Sono inoltre possibili cambiamenti vistosi, come una diminuzione del peso del
cervello e una riduzione del suo contenuto proteico. Inoltre, sembra che il numero
delle cellule nervose diminuisca con l’età anche in molti nuclei sottocorticali ed infine
si osserva una notevole riduzione dei livelli degli enzimi che sintetizzano la
dopamina e la norepinefrina, oltre a riduzioni più lievi della funzione del sistema
colinergico.
Tutte queste modificazioni rientrano comunque nel normale processo di
invecchiamento.
L’interesse per i processi cellulari caratteristici dell’invecchiamento è un tema
decisamente attuale dal momento che l’aspettativa di vita media è aumentata in
maniera evidente passando da circa 50 anni degli inizi del secolo scorso agli odierni
73 anni per gli uomini e 78 per le donne. Questo aumento è dovuto in gran parte ai
progressi della medicina che hanno portato ad una notevole riduzione della mortalità
infantile e a miglioramenti sostanziali nella prevenzione e terapia delle malattie di
cardiache e delle forme apoplettiche. Purtroppo tale aumento nelle aspettative di vita
ha avuto come conseguenza la comparsa di una nuova forma epidemica: la demenza,
che è identificata come un deterioramento progressivo delle funzioni mentali della
memoria e delle capacità intellettive acquisite di severità tale da interferire con gli atti
quotidiani della vita dell’individuo. Le cause della demenza possono essere
molteplici e perciò la sua diagnosi non indica di per sé la presenza di una malattia
specifica. La demenza si accompagna all’invecchiamento in certi individui
particolarmente suscettibili. Anche se questi individui costituiscono per ora una
minoranza in senso assoluto, essi stanno purtroppo diventando una percentuale
apprezzabile ed in continuo aumento della popolazione in età avanzata.
Attualmente si stima che 18 milioni di persone in tutto il mondo siano affette da
demenza, una cifra che sembra destinata quasi a raddoppiare toccando i 34 milioni
entro il 2025. La probabilità di sviluppare una qualsiasi forma di demenza aumenta
con l’età e questo in termini numerici si traduce passando da una persona su 1000 con
meno di 65 anni a 20 su mille nella popolazione di ultrasessantacinquenni e oltre. Gli
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ottantenni e ultraottantenni hanno una possibilità su cinque di sviluppare la malattia,
e per gli ottantacinquenni ed oltre il margine si restringe ulteriormente ad uno su tre.
2. IL DECADIMENTO COGNITIVO DI GRADO LIEVE
Il decadimento cognitivo di grado lieve (MCI: Mild Cognitive Impairment) è definito
come un disturbo soggettivo e isolato della memoria (Petersen et al., 1999), spesso
associato con il successivo sviluppo della AD (Morris et al., 2001). Rappresenta
quindi una zona di transizione tra le normali funzioni cognitive e l’ AD clinicamente
probabile. Studi longitudinali hanno dimostrato che soggetti classificati come MCI,
hanno un rischio maggiore rispetto alla popolazione sana di sviluppare demenza,
con una incidenza di trasformazione che passa dal 10-15% del primo anno fino al 20-
50% dopo 2-3 anni dalla diagnosi rispetto a soggetti di controllo sani, il cui rischio di
conversione è del 1-2% per anno. Dati provenienti dal Centro di Ricerca sulla
malattia di Alzheimer di Mayo, Rochester, Minnesota, che ha osservato un gruppo di
questi soggetti per più di 10 anni, hanno dimostrato una conversione ad Alzheimer
dell’80%, nei primi 6 anni (Petersen et al. 2001). Approssimativamente, l’80% dei
soggetti con MCI converte in AD entro i cinque anni successivi alla diagnosi. Lo
scenario tipico dell’MCI implica un’iniziale presentazione del deficit di memoria,
seguito da altre anomalie della sfera cognitiva. Comunque, esistono altre
manifestazioni iniziali della patologia, perciò l’attuale definizione di MCI include
una marcata compromissione di un solo dominio cognitivo oppure un deficit lieve in
diversi domini (come il linguaggio, l’attenzione e le capacità visuo-spaziali), in
rapporto all’età del soggetto. Da un punto di vista clinico, ci sono almeno tre diverse
presentazioni della patologia: MCI amnestico, multidominio o singolo dominio
diverso dalla memoria. Nel primo caso si ha una compromissione marcata ed
esclusiva della memoria, nel secondo caso è presente un deficit lieve in diversi
domini cognitivi, fra cui spesso anche la memoria, mentre nel terzo caso la
compromissione è manifesta in un solo dominio diverso dalla memoria, spesso il
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linguaggio, mentre le altre funzioni sono conservate, come resta normale anche la
capacità di compiere tutte le azioni legate alla vita quotidiana. I pazienti con MCI
amnestico hanno maggiore probabilità di evolvere verso l’AD; quelli con
compromissione in più domini possono teoricamente sviluppare l’AD o la VaD,
mentre quelli con compromissione del linguaggio sono più inclini allo sviluppo della
FTD (Petersen et al., 2001; Petersen et al., 2004):
a) MCI (amnesico) M. di Alzheimer (AD)
b) MCI (coinvolgimento modesto di più domini) AD, Demenza vascolare (VaD),
Normale Invecchiamento
c) MCI (coinvolgimento di un singolo dominio non riguardante la memoria)
Demenza Frontale (FD), Demenza con Lewy Body (LBD), VaD, Afasia Primaria
Progressiva (PPA), Parkinson-Demenza (P-D).
Dal punto di vista neuropsicologico, la maggior parte dei soggetti con MCI ha un
punteggio di 0,5 alla scale Clinical Dementia Rating (CDR), anche se non
necessariamente la diagnosi di MCI coincide semplicemente con tale valore di CDR.
E’ necessario dunque sottoporre ciascun soggetto ad una completa batteria di test
neuropsicologici, senza tuttavia dimenticare che, i soli test, senza un'adeguata
indagine ecologica, non permettono il riconoscimento di una demenza in fase
iniziale.
I criteri diagnostici di MCI in uso sono quelli secondo Petersen e coll. (1999), e
riassumono quanto segue:
- presenza di disturbo soggettivo di memoria
- funzioni cognitive generali normali
- deficit di memoria per età ed educazione
- ADL normali
- assenza di demenza
- assenza di altre patologie capaci di determinare disturbi della memoria (disordini
endocrinologici, depressione).
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Il problema fondamentale al momento della diagnosi è di saper riconoscere quali di
questi pazienti convertiranno a demenza (probabilmente quasi tutti in tempi lunghi)
e quali avranno un tempo di conversione più breve rispetto agli altri. Purtroppo in
fase iniziale il quadro è povero di elementi utili in quanto vi è sì la compromissione
di un dominio cognitivo ma è frequente la sovrapposizione con soggetti normali,
infatti non ci sono deficit funzionali o alterazioni comportamentali. In questa fase
possono essere d’aiuto le tecniche di neuroimaging (volume ippocampale), SPECT,
dosaggio di marcatori biologici (A-beta 42 e Tau nel liquor), dati di neurofisiologia.
La misura del volume ippocampale con Risonanza Magnetica ha mostrato valori
maggiori nei controlli, intermedi negli MCI e piccoli negli AD (Xu et al., 2000). Uno
studio recente con FDG-PET ha mostrato che un minor uptake di
fluorodesossiglucosio nella corteccia temporoparietale destra può accuratamente
definire i pazienti con MCI che convertiranno rapidamente (entro 18 mesi) ad AD.
Probabilmente solo l’unione di più metodiche differenti potrà dare una maggior
specificità diagnostica.
3. LA MALATTIA DI ALZHEIMER
La malattia di Alzheimer è la più comune causa di demenza nella popolazione
anziana dei paesi occidentali, essendo stata diagnosticata al riscontro autoptico nel
50-60% dei casi di decadimento cognitivo ad esordio tardivo (Tomilson et al. 1970).
Inoltre non raramente l’AD rende conto di casi di demenza in età tardo-adulta e
presenile (45–65 anni). La patologia interessa maggiormente le donne in tutte le fasce
d’età (Rocca e Amaducci, 1991): sebbene l’incidenza sia solo lievemente aumentata
rispetto alla popolazione maschile, la prevalenza nella popolazione femminile è
triplicata. L’incidenza della malattia è simile in tutto il mondo ed è stimata in tre
nuovi casi su 100.000 nella popolazione con età inferiore a 60 anni, e 125/100.000
nella fascia d’età superiore ai 60 anni. La prevalenza è circa 300/100.000 tra 60 e 69
anni, 3.200/100.000 nella fascia 70 – 79 e 10.800/100.000 nei soggetti oltre gli 80 anni.
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La sopravvivenza dei malati è ridotta a metà di quella attesa, in ragione del fatto che
la maggior parte dei decessi avviene per cause cardiovascolari e respiratorie.
3.1. Clinica
L’AD è una complessa sindrome al cui sviluppo concorrono fattori genetici e
ambientali diversamente combinati, che conducono ad un quadro clinico e
anatomopatologico comune (Whitehouse, 1997). L’esordio classico della malattia è
insidioso, tanto che solitamente né il paziente né i familiari sono in grado di
localizzarlo precisamente nel tempo. Il principale sintomo è rappresentato da un
deficit di memoria che insorge gradualmente e progredisce fino a compromettere lo
svolgimento delle normali attività quotidiane. Il deficit mnesico è complessivo,
riguarda sia la memoria verbale sia quella visuo-spaziale, limitando in particolare
l’apprendimento di nuove informazioni, caratteristicamente, infatti, i ricordi più
datati sono conservati più a lungo, e solo in un secondo tempo diviene deficitaria
anche la rievocazione. Spesso è presente una discrepanza fra l’esecuzione di compiti
automatizzati d’ambito professionale e attività quotidiane, anche banali, ma nuove e
non previste. Generalmente il malato demente tenta di coprire le proprie lacune
mnesiche con evidenti confabulazioni. Nel momento in cui il deficit mnesico si fa più
pronunciato si rendono evidenti gli altri deficit cognitivi. Il linguaggio è difficoltoso
per incapacità di ricordare i vocaboli, e il paziente tenta di ovviare a questa
situazione ricorrendo a complesse circonlocuzioni. Il vocabolario si restringe, mentre
la comprensione è inizialmente conservata, per essere poi compromessa nelle fasi
successive. In fase avanzata compare spesso ecolalia, ed infine il disturbo può
evolvere fino ad una vera afasia anomica. Progressivamente il paziente diventa
incapace di riconoscere i volti familiari (prosopoagnosia) e persino il proprio. Anche
la capacità di calcolo viene meno (acalculia o discalculia), risultano inizialmente
alterate le capacità lavorative del paziente, rendendolo infine incapace di eseguire
anche i calcoli aritmetici più semplici. Peculiare è la comparsa di disorientamento
spazio-temporale. Con l’aggravarsi della malattia il paziente presenta difficoltà
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d’orientamento anche in luoghi a lui familiari, e perfino nella sua stessa casa.
Frequente è l’inversione del ritmo sonno-veglia, soprattutto nelle fasi avanzate della
malattia, aggravata dal disorientamento temporale, che porta il paziente a non
riconoscere le diverse fasi della giornata. Gradualmente il paziente sviluppa
difficoltà nel capire la relazione esistente fra se stesso e gli oggetti come si osserva,
ad esempio, nell’aprassia dell’abbigliamento, ove emergono difficoltà o incapacità
nel posizionare i propri segmenti corporei in accordo con i capi d’abbigliamento o
nel rispettarne la corretta stratificazione. Simili difficoltà compaiono nell’utilizzo
degli strumenti e degli oggetti della vita quotidiana, come le posate o gli
elettrodomestici (aprassia d’utilizzo). Frequentemente con il progredire della
malattia interviene difficoltà nella locomozione con instabilità e passi accorciati, ma
senza deficit di forza o rigidità; nelle fasi finali il paziente è incapace di mantenere la
stazione eretta ed è costretto a giacere a letto, completamente dipendente da altri. La
capacità di giudizio viene progressivamente danneggiata: il paziente non è più in
grado di cogliere somiglianze o differenze concettuali, di giudicare correttamente
prezzi, dimensioni, quantità, diventando con il tempo incapace di badare
inizialmente ai propri affari e successivamente a se stesso. Il soggetto è inoltre
facilmente distraibile da stimoli esterni e si stanca velocemente di affrontare compiti
anche molto semplici.
Con il trascorrere del tempo la vita di relazione è sempre più compromessa dai
deficit sopra descritti, aggravati da sintomi psichiatrici, spesso di tipo psicotico
(deliri di furto, di gelosia, di riferimento, di persecuzione, allucinazioni visive) che
divengono frequenti nelle ultime fasi della malattia; spesso sono inoltre presenti
manifestazioni comportamentali inappropriate, vagabondaggio, aggressività verbale
e fisica. La presenza di depressione, soprattutto in fase iniziale è frequente e spesso
causa difficoltà nella diagnosi differenziale e nell’inquadramento della patologia,
soprattutto perché tali manifestazioni possono essere di tipo reattivo alle difficoltà
incontrate dal paziente. La concomitante comparsa di sintomi quali alterazioni
comportamentali, irritabilità, agitazione, passività, apatia, può allontanare il sospetto
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di demenza orientando verso una patologia psichiatrica e non verso i sintomi
psichiatrici di una patologia degenerativa. Approfonditi test neuropsicologici sono
in grado di evidenziare i deficit e favorire una corretta diagnosi anche nelle fasi
precoci della malattia, per confermare l’iniziale sospetto è necessario seguire il
paziente nel tempo. Talvolta la malattia si manifesta con un episodio “demenziale”,
vale a dire con un comportamento, circoscritto nel tempo, chiaramente incongruo
alle circostanze (Spinnler, 1985). L’esame obiettivo inizialmente é normale, mentre
nelle fasi successive possono essere evocati i riflessi di suzione, prensione ed altri
segni di liberazione frontale; possono essere presenti segni d’interessamento
extrapiramidale e raramente crisi epilettiche; compare incontinenza sfinterica e
acinesia, e il paziente diventa mutacico. Da alcuni studi neuropsicologici su soggetti
anziani apparentemente sani si è osservato che, in coloro che col tempo sviluppano
la malattia, essa resta asintomatica nella maggior parte dei casi per almeno cinque
anni dalle prime anomalie emerse ai test più approfonditi, con lieve perdita della
memoria e dell’attenzione. Alcuni autori ritengono che tale periodo possa essere
anche più lungo. Non in tutti i pazienti la malattia esordisce ed evolve nello stesso
modo, esiste, infatti, una gran variabilità nella comparsa dei sintomi e nella loro
velocità di progressione; comune è invece il livello di decadimento finale con perdita
completa dell’autosufficienza e una vita sempre più di tipo vegetativo che vede nella
fase terminale il paziente confinato a letto, acinetico, mutacico, con incontinenza
sfinterica, incapace di riconoscere le persone intorno a lui: il decesso avviene
solitamente per un’infezione respiratoria o urinaria intercorrente (Khachaturian,
1997). La durata della malattia è piuttosto variabile e difficile da stabilire, essendo
subdolo l’esordio e probabilmente lungo il processo patogenetico prima che i
sintomi si rendano manifesti: il periodo sintomatico dura in media 7-8 anni, ma non
sono rari i casi con decorso inferiore ad un anno o superiore a 20 anni (Larsson et al.,
1963).
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3.2. Diagnosi
La fase diagnostica nella valutazione di un soggetto con apparenti disturbi cognitivi
ha inizio con l’indagine anamnestica, analizzando le eventuali difficoltà relative alla
memoria e agli altri ambiti cognitivi, e le loro ripercussioni sulla vita di tutti i giorni
(indagine ecologica). Se i sospetti si delineano chiaramente, il passo successivo è
un’indagine neuropsicologica volta alla conferma o smentita dei medesimi alla loro
analisi e quantificazione nei diversi ambiti cognitivi in modo da offrire così un utile
elemento diagnostico e un parametro confrontabile nel tempo per poter effettuare
l’indispensabile follow-up. Appurata l’esistenza del disturbo cognitivo, il clinico
deve escludere le forme secondarie con le idonee indagini strumentali e con
un’accurata obiettività clinica. Se tutti i dati convergono verso una forma di
decadimento cognitivo primitivo, l’analisi dell’andamento temporale e dei settori
neuropsicologici più compromessi può indirizzare verso la corretta diagnosi clinica
con l’identificazione del tipo di patologia specifica da cui si ritiene sia affetto il
paziente.
Comunque l’unica diagnosi sicura di malattia di Alzheimer è quella istopatologica,
anche se elevati livelli di sensibilità e specificità sono stati raggiunti mediante la
messa a punto di criteri di diagnosi clinica universalmente accettati; il sintomo
iniziale ed essenziale per porre diagnosi di AD secondo i criteri NINCDS – ADRDA
(National Institute of Neurological and Communicative Disorders and Stroke –
Alzheimer’s Disease and Related Disorders Association Work Group) e DSM IV
(McKhann et al., 1984), è il deficit di memoria, cui deve essere associata la
compromissione almeno di un’altra area cognitiva (orientamento spazio-temporale,
ragionamento astratto, capacità di giudizio, linguaggio, calcolo, prassia, gnosia,
abilità visuo-spaziali e costruttive). L’impiego di tali criteri porta quindi a formulare
diagnosi di AD probabile o possibile (McKhann et al., 1984). La diagnosi di AD
“probabile” si basa sul riscontro di: deterioramento mentale stabilito clinicamente e
mediante tests neuropsicologici, deficit in due o più aree cognitive tra cui la
memoria, assenza di alterazione della coscienza, inizio dei sintomi dopo i 40 anni,
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esordio insidioso, decorso progressivo, esclusione di altre patologie capaci di
compromettere le funzioni cognitive. La diagnosi di AD “possibile” è riservata alle
forme con caratteristiche cliniche atipiche (insorgenza brusca, segni neurologici
focali, scoordinazione motoria precoce, crisi epilettiche precoci) o con malattie
sistemiche o cerebrali coesistenti, che tuttavia non si ritiene possano essere causa
della demenza. Oggi si tende a formulare diagnosi di AD in tutti quei casi in cui,
nonostante le sovrapposizioni, i criteri per la malattia di AD siano sufficienti a
giustificare la clinica.
Le tecniche di neuroimmagine assumono un ruolo importante nell’iter diagnostico
delle demenze e dell’AD, da un lato escludendo sindromi e condizioni in grado di
generare un quadro patologico simile, quali tumori cerebrali, ematomi sottodurali,
idrocefalo e lesioni ischemiche, dall’altro evidenziando un quadro d’atrofia che
sebbene non specifico è d’aiuto nel formulare la diagnosi. La tomografia
computerizzata (TC) e la risonanza magnetica (RM) infatti, sono in grado di
dimostrare nei pazienti in fase avanzata una dilatazione dei ventricoli laterali e del
terzo ventricolo fino al doppio delle dimensioni normali, nonché un ampliamento
dei solchi corticali; la RM in sezione sottile dimostra una sproporzionata atrofia degli
ippocampi e un allargamento dei corni temporali dei ventricoli laterali. Nelle fasi
precoci della malattia invece le alterazioni spesso non sono distinguibili da quelle
che si osservano in anziani con funzioni cognitive inalterate, infatti, un certo grado
d’atrofia cerebrale è presente anche nell’invecchiamento normale e la differenza con i
quadri di AD è di tipo quantitativo.
Le indagini neuroradiologiche funzionali, come PET (tomografia ad emissione di
positroni) e SPECT (tomografia ad emissione di fotone singolo), che possiedono una
maggiore specificità, rilevano rispettivamente un ipometabolismo ed un ipoafflusso
nelle regioni associative temporo-parietali già nelle fasi precoci della malattia con
risparmio delle regioni sensitive e motorie primarie, dei gangli della base, del talamo
e del cervelletto (Friedland et al., 1983; Kuhl et al., 1985). Il deficit di perfusione e
metabolismo cerebrale presenta una buona correlazione con le caratteristiche del
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