3
pratiche di governo, infatti, intrattengono uno stretto rapporto con la sfera della vita
e del benessere materiale, morale e della salute: esse tendono a rafforzare e
garantire la salute del corpo collettivo.
Proprio per questo, nel mio percorso di ricerca, è stato inevitabile il riferimento al
concetto di biopolitica elaborato da Michel Foucault. Essa si presenta come insieme
di strategie volte a garantire e rafforzare il corpo collettivo attraverso il controllo
degli eventi che potrebbero danneggiarlo, indebolirlo, diminuirne le energie, e in
generale, compromettere la salute, l’attività e la sicurezza degli individui.
E’ necessario, a questo punto, chiarire i tratti generali del concetto di biopolitica. Mi
riferirò qui all’ultimo capitolo de “La volontà di sapere”
2
dove Foucault descrive il
processo attraverso cui la vita naturale entra a far parte dei meccanismi e dei calcoli
del potere dello Stato; ciò avverrebbe, secondo Foucault, agli inizi dell’età moderna.
Nella genealogia che egli fa del potere, stabilisce una dicotomia tra il principio della
sovranità e la biopolitica stessa che si configura come forma di governo degli
uomini distinta dalle canoniche espressioni del potere sovrano.
Nell’emergere del potere biopolitico, infatti, perde importanza la legge come
strumento della sovranità. Questo nuovo potere ha bisogno di meccanismi continui
e correttivi, regolatori; la legge comincia allora a funzionare come una norma,
integrando sempre di più l’istituzione giuridica in apparati con funzioni regolatrici;
lo scopo di questo nuovo potere che agisce sulla vita è, infatti, proprio quello di
approntare dei meccanismi di sicurezza intorno a quanto vi è di imprevedibile nella
vita degli esseri umani. Il problema diventa quello di prendere in gestione la vita
biologica dell’uomo e di assicurare su di essa non tanto una disciplina quanto
piuttosto una regolazione. E’ un tipo di potere questo, che la sovranità non è più in
grado di gestire.
In “Sicurezza, territorio, popolazione”, delineando il concetto di “governamentalità”
Foucault dice: “finché l’esercizio del potere è stato pensato come esercizio della
sovranità, l’arte di governo non poteva svilupparsi in modo autonomo”
3
. Il fine
2
M. Foucault 1978 :119 e seg.
3
M. Foucault 2004:82
4
della sovranità era il bene comune, che però coincideva fondamentalmente con
l’obbedienza alla legge e, quindi, con la sottomissione alla sovranità stessa.
L’arte di governo si “sblocca”, si rende autonoma dal potere sovrano solo quando
emerge un nuovo soggetto cui rivolgersi: la popolazione. Tale arte di governo si
configura allora come potere razionale che agisce secondo regole che gli sono
proprie e che non derivano da leggi naturali o divine e che ha come fine quello di
migliorare le sorti della popolazione. Ecco allora la rottura: mentre il fine della
sovranità le era implicito, quello del governo risiede essenzialmente nelle cose che
dirige. Emerge quindi questo nuovo potere che è essenzialmente disciplinare e che
è esterno alla sovranità; le discipline, infatti, non sostengono un discorso che deriva
dalla legge, ma si riferiscono alla norma. Le tecniche disciplinari instaurano un
potere basato essenzialmente sul corpo; il potere non è onnisciente e proprio per
questo deve produrre forme d’indagine, strumenti di controllo. Le discipline
organizzano allora tecnologie di sorveglianza, gerarchie, ispezioni, relazioni sui
corpi al fine di aumentarne la forza vitale e l’esercizio.
Durante il XIX secolo le tecniche disciplinari così concepite, vengono integrate in
un nuovo tipo di potere che non si configura più come disciplinare in quanto non si
applica più al corpo, ma alla vita biologica dell’uomo e che in quanto tale può
essere definito biopotere. A differenza della disciplina questo potere non lavora più
sul corpo individuale, ma agisce su meccanismi globali così da ottenere dei risultati
di riequilibrio.
Il potere biopolitico è un tipo di potere che si fa carico, quindi, della vita, ma in
quest’ottica che ruolo ha allora la morte che pure aveva tanta importanza all’interno
dell’esercizio della sovranità?
Questo è ciò che Foucault si chiede in “Bisogna difendere la società”
4
:la morte
come termine della vita diventa in questo caso anche termine del potere dal
momento in cui questo si riferisce alla vita come suo oggetto privilegiato; essa si
situa al di fuori del potere, l’unico modo in cui il potere si può riferire alla morte è a
livello globale, come mortalità in riferimento alla popolazione. E’ questa la
4
Foucault 1998: 219 e seg.
5
differenza fondamentale tra il potere sovrano e quello biopolitico: la sovranità ha
potere di vita e di morte nel senso di “far morire e lasciar vivere” e in questo
rapporto il soggetto appare solo come un neutro rispetto a cui vita e morte diventano
diritti solo per effetto della volontà sovrana.
Nel biopotere lo squilibrio tra vita e morte si verifica nel senso opposto, questo
nuovo potere è potere di “far vivere e lasciar morire”. Tuttavia questo “lasciar
morire” è pure qualcosa e viene comunque esercitato dal biopotere: la messa a
morte, non necessariamente diretta, avviene per mezzo del razzismo. Questo
permette, infatti, di introdurre una cesura all’interno della popolazione e consente al
potere di suddividerla in sottogruppi e decidere quale deve continuare a vivere e
quale invece è necessario lasciar morire per il bene del gruppo di cui si è fatto
carico:
“La morte dell’altro – nella misura in cui questa morte rappresenta la mia sicurezza
personale – non coincide semplicemente con la mia vita. La morte dell’altro, la morte della
cattiva razza, della razza inferiore (o del degenerato, o dell’anormale), è ciò che renderà la
mia vita in generale più sana, più sana e più pura”.
5
Questo tipo di razzismo non è più solo disprezzo delle razze, ma è strettamente
legato al funzionamento dello stato.
Uno dei modi in cui il razzismo ha agito e agisce è la costruzione di campi in cui
lasciar morire ciò che nuoce al corpo collettivo.
E’ qui che si dispiega la riflessione di Agamben sul campo e lo stato di eccezione
che lo legittima: il campo è “il paradigma stesso dello spazio politico nel punto in
cui la politica diventa biopolitica e l’homo sacer si confonde virtualmente col
cittadino”.
6
5
Ibidem: 221
6
G. Agamben 1995: 191
6
Homo sacer è una particolare figura prevista dal diritto romano arcaico, uccidibile,
ma non sacrificabile, la cui vita è inclusa nell’ordinamento solo nella forma della
sua esclusione, che è poi la sua uccidibilità.
E’ questa la figura che svela il fondamento del potere sovrano e permette ad
Agamben di individuare una connessione tra il modello giuridico istituzionale,
quello della sovranità, e il modello biopolitico che invece nella ricerca foucaultiana
era rimasto in ombra. Questa figura è collocata al di fuori del diritto e messa al
bando dal sovrano; ciò significa che la sua nuda vita si riferisce sempre alla
decisione sovrana che può sottrarla all’uccidibilità.
Nel campo la nuda vita, la vita meramente biologica delle persone internate e
connotate come pericolose, è esposta al libero arbitrio del potere sovrano.
L’origine governamentale del campo è lo stato di eccezione
7
; il campo stesso è
luogo d’eccezione in cui vengono rinchiuse figure sociali eccezionali.
Lo stato di eccezione è sempre legittimato dalla necessità di rimettere ordine a
situazioni di caos creato da stati di emergenza. Attraverso lo stato di eccezione
viene instaurata una sorta di guerra civile assolutamente legale che permette
l’eliminazione fisica di intere categorie di cittadini che non sono ritenuti integrabili
nel sistema politico.
La creazione volontaria di uno stato di emergenza permanente è una delle pratiche
fondamentali degli stati contemporanei. “Lo stato di eccezione tende sempre più a
presentarsi come il paradigma di governo dominante nella politica
contemporanea.”
8
E’ proprio qui che è possibile vedere la risonanza attuale della prospettiva
biopolitica: in tutta una serie di eventi contemporanei, quali, ad esempio, la
diffusione su scala mondiale delle emergenze sanitarie, l’ansia che accompagna i
flussi migratori, il diffondersi delle politiche di sicurezza, si manifesta il rapporto
diretto tra l’esercizio del potere e la vita.
7
G. Agamben 2003
8
Ibidem:11
7
L’internamento dei rom in campi di sosta per nomadi, cosi, come, per esempio, la
creazione e proliferazione dei centri di permanenza temporanea per immigrati
clandestini, ha come finalità la sicurezza pubblica e la sua modalità di azione è la
segregazione spaziale che avviene attraverso pratiche di delocalizzazione.
Le pratiche di zonizzazione urbanistica, la costruzione di campi nomadi in zone
sempre più periferiche della città, sono vere e proprie tecniche di controllo sociale
che obbediscono a principi di ghettizzazione e marginalizzazione delle popolazioni
rom e sinti.
Le delocalizzazioni dei campi fanno in genere sempre riferimento a questioni di
igiene pubblica e alla difesa da diffusioni epidemiche della parte di popolazione che
vive al di fuori del campo, di quella parte di popolazione che il potere ha scelto di
prendere in carico.
Ho deciso di applicare le riflessioni condotte sull’esistenza di un discorso
biopolitico all’interno delle politiche sociali per i rom alla realtà locale della mia
città, Foggia.
La scelta del contesto locale è ricaduta su Foggia sicuramente per ragioni affettive,
ma si è rivelata essere piuttosto proficua dal momento che le frequentazioni avute
sia con il mondo del volontariato, che con quello istituzionale, oltre che,
naturalmente, con gli stessi rom mi hanno permesso di conoscere in che modo la
“questione rom” sia stata gestita a livello istituzionale nel contesto locale.
Dall’analisi che ho effettuato sui discorsi praticati dalle varie figure istituzionali è
emerso un vero e proprio “lessico di biopolitica” che, come tale, fa costante
riferimento al controllo sui rom e alla protezione da garantire al resto della
popolazione, ma che si avvale anche di una retorica paternalista che fa molto spesso
riferimento a diritti di integrazione, tutela e dignità degli stessi gruppi che sottopone
a controllo e che tenta di normalizzare.