INTRODUZIONE
Il lavoro che qui si presenta si incentra sul romanzo dello scrittore catalano Antoni Marí El
camino de Vicennes. L'opera fu pubblicata per la prima volta in catalano nell'estate del 1995 e
tradotta pochi mesi dopo in castigliano per mano dello stesso Marí; si tratta dunque di un caso
particolare di traduzione, in quanto le figure dello scrittore e del traduttore coincidono nella
stessa persona.
La dissertazione si articola in tre parti. La prima è di natura storico-teorica; la seconda è
invece di carattere pratico, in quanto presenta la proposta di una traduzione, dallo spagnolo
all'italiano, dei primi due capitoli del romanzo; la terza e ultima parte è dedicata al testo originale
e contiene il commento alla traduzione e il confronto tra la versione catalana del romanzo,
l'autotraduzione castigliana e la traduzione italiana qui proposta.
García Yebra
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sostiene che l'elemento decisivo per un traduttore –sia esso letterario o
scientifico– è senza dubbio la pratica, ma che anche la teoria svolge un ruolo fondamentale; anzi,
non esiste la pratica senza la teoria. È noto che il concetto di traduzione, pur mantenendo dei
tratti comuni, abbia subito variazioni lungo il corso dei secoli ed è per questo motivo che chi
scrive ha ritenuto opportuno cominciare questa tesi con un breve excursus storico. Nel primo
capitolo, infatti, si tracceranno le principali tappe della storia della traduzione attraverso una
sintesi dei contributi offerti dai principali teorici, dall'età classica fino ai giorni nostri. Nello
stesso capitolo si tratterà il fenomeno dell'autotraduzione, si parlerà delle sue origini e delle sue
prime manifestazioni, si cercherà di fornire una classificazione del fenomeno, se ne esporrà lo
stato dell'arte, si analizzeranno alcune questioni come quella della libertà dell'autotraduttore e dei
motivi per cui un autore decide di tradurre se stesso. Per l'analisi del fenomeno ci si concentrerà
in particolar modo sul caso di Antoni Marí e sulla sua peculiare esperienza nel ruolo di traduttore
di se stesso.
Il secondo capitolo contiene la traduzione in italiano di una parte del romanzo. Delle due
versioni dell'opera si è scelto di tradurre quella in castigliano, scelta dettata dal fatto che, come si
vedrà, per Marì è questa la versione più compiuta. Tuttavia, per una adeguata comprensione del
testo è di fondamentale importanza prendere in considerazione anche l'originale in catalano,
perché può risultare utile sia per captare le sfumature e le sottigliezze più recondite dell'opera, sia
per superare eventuali scogli nella comprensione del testo.
Nel realizzare la traduzione sono stati utilizzati dizionari monolingua, bilingue e dei sinonimi
e contrari, sia cartacei sia online; si sono consultati manuali di filosofia e storia dell'arte e cercato
informazioni generali in siti internet in lingua italiana, spagnola, catalana e inglese.
Ora, il termine “tradurre” deriva dal latino trans ducere, che significa condurre al di là. Nella
sua definizione più semplice, la traduzione consisterebbe nella semplice sostituzione delle parole
di una lingua con altre di un’altra lingua che abbiano lo stesso significato, ma in realtà si tratta di
un'operazione tanto delicata quanto complessa, che consiste nel trasferimento di pensieri e
concezioni del mondo da una lingua in un'altra e quindi da una cultura in un'altra. Perciò, per
tradurre, non è sufficiente la conoscenza perfetta della lingua, ma si deve anche conoscere
1 V. García Yebra, En torno a la traducción. Teoría, crítica, historia, Madrid, Gredos, 1983, p. 38.
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profondamente la cultura che ad essa corrisponde; in questo incontro fra civiltà e culture che è la
traduzione, il traduttore deve tenere conto non soltanto delle regole strettamente linguistiche, ma
anche di aspetti legati al contesto culturale della lingua nella quale il testo originale nasce e a
quello della lingua in cui si traduce
2
. È per questo motivo che nel terzo capitolo la dissertazione
procede con il commento alla traduzione in cui vengono presi in esame diversi fattori, sia
extratestuali sia interni al testo di partenza: si cercherà di contestualizzare l'opera attraverso la
biografia dell'autore, la descrizione della struttura del romanzo e dell'argomento trattato; si
inquadrerà la tipologia testuale e la funzione del testo; si individueranno la dominante e il lettore
modello; ci si soffermerà su elementi quali lo stile e il registro e si analizzeranno gli aspetti
lessicali e, morfosintattici del prototesto; infine, verranno illustrate le scelte traduttive operate
con l'ausilio di esempi per ciascuna di esse. Nell'ultima parte del capitolo, inoltre, verranno
presentati vari esempi tratti dall'analisi comparativa del testo originale con l'autotraduzione,
affiancati dalla traduzione italiana. Tale confronto permetterà di osservare le tendenze
autotraduttive di Marí e di identificare i metodi e le strategie traduttive adottati dall'autore-
traduttore.
2 Cfr. U. Eco, Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Milano, Bompiani, 2003, p. 162.
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CAPITOLO I
ASPETTI STORICI E TEORICI DELLA TRADUZIONE E
DELL'AUTOTRADUZIONE
1. LA TRADUZIONE: BREVE EXCURSUS STORICO
La traduzione ha origini molto antiche e radicate nella storia. In effetti, per quanto si risalga
indietro nel tempo, la figura del traduttore e dell'interprete si ritrovano sempre. Fino al XVIII
secolo per designare l'interprete si utilizza la parola francese truchement (in italiano turcimanno
o dragomanno), termine che proviene dall'arabo targoman o tardjouman e dall'aramaico targum,
che a sua volta deriva dal vocabolo assiro ragamou, parlare
3
. La stessa cultura europea è
strettamente legata alla traduzione e, probabilmente, non esisterebbe se non fosse stato per
l'importante lavoro dei primi traduttori, che con grande impegno tradussero una notevole quantità
di opere dal greco al latino, fra tutte l'Odissea di Omero, tradotta da Livio Andronico nel III
secolo a.C
4
.
Tuttavia, è solo a partire dal I secolo a.C. che assistiamo alle prime riflessioni sul problema e
sul metodo della traduzione, quando Marco Tullio Cicerone, esprimendosi a proposito della sua
traduzione dei Discorsi di Demostene e di Eschine, pose il grande problema teorico che dette
inizio all'eterno dibattito fra traduzione letterale e traduzione libera. Nel suo Libellus de optimo
genere oratorum (46 a.C.), dove si delinea il profilo del perfetto traduttore, l'oratore romano
afferma di aver tradotto i due più eloquenti oratori come oratore e non come interprete
5
:
Io ho tradotto dai due più eloquenti oratori attici due discorsi, notissimi e
antitetici, d'Eschine e di Demostene; ho tradotto da oratore, non già da
interprete di un testo, con le espressioni stesse del pensiero, con gli stessi modi
di rendere questo, con un lessico appropriato all'indole della nostra lingua. In
essi non ho creduto di rendere parola con parola, ma ho mantenuto ogni
carattere e efficacia espressiva delle parole stesse
6
Attraverso la distinzione tra le figure dell'interpres e dell'orator; Cicerone istituisce una
dicotomia che sarà una costante lungo tutta la storia della traduzione. Tale dicotomia vede
3 G. MOUNIN, Teoria e storia della traduzione, Torino, Einaudi, 1965, p. 30.
4 S. NERGAARD (a cura di), La teoria della traduzione nella storia. Testi di Cicerone, San Gerolamo, Bruni,
Lutero, Goethe, von Humboldt, Schleiermacher, Ortega y Gasset, Croce, Benjamin , Milano, Bompiani, 1993, p.
26.
5 Per quanto riguarda le citazioni da opere in lingua straniera e da testi critici, si applicheranno due metodi:
laddove possibile, si manterrà la citazione in lingua originale inserendone la traduzione in nota; qualora sia
disponibile una traduzione ufficiale, la citazione verrà riportata in italiano.
6 M T. CICERONE, “Qual è il miglior oratore” (“Libellus de optimo genere oratorum”, in Tutte le opere di
Cicerone, trad. it. di G. TISSONI, Mondadori, Milano 1973, vol. 17, pp. 33-35), in S. NERGAARD (a cura di), La
teoria della traduzione nella storia, cit., pp. 57-58.
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contrapposti i due principali metodi di lavoro: da un lato la traduzione letterale, parola per
parola, dall'altro lato quella libera, che mira a rendere il senso delle parole. L'oratore romano fu il
primo a sostenere l'importanza di tradurre conservando intatto il significato essenziale del testo
originario, poichè ciò che conta non è il rispetto del numero di parole contenute in una frase,
bensì il loro peso.
Non diversamente si esprime, alla fine del IV secolo d.C., San Gerolamo, dottore della
Chiesa. A lui si deve gran parte della traduzione della Bibbia dal greco e dall'ebraico in latino
conosciuta come Vulgata commissionatagli dal papa Damaso I, di cui era segretario, interprete e
consigliere spirituale. Nella Lettera a Pammacchio, (meglio conosciuta come Liber de optimo
genere interpretandi e scritta alla fine del IV secolo d.C. per difendersi dall'accusa di aver
tradotto in maniera inesatta una lettera del vescovo di Costanza al vescovo di Gerusalemme),
Gerolamo esprime la sua posizione in merito alla traduzione. Egli, nel citare Cicerone –che qui
definisce suo maestro– afferma:
Io per me non solo confesso, ma dichiaro a gran voce che nelle mie traduzioni
dal greco in latino, eccezion fatta per i libri sacri, dove anche l'ordine delle
parole racchiude un mistero, non miro a rendere parola per parola, ma a
riprodurre integralmente il senso dell'originale. E di questo mio metodo ho a
maestro Cicerone
7
Al di là della difesa di una traduzione rispettosa del senso dell'originale (sensum exprimere de
senso), in queste affermazioni l'elemento più importante è la distinzione da lui operata fra
traduzione sacra e profana, da cui scaturisce la necessità di scegliere tra pratiche diverse del
tradurre in funzione del tipo di testo tradotto: nel caso delle Sacre Scritture si deve utilizzare un
metodo diverso, in quanto nei testi sacri anche l'ordine delle parole è portatore di verità. Per
quanto concerne la traduzione dei testi che non siano sacri invece, Gerolamo cita l'esempio di
Cicerone e del suo De optimo genere oratorum e dice:
È assai difficile, quando si segue il pensiero di un autore, non allontanarsene
mai: è arduo conservare nella traduzione tutta l'eleganza e la bellezza
dell'originale... Se traduco alla lettera, genero delle assurdità, se, costretto dalla
necessità, altero in qualche cosa l'ordine e lo stile, mi si dirà che manco al mio
dovere d'interprete
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Nel XVII secolo il centro più importante per gli studi sulla traduzione è la Francia. Qui, la
maggiore preoccupazione dei traduttori è quella di adattare i testi classici al gusto francese
dell'epoca, poiché era diffusa la convinzione di aver raggiunto il più alto grado di civiltà. Le
traduzioni di quest'epoca, che a partire del 1636 domineranno per un secolo e mezzo la storia
della traduzione, sono definite belles infidéles, perchè mirano all'eleganza del testo più che alla
7 SAN GEROLAMO, “Epistola LVII ad Pammachium de optimo genere interpretandi” (in San Gerolamo, trad. it. di
U. MORRICA, Milano, Vita e Pensiero, vol. 2, s.d., pp. 243-245), in S. NERGAARD, (a cura di), La teoria della
traduzione nella storia, cit., p. 66.
8 Ivi, p. 68.
10
fedeltà all'originale. In questo periodo la traduzione viene considerata soprattutto un esercizio di
lingua francese, un mezzo per conferirle la qualità di cui è priva, la perfezione
9
.
Nel Romanticismo, è di grande rilievo il contributo dato da Schleiermacher, Goethe e
Humboldt.
Le riflessioni di Wilhelm Von Humboldt sono contenute nella prefazione alla traduzione
dell'Agamennone di Euripide del 1816
10
. Egli, partendo dalla considerazione che il linguaggio è
l'organo costitutivo del pensiero, sottolinea l'inscindibilità del linguaggio dallo spirito e dalla
cultura di un paese: non solo ogni sistema linguistico è intrinsecamente inerente a una
determinata cultura ma, afferma Humboldt, “la civiltà è forgiata in maniera unica e specifica
dalla propria lingua; la lingua è la matrice unica e specifica della propria civiltà”
11.
Per il linguista
la traduzione è un passaggio tra culture, ognuna con una sua peculiare Weltanschauung e perciò
è impossibile che una parola corrisponda pienamente a quella di un'altra lingua
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; ragion per cui,
il fine massimo della traduzione consiste nel non fa sentire la 'stranezza' ma 'l'estraneo'.
Humboldt è considerato il precursore del relativismo linguistico di Sapir e Whorf, sostenitori
della tesi secondo cui il nostro modo di pensare, la nostra visione del mondo sono condizionati
dalla lingua che parliamo e poichè i vari gruppi umani si avvalgono di sistemi linguistici diversi,
le risultanti visioni del mondo saranno radicalmente dissimili. Tuttavia, se l'ipotesi di Sapir-
Whorf anticipata da Humboldt fosse esatta, se cioè le lingue fossero monadi che determinano la
categorizzazione culturale della realtà in modi irriducibilmente diversi, ne conseguirebbe
evidentemente l'idea di intraducibilità
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. Al contrario, Humboldt sottolinea la necessità del
tradurre per un duplice ordine di motivi: da un lato, per consentire a chi non conosce una
determinata lingua di leggere opere che altrimenti gli resterebbero precluse e dall'altro, per
accrescere e potenziare le capacità espressive della propria lingua.
È a Johann Wolfgang von Goethe che si deve il primo tentativo moderno di creare una teoria
della traduzione. Egli, nel suo scritto Note sul Divan orientale-occidentale del 1819
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, individua
tre tipi di traduzione: quella che rende l'originale in prosa, riducendolo al suo contenuto di idee;
quella sotto forma di parafrasi, ossia la traduzione delle “belle infedeli” del secolo precedente
(ancora dominante all'epoca e che Goethe critica aspramente); la traduzione integrale, che
realizza la perfetta identità tra originale e traduzione e che, secondo lui, rappresenta il modo
tedesco di tradurre dell'epoca.
Anche Friedrich Schleiermacher si pronuncia sulla traduzione, riproponendo la classica
opposizione fra la traduzione della lettera e la traduzione del senso nel testo della conferenza
letta il 24 giugno 1813 all’Accademia Reale delle Scienze di Berlino Sui diversi metodi di
9 Cfr. G. MOUNIN, op. cit., pp. 45-46.
10 W. VON HUMBOLDT, “Introduzione alla traduzione dell''Agamennone' di Eschilo” (“Einleitung zu 'Agamemnon'–
Übersetzung”, 1816), trad. it. di G.B. BOCCIOL, in S. NERGAARD (a cura di), La teoria della traduzione nella
storia, cit., pp. 135-136.
11 G. STEINER, Dopo Babele. Aspetti del linguaggio e della traduzione, Milano, Garzanti, 1994
2
, pp. 116- 121.
12 W. VON HUMBOLDT, op. cit., in S. NERGAARD (a cura di), La teoria della traduzione nella storia, cit., p. 134.
13 Cfr. G. STEINER, op. cit., p 127.
14 J. W. Goethe, Noten und Abhandlungen zum West–östlichen Divan, in ID., Sämtliche Werke, Jubiläumsausgabe,
Stuttgart–Berlin, 1905; trad. it. di L. KOCH, I. PORENA, F. BORIO, “Il divano occidentale-orientale”, Milano,
Rizzoli, 1990, pp. 703-706.
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