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I – Introduzione
I am quite conscius of the violence I must
use doing so. My excuse is that is only
trough the knife of the anatomist that
we have the science of anatomy, and
that the knife of the anatomist is also an
instrument which explore by doing
violence.
God & Golem, Inc.
Norbert Wiener, 1964
La prima volta che aprii un libro di psicologia sociale mi chiesi che ci fosse di
«psicologico» nel nostro stare insieme. Poi misi tra parentesi quello che davo per
scontato sulla socialità, occultata dalla sua quotidianità, e all’improvviso mi accorsi che
stare insieme non è così banale come poteva apparirmi, anzi. Un concerto di processi
cognitivi nascosti alla mia coscienza si presentò d’un tratto nell’interazione con i miei
conspecifici. Scoprii che esiste in me un qualcosa che mi permette di avere degli scambi
sociali, che ha una sua struttura innata ma modulata da ciò che ho appreso nei contatti
pregressi, da quello che ho visto fare e da quello che ho saputo perché mi è stato
raccontato. Insomma, lo stare insieme, così, è una possibilità del nostro esserci, ma
necessità del nostro «essere umani» – l’homo sapiens è homo socius
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, l’uomo per natura
è un animale sociale
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. È vero, l'uomo non è mai stato solo. Certo, è possibile rintracciare
nel nostro lignaggio filogenetico un nostro antenato che amasse la solitudine, a patto
che si risalga agli albori. Nemmeno la storia ontogenetica non è mai una storia di
segregazione. Più tardi leggendo il testo di psicologia di comunità la domanda si
rinnovò, cosa c’è di «psicologico» nell’ambiente sociale? Partendo dal fatto che non si
dia «ambiente sociale» senza socialità, cioè al nostro riuscire a stare assieme, non c’è
stare assieme che non faccia emergere un ambiente sociale. Ora, ambiente è «ciò che sta
intorno» – al soggetto – e quello sociale è la dimensione che si esperisce quando si
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Berger, P. L. & Luckmann, T. (1966) La realtà come costruzione sociale
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Aristotele, Politica
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partecipa alla complessità emergente delle relazioni sociali, che chiamiamo «società».
Compresi di essere un’espressione della società che abito, che ciò che sono è situato in
un campo di forze – l’ambiente sociale – a cui reagisco e reagendo lo altero a mia volta.
Il mio darmi non è nel vuoto, ma è profondamente legato alle cose che ho intorno e che
io sono come una parola che cambiando di contesto cambia significato e a sua volta dà
un altro significato al cotesto. Certamente questa linguistica è solo una metafora, però
quando penso a chi sono, la mia «identità», e cosa faccio, il mio «ruolo», non posso fare
altro che prendere in prestito tutta la società a cui afferisco. Come se non bastasse, per
capirmi e per farmi capire, riproduco molti degli «strumenti culturali» depositati nella
memoria della «comunità» di cui mi sono appropriato – in questo caso ho palesemente
preso in prestito un’idea di Vygostkij
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. Faccio un esempio: quando dico “sono uno
studente universitario” do per implicito che debba esistere qualcosa come una
università, un qualcuno che mi insegni, un tipo di insegnamento e tutta una gamma di
oggetti che non è il caso di enumerare; siccome lo comunico per informare
l’interlocutore, uso una lingua, in questo caso l’italiano, per farmi capire. Bene, per dire
quella semplicissima frase che racconta cosa sono, ho dovuto prendere in prestito delle
istituzioni e dei ruoli altrui e per poterlo trasmettere ho riprodotto un codice linguistico
di cui entrambi siamo a conoscenza.
Questa premessa mi dà l’opportunità di legittimarmi su ciò che scriverò, del perché sia
«psicologica» una sociologia della riproduzione. Se è vero che non possiamo fare a
meno di afferire ad una società per essere ciò che siamo e che il contatto con essa ci
plasma lasciandoci, volenti o nolenti, le sue tracce, allora per comprendere il
comportamento dell'individuo potrebbe essere euristico allontanarsi dall'homo tanto da
poter cogliere l'humanitas nel suo insieme. Sempre sperando che non manchi l'ossigeno,
sarebbe interessante allontanarsi ulteriormente per riuscire a vedere l'humanitas nella
sua nicchia ecologica.
Chiedo ancora un po’ di pazienza perché prima di iniziare con la dissertazione è
opportuno che espliciti alcuni dei termini chiave che più tardi verranno adoperati. Il più
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Vygotskij, L.S. (1934) Pensiero e linguaggio
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critico è di sicuro «medium», cioè quella cosa-che-sta-in-mezzo. Per il senso comune i
media sono quegli strumenti che permettono di comunicare a distanza sia spaziale sia
temporale; in un una accezione più astratta un medium è un qualsiasi oggetto – anche
«naturale», non solo un artefatto – che mette in relazione due istanze non altrimenti
comunicanti. Con questa interpretazione, anche l’organo di senso sarebbe un medium,
ché mette in contatto un qualcosa di fuori con un qualcosa di dentro altrimenti separati.
Sta a noi a decidere l’estensione, se limitarla agli oggetti che costruiamo per trasmetterci
informazioni o a tutto ciò a cui la definizione si attaglia. Lo dico perché se noi
consideriamo un medium anche l’orecchio, per esempio, scopriremmo che una quota
interessante del nostro encefalo è adattata per ricevere l’informazione del medium che
traduce le vibrazioni di un mezzo elastico nella dimensione soggettiva del suono. Questa
versione estesa che do del medium è la stessa dell’interpretazione di McLuhan
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e la
userò accanto a medium intendendo agli artefatti che abbiamo costruito per comunicare.
Non è questa la sede per andare nel dettaglio, ma fare la scelta più estesa comporta una
quantità di problematiche da dirimere da occupare un intero capitolo. Ad esempio, se i
sensi sono media cosa uniscono? Oppure, tornando a cosa capterebbero le orecchie, cioè
le vibrazioni di un mezzo elastico, «mezzo» guarda caso è un modo alternativo di dire
medium: sarebbe molto dura distinguere i medium dai non-medium!
Ogni medium che abbiamo costruito è una tecnologia, ma ogni tecnologia è un
medium? Per la definizione ristretta, no. Il tostapane non è un medium pur essendo una
tecnologia. La «tecnologia» è una seconda criticità perché, come per medium, esiste un
uso ristretto appartenente al senso comune – tecnologia è il nome collettivo di tutti gli
artefatti meccanici, elettrici, elettronici e informatici – e un uso antropologico. Tecnica
(τέχνη) è per Aristotele
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uno dei cinque modi di esercitare il pensiero e viene tradotto
molto spesso con arte. Può essere intesa come l’applicazione di regole al fine originare
una performance che porta al produrre un qualcosa. «Tecnologia» è, in generale, il
discorso sulle performance che portano al produrre un qualcosa, e così la definizione si
distanzia molto dall’uso comune che se ne fa. Ad esempio, quando alzo la mano per
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McLuhan, H. S. (1964) Gli strumenti del comunicare
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Aristotele, Etica Nicomachea, Libro VI. Accessibile all’URL http://goo.gl/VbbWF
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votare ad una assemblea, l’alzare la mano è una performance che mi porta a dare il
consenso e non c’è nulla di meccanico, elettrico, elettronico o informatico –
umanamente parlando. Così, anche il prendere una decisione con il consenso è una
tecnica, anche l’aver creato un’assemblea con un rappresentante col fine di arrivare ad
una decisione condivisa, e così via. Fin dove si estende questa definizione? Il rischio è
di accogliere nello spazio della tecnologia qualsiasi tipo di comportamento che ha un
fine, ma esiste una soluzione ed è quella di non considerare tecniche lo sbadigliare, il
salivare, il digerire, ecc. Sebbene questi comportamenti siano performance che portano
ad un risultato e vengano implementati così e non in altro modo, non sono
deliberatamente sviluppati sul piano della creatività umana per risolvere problemi e
questa è, per me, la condizione necessaria per iniziare a parlare di tecnica e di
tecnologia. Infine, in campo antropologico, la tecnologia di una particolare etnia è ciò
che la comunità condivide come conoscenza riguardo al fare un qualcosa. O, ancora
meglio, la tecnologia è il sistema di predicati falsificabili (epistème) intorno alle
tecniche poste in essere dalla comunità. Tornando al tostapane iniziale, per la
definizione antropologica, non è un medium e non è nemmeno una tecnologia, ma uno
«strumento» che permette di portare a tostatura il pane. La tostatura del pane è una
tecnica e la conoscenza sulla tostatura del pane per mezzo di un tostapane è una
tecnologia.
Nello spiegare l’estensione di medium e tecnologia sono apparsi diversi altri termini
critici che per forza di cose appariranno anche in seguito, questi sono «informazione»
e«conoscenza». Per l’uso che ne farò è opportuno cercare di differenziare
«informazione» da «conoscenza» il meglio possibile. Quest’ultima è, nell’accezione
costruzionistica, una sedimentazione di «informazioni sul mondo» che l’individuo
apprende dall’esperienza e dalla trasmissione culturale, cioè, in breve, dalla
sedimentazione di «informazioni sul mondo» che una comunità ha accumulato durante
il proprio permanere nel mondo. Individuo e comunità si scambiano conoscenze e, nel
loro insieme, danno senso al mondo tout court. In questi termini una «cultura» è una
sedimentazione di informazioni sul mondo accumulata da una particolare comunità in
un dato momento storico – e, allo stesso tempo, la comunità è espressione vivente della
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cultura.
Invece l’«informazione» è un oggetto molto ambiguo ed è entrato prepotentemente nel
lessico contemporaneo nell’ultimo secolo ed ha rivoluzionato il modo con cui ora
guardiamo alle cose. Voler cogliere il concetto può richiedere una buona dose di
astrazione, perché «informazione» è probabilmente il concetto più astratto e fondante
che si possa attualmente impiegare per riflettere sul mondo. Come ho fatto finora mi
rivolgerò all’etimo per trarne una definizione. Informazione deriva da forma e di questa
esistono almeno due possibili provenienze: dal greco phòrein, l’azione del portare; o dal
latino – a sua volta ereditato dal sanscrito – far, l’azione del sostenere, tenere,
contenere. In questo senso l’informazione è ciò che è portato o ciò che contiene, che
tiene-insieme. A dir la verità si è dibattuto parecchio nella storia del pensiero su cosa sia
la «forma» e non scorrerò in rassegna i vari significati, ma possiamo intendere il suo
derivato «informazione» come la cosa della comunicazione e, allo stesso tempo, un
qualcosa che serve per dare organizzazione, per dare-forma. L’informazione dà integrità
ed identità alla cosa come tale – un’altra informazione dà perciò un’altra cosa – e allo
stesso tempo è al centro del traffico comunicativo – gli agenti della comunicazione si
scambiano informazioni organizzando la propria conoscenza di sé e del mondo,
alterando quindi sé e il mondo stesso. La rottura di paradigma apportata nel Novecento
con l’introduzione dell’«informazione» fa sì che io possa considerare un’automobile, ad
esempio, un sistema di informazioni, così come qualsiasi altro tipo di oggetto sensibile
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.
Norbert Wiener (1894-1964), padre della cibernetica, illustra con un immagine poetica
che non siamo altro che vortici in un corso d’acqua sempre fluente. Non siamo cose che
si conformano, ma insiemi che perpetuano se stessi
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. Ecco, il corso d’acqua di eraclitea
memoria a cui si riferisce Wiener è il flusso dell’informazione, e la sostanza – la
categoria aristotelica dell’immutabilità – non sarebbe che un «cristallo di
informazione», un vortice, che mantiene la propria integrità e identità nel torrente
dell’entropia informazionale, sfuggendo per un tempo instabile dalla possibilità caotica
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Per inciso, l’informazione, prima di essere un soggetto della computer science – nome
anglosassone dell’informatica – è un soggetto della meccanica statistica, la branca della fisica che studia
la termodinamica.
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Wiener, N. (1950) The human use of human beings: Cybernetics and Society