoghi, i processi attraverso cui passa la conoscenza possono
riguardare la casa, la comunità, specifiche istituzioni (come la scuola o la chiesa).
Gli individui implicati possono essere i genitori, i fratelli, i coetanei, individui
designati appositamente dalla società, come insegnanti, maestri di qualsiasi tipo.
Per quanto riguarda i metodi di trasmissione, la forma più semplice è forse la vera
e propria imitazione, o apprendimento mediante osservazione, dove l’esperto
esegue e il principiante, immediatamente o alla fine, ripete, anche se non sempre
adeguatamente, i gesti essenziali.
Questo metodo sembra essere adottato spontaneamente dai bambini piccoli di
tutto il mondo. Infatti, per molti tipi di apprendimento la sola osservazione è
sufficiente a produrre una competente esecuzione.
La semplice osservazione spesso è integrata da forme più specifiche di istruzione,
come le istruzioni verbali, i gesti, gli incentivi.
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1.6 Psicologia Culturale e Transculturale
Esistono due discipline che, pur tenendo entrambe in considerazione l’influenza
del contesto culturale sullo sviluppo umano, sono profondamente diverse per
quanto riguarda il quadro di riferimento teorico, la metodologia e gli obiettivi: la
psicologia transculturale ( o cross-culturale) e la psicologia culturale.
La prima fa parte della corrente “principale” della psicologia ed è interessata a
confrontare in maniera oggettiva individui appartenenti a culture diverse per
verificare l’impatto della cultura sul comportamento e sul funzionamento
psicologico.
La seconda, invece, nasce dall’incontro tra psicologia, antropologia e linguistica e
si propone di esaminare le origini culturali delle differenze nel funzionamento
psicologico e nello sviluppo umano, considerando la cultura e l’individuo come
un’unità di studio inscindibile (Axia, 2001).
La psicologia transculturale studia gli aspetti generali del comportamento, i
parametri universali della struttura del sistema culturale.
La psicologia culturale considera invece il comportamento come indistinguibile
dalla cultura, quindi comprensibile solo in base ad essa.
Secondo Smorti (2003), le differenze tra le due discipline concernono soprattutto
tre aspetti:
- separazione-non separazione tra mente e cultura;
- approccio universalistico-particolaristico;
- uso di un modello esplicativo causale-circolare.
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1.6.1 La psicologia transculturale
La psicologia transculturale adotta una posizione universalista nello studio dei
fenomeni psicologici, concentrandosi sulle differenze individuali legate a variabili
culturali.
Il presupposto da cui parte è che i processi psicologici di base siano comuni a tutti
gli esseri umani, e quindi universali, mentre la loro espressione sarebbe mediata
dalla cultura.
In altre parole, si assume che funzioni quali il linguaggio, il pensiero, la
percezione, l’emozione, siano presenti in tutte le persone in ogni parte del mondo;
tuttavia, i fattori culturali influenzerebbero il modo in cui queste funzioni si
sviluppano e si manifestano in contesti diversi.
Di conseguenza, gli psicologi transculturali sono interessati alla natura e alla
portata della diversità umana, e alle cause di tale diversità, considerando
l’appartenenza culturale come il fattore principale che contribuisce alle differenze
individuali nel comportamento.
Lo scopo è quello di rilevare l’impatto del contesto culturale su certe variabili
psicologiche, come l’intelligenza, la personalità, etc. Poiché il comportamento
viene considerato “esterno” alla cultura, le variazioni in tali variabili sono
considerate effetti della cultura sull’individuo.
I metodi utilizzati sono per lo più quantitativi ed oggettivi, i confronti tra
comportamenti di ambienti diversi devono essere fatti con mezzi di misurazione
equivalenti.
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1.6.2 La psicologia culturale
L psicologia culturale, al contrario, adotta una posizione di relativismo culturale,
secondo cui le differenze psicologiche degli individui sono quasi esclusivamente
dovute alle differenze nei contesti culturali in cui essi si sviluppano.
In altre parole, ogni differenza culturale osservata sarebbe frutto della variabilità
che caratterizza i diversi contesti culturali.
Il confronto tra culture è ritenuto di scarso interesse, poiché l’accento è posto sulla
specificità e sull’unicità che caratterizzano un particolare contesto. In tal senso,
l’interesse scientifico è rivolto più alle differenze che alle somiglianze tra culture
e quando si incontrano delle differenze culturali, esse sono interpretate in senso
“qualitativo”, in termini di diversi stili che gli individui possono mostrare
nell’affrontare le varie situazioni (Axia, 2001).
Cultura e comportamento sono qui considerati come indistinguibili e inseparabili,
due fenomeni che si completano a vicenda. Pertanto, non possono essere compresi
isolatamente l’uno dall’altro.
Ne deriva che l’interesse del ricercatore non è più rivolto alla relazione di causa-
effetto (ipotizzata dalla psicologia transculturale), tra fattori culturali e differenze
individuali, bensì alle variazioni reciproche di questi aspetti nel sistema culturale.
Come sostenuto da Smorti: “La psicologia culturale non è una disciplina che
intende dimostrare in che misura e in quali modi noi siamo influenzati dalla
cultura nella quale viviamo […] è un punto di vista con cui studiare e
comprendere la vita mentale […] è un approccio che si fonda sulla nozione che la
mente “si appropri” di pezzi della sua cultura” (Smorti, 2003, p.23).
Per quanto riguarda i metodi, si propone la partecipazione in prima persona alla
vita comunitaria di una determinata cultura e l’uso di categorie e di valori tipici
della cultura stessa per descrivere, misurare ed interpretare i fenomeni osservati.
Poiché la cultura è intesa come un sistema di significati costituito da valori,
tradizioni e modi di pensare caratteristici dei membri di una determinata società,
ci si basa prevalentemente sull’osservazione e sulla descrizione: compito del
ricercatore è stimolare le persone a spiegare il senso che per loro hanno certi
comportamenti o pratiche in un particolare contesto.
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Nell’approccio transculturale, lo psicologo si pone al di fuori del sistema cultura
che intende esaminare, mentre nella psicologia culturale si pone all’interno del
sistema culturale e concepisce cultura e mente come due subsistemi di un sistema
più ampio, e in quanto tali inscindibili.
Essendo all’interno del sistema cultura, il suo approccio sarà più interpretativo che
causalistico, al contrario la psicologia transcultuale esaminerà le influenze causali
della cultura sulla mente.
1.6.3 Un’integrazione?
La psicologia transculturale e quella culturale sono davvero due prospettive
inconciliabili?
I due approcci non sono in realtà così separati, sono entrambi necessari allo studio
dell’individuo, si deve poter passare flessibilmente dall’uno all’altro, poiché “non
si può rispondere alla domanda sulla specificità dell’esperienza del soggetto se
non si risponde a quella sulla tipicità, e viceversa” (Smorti, 2003, p.81).
Anche da un punto di vista metodologico, i due approcci non si escludono a
vicenda, ma possono costituire passi successivi di una ricerca (Berry, 1992).
Psicologia transculturale e culturale sono discipline che pongono istanze teorico-
metodologiche legittime ma incomplete, in quanto, come già detto, la prima si
sofferma sulla diversità culturale e la seconda ne sottolinea la somiglianza.
In conclusione, entrambe sembrano essere necessarie per comprendere la realtà
culturale, di conseguenza, più che due orientamenti diversi devono essere
considerate due visioni complementari.