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CAPITOLO 1
La tassazione del consumo
1.1 Tassare il reddito, tassare il consumo
La tassazione del reddito ha acquisito sempre piø importanza nel corso del ventesimo
secolo, parallelamente all’affermarsi del crescente intervento dello Stato in economia
che richiedeva la raccolta di risorse sempre maggiori presso la popolazione, rispetto a
quelle che tradizionalmente la tassazione sui consumi riusciva a fornire. Nonostante
oggi il reddito sia considerato l’indicatore piø diretto del benessere, oltre che della
capacità contributiva, da diverse parti della scienza economica e sociale si sono
avanzate nel tempo contestazioni ad una concezione cosi riduttiva del benessere (Sen,
1987) che ne appiattisce il significato su quello di benessere materiale, o ben-avere.
Ciononostante, il reddito rimane tuttora la grandezza piø utilizzata per rappresentarlo,
stante la difficoltà e il rischio di arbitrarietà di qualsiasi tentativo di esprimere un
concetto multidimensionale e non monetario come il benessere attraverso un’unica
misura come, ad esempio, un indice costruito su piø variabili (HDI, vari indici di felicità
proposti, ecc.).
Non è qui il caso di soffermarsi sulle difficoltà presenti anche nel definire lo
stesso concetto di reddito, in quanto flusso che può aver origine da stock diversi
(capitale umano, finanziario, fondiario, reale) e comporsi di numerose voci d’entrata a
volte anche difficili da valutare (rendite imputate, lavoro non pagato, trasferimenti
pubblici in natura, benefici connessi al lavoro, ecc.). La definizione piø generale è stata
proposta da Henry Simons [1938] e, non essendo obbiettivo di questo lavoro addentrarsi
nella ricerca della natura del reddito, risulta piø che adeguata per gli scopi che ci si
prefigge. Nota come reddito entrata, essa definisce il reddito come la somma del valore
di mercato dei diritti esercitati nel consumo e la variazione del valore dei diritti di
proprietà tra l’inizio e la fine del periodo.
Storicamente la tassazione del consumo aveva permesso alle autorità di
raccogliere risorse dalla popolazione in mancanza della possibilità di imporre tasse sul
reddito, a causa della mancanza di informazioni su di esso. Tuttora, nei paesi meno
evoluti ma non solo, sussistono alcune condizioni che rendono il livello di consumo un
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miglior indicatore del benessere. Queste condizioni dipendono dalla maggior facilità di
raccogliere informazioni sul consumo piuttosto che sul reddito a causa della diffusione
del lavoro sommerso, dell’assenza di sistemi di rilevazione o di larga parte della
popolazione impegnata nell’agricoltura di sussistenza.
Tralasciando queste situazioni contingenti, esistono validi fondamenti teorici che
suggeriscono di passare dal reddito al consumo nella valutazione del benessere e della
capacità contributiva. Friedman [1957] ha formulato la teoria del reddito permanente,
secondo la quale il consumo non soffre dell’andamento altalenante a cui, nel corso della
vita, può andare incontro il reddito (disoccupazione, inattività, cambio di lavoro),
perchØ le persone decidono il proprio livello di consumo tenendo conto dei redditi che
percepiranno nel corso della vita, non di quello corrente, pertanto il consumo presenterà
un andamento piø lineare e sarà quindi piø affidabile come indicatore di benessere.
Un’indagine sul reddito basata su un intervallo di tempo limitato, ad esempio un anno o
meno, corre il rischio di sovrastimare la povertà perchØ rileverebbe come povere quelle
persone che si trovano solo momentaneamente in condizione di percepire un basso
reddito. Nei paesi in via di sviluppo questo problema può esser ancora piø evidente
quando si studia la condizione economica delle persone impiegate in agricoltura, le
quali anche per lunghi periodo dell’anno non percepiscono redditi fino al momento di
vendere il raccolto. Il loro consumo è invece piø regolare nel tempo e per questo può
considerarsi un indicatore di benessere piø affidabile. Da ciò però si deduce che, tanto
piø è lungo il periodo durante il quale sono raccolti i dati sul reddito, tanto piø questi
diventano affidabili nel rappresentare la condizione economica del soggetto rilevato.
Un’altra argomentazione, a sfondo etico, a favore della tassazione del consumo
consiste nel ritenere piø corretto tassare le persone non sulla base del loro apporto
all’economia, cioè il reddito che percepiscono, il quale secondo la teoria economica
neoclassica corrisponde al prodotto marginale del loro lavoro (quindi i lavoratori
percepiscono esattamente il valore di quanto producono), ma piuttosto è giusto tassarle
in base a quanto sottraggono al sistema, cioè ciò che consumano.
Il consumo corrisponde al reddito dedotto il risparmio. Indipendentemente dalla
provenienza, tutta la parte di reddito che non viene risparmiata (o investita, è
equivalente) si trasforma in consumo:
S Y C - =
dove C = consumo, Y = reddito e S = risparmio.
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La tassazione sul reddito ha effetti negativi sulla propensione al risparmio,
perchØ fa calare la ricompensa attesa in futuro per la rinuncia oggi al consumo (cioè il
reddito da capitale investito). Rinunciare al consumo oggi significa garantirsi una
ricompensa domani, sotto forma di reddito generato dal capitale investito che produce
interessi, ma la tassazione sul reddito, se non concepita in modo da esentare i redditi da
capitale, disincentiva la scelta di risparmiare perchØ diminuisce questa ricompensa. Un
esempio chiarirà meglio: un soggetto ha oggi un reddito di 1.000 e decide di
risparmiarlo tutto, il tasso d’interesse è il 10% annuo e non esistono imposte. La
rinuncia a 1.000 di consumo oggi garantisce una disponibilità di 1.100 l’anno dopo,
dove i 100 in piø sono la ricompensa per aver posticipato la scelta di consumo. Si
ipotizzino ora due scenari, in uno dei quali esista una tassa sul consumo e nell’altro una
tassa sul reddito, entrambi con una sola aliquota al 20%.
Imposta sul consumo – Scegliere di consumare oggi i 1.000 fa sì che 800
possano venir destinati all’acquisto di beni e servizi e 200 al pagamento della tassa.
Risparmiare invece fa sì che l’anno dopo si disponga di un capitale di 1.100 che,
consumato interamente, permette di acquistare beni per 880 e pagare tasse per 220. Il
rapporto non cambia rispetto alla situazione senza imposte: posticipare il consumo per
un consumo futuro maggiore del 10%. Tassare il consumo è quindi neutrale rispetto alle
scelte di consumo nel tempo.
Imposta sul reddito – Il reddito di 1000 viene subito decurtato di 200, e se si
decide per il consumo ne restano a disposizione 800. Fino a questo punto le due imposte
si equivalgono, ma ora il soggetto potrebbe decidere di non consumare oggi i 1.000 e di
risparmiarli. In tal caso pagherebbe comunque 200 di imposta e ne investirebbe 800 (il
tasso d’interesse è il solito), tra un anno questo investimento gli garantirebbe un reddito
di 80. Quindi si rinuncia a consumare oggi 800 per poter consumare 880 tra un anno,
cioè il 10% in piø, che è la stessa situazione del primo esempio in assenza di tassazione,
ma ora la tassazione c’è, ed è sul reddito. Pertanto il 20% del reddito da capitale viene
prelevato e il “premio” per aver risparmiato scende così da 80 a 64. Con un’imposta sul
reddito la scelta di risparmiare fa sì che l’anno dopo il capitale disponibile per il
consumo aumenti a 864, meno che nel caso dell’imposta sui consumi. Dato che la scelta
del soggetto è tra il consumare 800 oggi e una somma maggiore l’anno dopo, nel caso di
una tassa sul consumo la ricompensa per l’aver rimandato il consumo è di 80, in caso di
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tassa sul reddito solo di 64, perciò tassare il reddito fa sì che il livello di risparmio
creato dalla società sia inferiore a quello potenziale. Minore risparmio ossia minore
investimento, con effetti a catena sull’innovazione tecnologica, la produttività,
l’occupazione.
Come tassare il reddito senza colpire il risparmio? Esentare dall’imposizione i
redditi da capitale fa si che le due imposte si equivalgano, perchØ il reddito di 80
generato dal risparmio non viene piø tassato e la ricompensa per aver rimandato il
consumo non viene ridotta. Esentare i redditi da capitale dalla tassazione sul reddito
significa, in altri termini, tassare i redditi da lavoro. Ponendo che il reddito sia costituito
da queste sole due voci la situazione è la seguente:
S W Y + =
dove W = reddito da lavoro
e quindi:
S Y W - =
e dato che:
S Y C - = allora W C =
Il consumo non è altro che il reddito che non è stato risparmiato, perciò tassare il
consumo equivale a tassare il reddito da lavoro esentando quello da capitale (in questo
semplice modello si suppone che non esistano eredità). Ne consegue che tassare il
consumo non riduce la propensione al risparmio.
A questo punto è però opportuno approfondire gli effetti dei due sistemi di
tassazione rispetto al risparmio. I redditi da capitale non sono interamente composti
dalla ricompensa per aver posticipato il consumo ma anche da altre voci, tra le quali
bisogna ricordarne almeno due: il premio per il rischio e la compensazione per
l’inflazione. Il primo consiste nel guadagno che si ottiene dall’investire il proprio
denaro in operazioni con esito aleatorio: un investimento ad alto rischio permette, se va
a buon fine, alti guadagni, mentre un investimento poco rischioso garantisce di piø dal
pericolo di perdere il capitale investito ma al prezzo di bassi guadagni (investire nel
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mercato dei Bot è piø sicuro ma meno redditizio che investire in quello azionario).
L’interesse corrisposto all’investimento deve rifletterne la rischiosità e ricompensare di
piø al crescere del rischio. Il secondo corrisponde invece alla compensazione che
l’investimento deve garantire per il calo di potere d’acquisto subito dal capitale investito
a causa dall’inflazione. In entrambi i casi gli effetti di un’imposta sul reddito e sul
consumo sono gli stessi appena descritti: l’imposta sul consumo è indifferente a queste
fonti di reddito, mentre quella sul reddito li sottopone a doppia tassazione, a meno di
non prevederne l’esenzione.
Solitamente un’imposta sul consumo è considerata un’imposta regressiva perchØ
colpisce relativamente di piø i poveri che spendono la maggior parte (e a volte anche di
piø) del proprio reddito senza poterne risparmiare, rispetto ai ricchi che invece riescono
a risparmiare una quota consistente dei propri guadagni. Questo è vero se si guarda ad
un intervallo temporale limitato come al singolo anno, dove nonostante un momentaneo
calo di reddito le persone tendono a mantenere comunque un livello di consumo simile
agli anni precedenti e, viceversa, un improvviso aumento di reddito non per questo
immediatamente viene speso subito ma piø probabilmente risparmiato. Questi
andamenti fanno variare il rapporto consumo/reddito e ne consegue che sul singolo anno
un’imposta sul consumo tra una persona povera e una ricca avrà un effetto sicuramente
regressivo, ma guardando all’intero ciclo di vita della persona e sotto certe condizioni,
questo effetto viene meno. Infatti, ipotizzando per un momento l’assenza di eredità,
trasferimenti pubblici e alcune altre entrate, durante tutta la vita di una persona consumi
e redditi devono equivalersi, le persone spendono esattamente tutto quello che hanno
guadagnato e i valori attuali di reddito e consumo sono identici. Perciò, sull’intero ciclo
di vita non ha importanza che la tassazione sia sul risparmio o sul reddito. Appare però
difficile credere che le persone, nel giudicare il tipo di imposizione a cui vengono
sottoposte, guardino al loro intero ciclo di vita piuttosto che al singolo anno e, in questo
modo, il problema della regressività della tassazione del consumo si ripresenta, aprendo
questioni di tipo politico facilmente immaginabili. La regressività dell’imposta sui
consumi è infatti l’oggetto principale di questo lavoro.
Fino ad ora si è discusso di una possibile imposta sui consumi senza entrare nel
merito della sua aliquota, si è anzi sottinteso che si trattasse di un’imposta con una sola
aliquota che trattava tutti allo stesso modo. ¨ possibile invece, e nella maggior parte dei
paesi europei cosi è, disegnare l’imposta sul consumo in modo da renderla piø
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progressiva ricorrendo a diverse aliquote a seconda della tipologia di bene o servizio
acquistati. Un’aliquota piø bassa sui beni di prima necessità e piø alta su quelli di lusso
può attenuare la maggior pressione a cui l’imposizione sul consumo sottopone i poveri.
Tuttavia, la differenziazione delle aliquote presenta sì vantaggi ma anche svantaggi da
tenere in considerazione e che saranno affrontati piø avanti nel corso di questa tesi.
1.2 Tassare il consumo: i problemi
Si è fin qui argomentato che tassare il consumo può esser vantaggioso rispetto al
reddito sotto vari aspetti. Tuttavia esistono anche argomentazioni contrarie basate sui
vantaggi che presenta la tassazione del reddito piuttosto che del consumo. Si è già detto
che, riferendosi ad un singolo anno o, in generale, ad un qualsiasi periodo di tempo
limitato, tassare il consumo ha un effetto regressivo perchØ colpisce di piø le persone
con basso reddito che non riescono a risparmiare. Prendendo l’intero ciclo di vita come
punto d’osservazione, sotto le ipotesi in precedenza descritte, si scopre che questo
effetto è sopravvalutato, tuttavia se queste ipotesi poco realistiche vengono rimosse (e
quindi le persone sono in grado di risparmiare, di ricevere e lasciare eredità, percepire
trasferimenti pubblici e altre forme di entrate) l’equivalenza di reddito e consumo nel
ciclo di vita viene meno, non è piø vero che si consuma esattamente quello che si
guadagna e persone con redditi alti e altre con redditi bassi, nel corso della vita, possono
risparmiarne quote molto diverse e lasciare eredità ai figli. Perciò se vi fosse
imposizione sui consumi e non sul reddito, coloro che hanno maggiori entrate si
troverebbero a pagare a pagare tasse su una quota minore del proprio reddito rispetto a
coloro che presentano basso reddito per tutta la vita. A questo punto la tassazione sul
consumo, se non fosse disegnata in modo da esser perfettamente proporzionale, non
prevedendo esenzioni di nessun tipo e con una sola aliquota, assumerebbe davvero un
effetto regressivo (sarebbe cioè la situazione già vista su un singolo anno).
La fondamentale differenza tra tassazione diretta e tassazione indiretta va
ricercata tuttavia nella possibilità di tener conto delle caratteristiche individuali del
soggetto colpito, che sia l’individuo o la famiglia, per definire l’entità esatta di quanto
deve pagare. L’imposizione sul reddito, si pensi all’Irpef, consente di tener conto di
numerose caratteristiche come la salute, il numero di figli, la condizione abitativa. Nella
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tassazione del consumo invece le caratteristiche del compratore e del venditore sono del
tutto irrilevanti, lo scambio del bene o servizio è l’unico evento importante ai fini della
definizione dell’imposta. Preferire il consumo come base dell’imposta impedisce
dunque di discriminare tra i soggetti colpiti per realizzare eventuali politiche di welfare
o di altro tipo, i soggetti vengono trattati esattamente nello stesso modo.
Anche considerare il livello di consumo un miglior indicatore del benessere,
sebbene si tratti come visto di una posizione fondata, rischia in certi casi di esser
fuorviante. Può esser legittimo infatti pensare che gran parte del benessere di una
persona dipenda dalla quantità di beni che acquista e che, pertanto, maggiore è la spesa
maggiori sono le disponibilità economiche, ma questo può dar vita a gravi errori di
interpretazione dei dati quando si iniziano a considerare le preferenze personali. Oltre
alla disponibilità economica, infatti, anche le preferenze rivestono grande importanza
nelle scelte di consumo – compro quello che mi piace, è ovvio – ed è del tutto normale
che vi siano persone e famiglie con lo stesso reddito ma con grosse differenze nel livello
di consumo: ad esempio una coppia giovane ed una anziana possono presentare la stessa
situazione per quanto riguarda le entrate, basse perchØ pensionati o appena entrati nel
mondo del lavoro, ma mentre i giovani spendono molto di quello che guadagnano per
divertimenti, viaggi e vacanze, nonchØ per la cura dei figli, è probabile che la coppia
anziana non abbia piø per la testa queste spese voluttuarie e presenti minori carichi
familiari, e non trovi quindi problemi a risparmiare una parte significativa della
pensione. Ne consegue che, se si guarda solo al consumo, la coppia anziana passerebbe
erroneamente per piø povera di quella giovane solo perchØ le sue scelte di consumo
rispecchiano la sua sobrietà e la diversa composizione familiare.
Come si è già descritto, un’imposta sul reddito che non esenti i redditi da
capitale disincentiva il risparmio perchØ lo tassa due volte: la prima quando il reddito
del soggetto viene tassato alla formazione, la seconda quando gli interessi maturati
vengono di nuovo colpiti in quanto redditi da capitale. Si era quindi concluso che
ricorrere ad un’imposta sul consumo evita questa distorsione nelle scelte di risparmio,
anzi, in assenza di tassazione sui redditi da capitale questo potrebbe portare ad un
aumento del risparmio stesso. Tuttavia nessuna imposta è estranea dal creare distorsioni
di qualche tipo (eccetto le c.d. imposte lump sum, che però nella pratica non esistono).
Qualunque sia il presupposto dell’imposta si verrà a creare un incentivo a comportarsi
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in modo diverso da quel che si sarebbe fatto in sua assenza: si lavora meno se le imposte
sul salario sono elevate, si rinuncia a tempo libero se l'Iva sui beni e servizi connessi a
viaggi e divertimento è elevata, un’impresa investe meno di quanto sarebbe ottimale se
non può dedurre il capitale investito dall’imposizione, e così via.
L’imposizione sul consumo non sfugge a questa realtà. L’imposta, anche se
uguale per tutti i beni e servizi in commercio, fa crescere i prezzi oltre a quelli che, in
sua assenza, sarebbero i livelli stabiliti dalle leggi di mercato, facendo cosi aumentare
l’attrattiva del risparmio come miglior impiego del proprio capitale. Se invece le
aliquote dell’imposta non sono uniformi ma colpiscono in modo diverso a seconda del
bene (in precedenza si era presentata la differenziazione delle aliquote come metodo per
attenuare la regressività dell’imposta sui consumi) si creano distorsioni nelle scelte dei
consumatori: i prezzi relativi cambiano e alcuni beni diventano piø costosi di altri,
facendo si che il consumatore non si trovi piø di fronte ad una scelta dettata solo dalle
sue preferenze e dai costi di produzione, ma anche dal livello della tassazione di ogni
bene.
Le argomentazioni fino a qui illustrate miravano a mettere in evidenza i vantaggi
e gli svantaggi della tassazione indiretta rispetto a quella diretta. L’esposizione non ha
tuttavia la pretesa nè di esser completa nè di aver riassunto tutto il dibattito sviluppatosi
nel corso del tempo (almeno due secoli). Nonostante qualcuno possa trovare buoni
motivi per preferire in modo netto l’uno o l’altro sistema, in realtà nella maggior parte
dei paesi essi convivono da lungo tempo. In Italia, ad esempio, l’imposta sul reddito
(Irpef) è affiancata da quella sul consumo (Iva) oggetto di questa tesi e, nel dibattito
attuale, l’idea di abbandonare l’una in favore dell’altra non è all’ordine del giorno.
Nel secolo scorso piø parti hanno proposto di eliminare la tassazione indiretta:
chi perchØ la riteneva un residuo di un periodo storico nel quale l’amministrazione della
tassazione diretta era difficoltosa e poco sofisticata (Colwyn Committee, 1927), chi
perchØ riteneva che quest’ultima fosse migliore dal punto di vista economico (Fromm e
Taubman, 1973). Stiglitz e Atkinson in Lectures of public economics [1980] concludono
tuttavia che non vi sono evidenze che permettano di dare un giudizio netto sulla
superiorità di un sistema rispetto all’altro.
Pare quindi essere piø corretto parlare di diversi obiettivi da assegnare ai due
sistemi, piuttosto di cercare quale dei due sia migliore dell’altro sotto tutti i punti di
vista. Alla tassazione diretta viene normalmente assegnato il ruolo di raggiungere
obbiettivi di equità, permettendo una redistribuzione del reddito prelevando di piø dai
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ricchi e meno dai poveri, mentre per questo obbiettivo la tassazione indiretta viene
ritenuta uno strumento debole e inefficiente, da utilizzarsi invece per la sola raccolta
lineare di risorse. Il che non toglie, come si vedrà meglio nel corso della tesi, che all’Iva
sia oggi assegnato comunque un obiettivo di equità tramite la differenziazione delle
aliquote.
1.3 L’Iva
L’Imposta sul valore aggiunto è stata introdotta in Italia nel 1973 nell’ambito
della riforma del sistema di imposizione indiretta, seguente alle indicazioni contenute in
una direttiva CEE emanata nel 1967. Sempre nel 1973 è uscita di scena l’Ige, la vecchia
Imposta generale sull’entrata e altre imposte indirette minori. Oggi principale imposta
sui consumi in Italia, si applica alle “cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate
nel territorio dello Stato nell’esercizio delle imprese o nell’esercizio di arti e professioni
e sulle importazioni da chiunque effettuate” (DPR 26 ottobre 1972, n. 633). ¨
un’imposta ad valorem, ossia calcolata in proporzione al prezzo dei beni e servizi
scambiati e fa parte della categoria delle imposte generali sugli scambi, all’interno della
quale possono riconoscersi per la modalità di applicazione tre tipologie:
Imposta monofase;
Imposta plurifase cumulativa;
Imposta plurifase non cumulativa o sul valore aggiunto.
L’Iva corrisponde a quest’ultima tipologia, colpisce cioè il valore aggiunto
creato in ogni fase del processo produttivo e distributivo di un bene o servizio.
L’applicazione al solo valore aggiunto è permessa dal ricorso al metodo “imposta da
imposta”: ogni contribuente (eccetto il compratore finale) versa la differenza tra l’Iva
che riscuote dalle sue vendite e l’Iva pagata per i beni intermedi utilizzati nel suo
processo produttivo. Grazie alla possibilità di scaricare l’imposta pagata dai produttori,
di fatto tutti i beni d’investimento, o intermedi, sono esclusi dalla tassazione, che si
applica quindi sui soli beni di consumo e grava interamente sui consumatori finali (i non
soggetti Iva), che non possono scaricarla su altri. La sua base imponibile dunque
corrisponde al consumo e per questo si definisce imposta sul valore aggiunto tipo
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consumo, tuttavia, per la sua caratteristica di escludere i beni d’investimento, non è del
tutto corretta la definizione di imposta sul valore aggiunto.
L’ultima caratteristica è il suo applicarsi su base finanziaria, ossia tassa solo le
operazioni che danno origine a manifestazioni monetarie, cioè la compravendita. Anche
in questo senso l’appellativo “sul valore aggiunto” non è preciso, poichØ il valore
aggiunto si compone anche delle scorte e delle rimanenze create durante il periodo
d’imposta e non ancora vendute, escluse dal calcolo.
Come descritto in precedenza, l’Iva permette ad ogni produttore di scaricare
l’imposta gravante sui beni intermedi da lui acquistati. In questo modo il numero delle
fasi di cui si compone il processo produttivo non è rilevante ai fini del calcolo del gettito
totale, che corrisponderà sempre all’aliquota sul bene finale moltiplicata per il suo
prezzo. Con un’imposta plurifase a cascata, come fu l’Ige, invece il prelievo avviene in
ogni fase del processo, con l’aliquota applicata al prezzo di vendita. Il gettito totale è
quindi somma del prelievo in ogni fase, dal che deriva un incentivo alla
verticalizzazione delle imprese per risparmiare sull’imposta. L’Iva presenta invece,
grazie alla sua concezione, due vantaggi:
Complessivamente non dipende dal numero delle fasi del processo produttivo,
non incentiva quindi alla verticalizzazione delle imprese.
Non altera la trasparenza dei prezzi. In ogni momento della produzione è
possibile conoscere l’onere d’imposta a cui il bene è stato sottoposto fino a quel
momento.
L’Iva può esser applicata con una singola aliquota e colpire in tal modo
linearmente tutti i beni e servizi, o tramite piø aliquote con un trattamento differenziato.
In Italia come nel resto d’Europa prevale la seconda scelta: nel nostro paese esistono tre
aliquote corrispondenti al 4%, al 10% e al 20% (durante la stesura della tesi,
quest’ultima è stata portata al 21%). L’aliquota al 4%, definita “super ridotta” si applica
a beni di prima necessità (burro, latte, cereali, pasta, pane…) e a libri e periodici. Oggi
non può piø essere estesa ad altre voci che non siano quelle già oggi colpite. L’aliquota
intermedia viene invece applicata su beni e servizi facenti parte di un elenco stilato dalla
UE, di cui fanno parte carne, pesce, uova, zucchero, miele e sulle utenze domestiche,
mentre quella al 20%, l’aliquota ordinaria, si applica su tutto quello che non fa parte
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delle precedenti tipologie. Sono inoltre previste esenzioni totali dall’imposizione per
una serie di servizi riportati in appendice al quarto capitolo.
Il regime di differenziazione delle aliquote, come già brevemente accennato in
precedenza, permette di perseguire obbiettivi di equità tassando in misura ridotta beni e
servizi essenziali che rappresentano una parte consistente della spesa dei piø poveri.
L’efficacia di questo disegno d’imposta e i suoi pro e contro verranno affrontati qui di
seguito.
Differenziazione o uniformazione delle aliquote?
In Italia e praticamente in tutti gli altri paesi dove esiste un’imposta sul valore aggiunto,
esiste anche una tassazione diretta sul reddito, orientata salvo eccezioni ad un criterio di
progressività: chi piø ha piø paga anche in proporzione del reddito, in modo da attuare
una redistribuzione del reddito. Come mai allora in ben 27 delle 30 nazioni appartenenti
all’OECD, di cui 29 applicano una value added tax, esiste un regime di differenziazione
che può andare dalle due fino alle quattro aliquote? Quali ragioni esistono per tassare di
piø o di meno alcuni beni e servizi, quali ragioni per esentarne altri e come decidere il
livello delle aliquote sull’uno o sull’altro? Le argomentazioni favorevoli e contrarie a
questo sistema sono numerose, ma possono essere raggruppate in due grandi categorie:
ragioni d’efficienza economica e ragioni d’equità.
Efficienza – La possibilità di tassare di piø alcuni beni e servizi senza subire
perdite d’efficienza e quindi di benessere create dalla distorsione che gli aumenti di
prezzo creerebbero nelle scelte dei consumatori può giustificarsi in base all’elasticità
della loro domanda al prezzo. I beni con domanda poco sensibile ai cambiamenti di
prezzo possono essere tassati con aliquote elevate senza per questo indurre i
consumatori a non acquistarli piø, pertanto l’aliquota su un bene dovrebbe essere, per
ragioni di efficienza, funzione inversa dell’elasticità rispetto al prezzo di quel bene.
Questa è la conclusione della Regola di Ramsey sotto, però, una condizione
irrinunciabile: lo scarso rilievo dell’effetto di sostituzione. Se infatti i consumatori
possono sostituire il bene tassato di piø con un altro, l’aumento dell’aliquota ne farà
calare la domanda vanificando l’intervento.
La possibilità di variare le aliquote può inoltre permettere al policy maker di
contrastare il potere di mercato di quelle imprese operanti in mercati poco competitivi,
che per questo riescono a fissare alti mark up sui loro prodotti. L’Iva può essere
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applicata a tali prodotti con aliquote basse in modo da limitare l’effetto dell’elevato
ricarico sul prezzo. Questa argomentazione appare però molto debole sotto vari punto di
vista: per ridurre il potere di mercato delle imprese è meglio intervenire a monte,
garantendo la concorrenza e mercati competitivi che impediscano il crearsi di posizioni
di monopoli piø o meno intensi. Vi è poi il rischio di creare incentivi perversi alle
imprese stesse, che nelle loro scelte saranno condizionate dal timore di perdere il regime
fiscale favorevole di cui godono. Inoltre una politica di questo tipo sarebbe in contrasto
con il criterio di efficienza precedentemente esaminato: se è opportuno fissare alte
aliquote sui beni con domanda inelastica al prezzo, non è possibile pensare di fissarne di
basse per i beni con elevato mark up, dato che esso è reso possibile proprio
dall’inelasticità della loro domanda.
Dal punto di vista dell’efficienza, a favore dell’uniformazione ad una sola
aliquota vi sono invece gli evidenti vantaggi amministrativi dell’imposta che questo
comporterebbe sia per le Amministrazioni Pubbliche che per le imprese. Le A.P.
sarebbero sollevate dalla necessità di decidere quali beni tassare di piø o di meno e
quale livello di aliquota fissare per ognuno, le imprese non dovrebbero piø preoccuparsi
dell’aliquota sotto la quale ricadrebbero i loro prodotti e i loro acquisti, potendo cosi
semplificare le loro decisioni. L’uniformazione renderebbe inoltre i policy maker meno
esposti alle pressioni di parte. Vendere prodotti con un regime fiscale agevolato è un
vantaggio per i produttori, che interverrebbero con azioni di lobbismo (o altro…) sui
politici per garantire tale regime anche ai loro prodotti futuri o per conservarlo su quelli
attuali. Un’aliquota unica renderebbe vane queste pressioni e le decisioni politiche
sarebbero meno influenzate da interessi privati.
Equità – Se in un paese esistesse solo la tassazione indiretta e la popolazione
fosse avversa alla disuguaglianza, si opterebbe per un sistema progressivo affidandogli
il compito di attuare una certa redistribuzione della ricchezza. In tal caso un’Iva con
aliquote differenziate sarebbe ineccepibile dal punto di vista dell’equità. Tuttavia in
nessun paese (almeno tra quelli sviluppati) esiste solo la tassazione sui consumi. Ogni
economia sviluppata dispone di sofisticate imposte sul reddito alle quali è affidato il
compito di contrastare la disuguaglianza, colpendo in misura maggiore i ricchi e
trasferendone parte della ricchezza ai poveri. L’equità del sistema tributario potrebbe
quindi esser realizzata attraverso la sola tassazione diretta, che viene ritenuta il miglior
strumento redistributivo dalla grande maggioranza della letteratura in materia tributaria,
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o intervenendo direttamente sulle cause della disuguaglianza (accesso all’istruzione,
salute, ecc.). Tuttavia in molti paesi anche l’imposta sui consumi è disegnata con
l’intenzione di favorire i meno abbienti ricorrendo a esenzioni, aliquote ridotte su beni
di largo consumo ed elevate su articoli di lusso. Quali sono dunque le argomentazioni di
carattere etico che giustificano un’Iva con piø aliquote?
Nelle pagine precedenti si sono illustrate le ragioni d’efficienza per differenziare
le aliquote, ma esse appaiono molto deboli. In effetti sono soprattutto ragioni d’equità,
in Italia come altrove, alla base dell’attuale disegno dell’Iva. In primo luogo i meno
abbienti spendono gran parte – se non di piø – del proprio reddito in beni indispensabili
come alimentari e abitazione potendo destinarne ben poco a consumi lussuosi. Una delle
principali giustificazioni ai bassi livelli d’imposizione sugli alimenti e altri beni di largo
consumo è quindi quella di favorire i poveri che spendono in essi una parte di reddito
proporzionalmente maggiore rispetto ai ricchi. Ciò tuttavia finisce per avvantaggiare
anche questi ultimi, che spendono sì relativamente meno in beni essenziali, ma questa
spesa è molto probabilmente maggiore in termini assoluti e si trovano quindi a godere di
un grande beneficio fiscale. Un’aliquota uniforme potrebbe permettere di aumentare in
modo consistente il gettito ottenuto soprattutto dai ricchi, creando risorse che potrebbero
poi essere trasferite ai poveri.
Un’altra argomentazione ritiene giusta una bassa imposizione su alcuni beni
essenziali alla vita, come ad esempio gli alimenti, il gas, l’acqua e l’elettricità per uso
domestico. Vi è una sottile differenza rispetto al paragrafo precedente: l’aliquota ridotta
non è ora giustificata dal fatto che questi beni rappresentano la maggior parte della
spesa dei poveri, ma per la loro stessa natura di beni essenziali alla vita, per i quali
ridurre l’ineguaglianza dovrebbe essere considerato un obiettivo a prescindere (si tratta
dello specific egalitarianism di Tobin, 1970).
Da queste due considerazioni nasce però un conflitto con una delle ragioni
d’efficienza che giustificano il ricorso ad aliquote differenziate: la già citata Regola di
Ramsey suggerisce di imporre aliquote inversamente proporzionali all’elasticità della
domanda rispetto al prezzo, ma sono proprio i beni di cui si è appena detto che
presentano spesso basse elasticità rispetto al prezzo. Costosi o economici che siano, è
ben difficile rinunciare a generi come il pane, il latte, il riscaldamento domestico e
tantomeno sostituirli con altri. L’esistenza di piø aliquote giustificata dall’efficienza si
scontra con ragioni d’equità esse stesse a favore della differenziazione.
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In alcuni casi potrebbe essere difficile ricorrere ad altri strumenti per realizzare
una certa redistribuzione o sostenere particolari categorie: ad esempio non è agevole
identificare attraverso la tassazione diretta i soggetti bisognosi di certe cure mediche.
Esentarle dall’imposta sul consumo (le cure mediche sono un servizio) permetterebbe di
agevolare i malati e non rischierebbe di sbagliare target, dato che, ragionevolmente,
nessuna persona sana si sottoporrebbe a quelle cure mediche di cui non ha bisogno. Dai
tipi di consumi si può quindi capire quali sono i bisogni di chi li effettua e intervenire.
Esistono comunque, anche dal punto di vista dell’equità, ragioni contrarie alla
differenziazione delle aliquote. Si è già affermato che esiste un largo consenso nel
ritenere la tassazione diretta lo strumento migliore per perseguire obbiettivi d’equità e
attuare la redistribuzione della ricchezza e, viceversa, a considerare la tassazione
indiretta uno strumento inefficace o inutile per tali scopi, soprattutto, come detto, in quei
paesi in grado di gestire un’imposta sul reddito sofisticata. Secondo Stiglitz e Atkinson
[1980], se l’imposta sul reddito dispone di aliquote che rispecchiano fedelmente la
curva d’imposizione ottimale, ricorrere ad un’imposta sul consumo progressiva è inutile
dal punto di vista del benessere sociale. Se quindi la tassazione diretta è efficace nel
realizzare la progressività, il compito della tassazione indiretta dovrebbe essere solo
quello di raccogliere gettito.
Oltre a queste considerazioni va ricordato che una tassazione indiretta
differenziata crea distorsioni nelle scelte di consumo che, accettando la teoria secondo
la quale i consumatori sono sempre razionali, appaiono difficilmente giustificabili e
causa di perdite di benessere. In letteratura si trova però un’eccezione che riguarda le
scelte di impiego del tempo. L’imposta sul reddito crea inevitabilmente un disincentivo
a dedicare tempo ad un’attività lavorativa, tanto maggiore quanto piø elevate sono le
aliquote che gravano sul reddito, perchØ riducono il costo opportunità del tempo libero.
Un policy maker intenzionato a limitare questa distorsione a favore di quest’ultimo
potrebbe pensare di introdurre aliquote piø elevate su beni e servizi per la cui fruizione è
necessario dedicare molto tempo non lavorativo: viaggi, intrattenimenti, ristoranti,
eventi sportivi ecc. Al contrario si possono tassare meno beni e servizi coerenti con
un’attività lavorativa come pasti take-away, servizi di custodia per bambini ecc. Da ciò
si può trarre un’altra giustificazione alla presenza di diversi livelli d’aliquota rientrante
nel campo dell’efficienza: tassare i beni in relazione al loro effetto sull’offerta di lavoro,
modificando i prezzi relativi a sfavore di quelli che possono limitare l’offerta e che
possono essere indicati come complementari al tempo libero. Lo stesso effetto
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d’incentivo al tempo di lavoro può esser ottenuto con aliquote piø elevate sui beni a
domanda inelastica, la cui maggior spesa richiederà piø lavoro per esser sostenuta.
Dal punto di vista dell’equità, una tassazione differenziata entra in contrasto con
uno degli assunti del principio della capacità contributiva (uno dei possibili criteri di
ripartizione del carico tributario): l’equità orizzontale, che richiede che soggetti con la
stessa capacità contributiva, determinata dal reddito e da altre caratteristiche personali e
famigliari, paghino la stessa imposta. Aliquote diverse su certi beni piuttosto che altri
impediscono il rispetto dell’assunto, perchØ soggetti simili verrebbero trattati
diversamente a causa delle loro preferenze di consumo.
Beni negativi e beni meritori – Concludendo, esistono ancora due
giustificazioni all’esistenza di aliquote diverse che non sono state finora affrontate e che
non possono essere facilmente inserite nè tra quelle basate sull’efficienza nè tra quelle
fondate sull’equità. Il consumo di alcuni beni come alcool, tabacco e carburanti per
locomozione può, se in quantità eccessive, creare effetti esterni che colpiscono tutta la
società e non solo l’utilizzatore. Nei casi piø gravi: alcolismo, malattie polmonari,
inquinamento che nuocciono a piø persone sia dal punto di vista dei rischi sia da quello
delle spese mediche a cui si sottopone, per esempio, un fumatore incallito ammalatosi di
cancro ai polmoni, che gravano sul Servizio Sanitario Nazionale. Imporre imposte
elevate sul consumo di questi beni ne scoraggia l’acquisto e mira a ridurre le esternalità
conseguenti. Si tratta quindi di una seconda eccezione alla regola già vista, contraria alla
creazione di distorsioni nelle scelte di consumo.
Inoltre il policy maker potrebbe desiderare di modificare i comportamenti di
soggetti che ritiene non in grado di effettuare le migliori scelte per se stessi. Scoraggiare
il consumo di alcool e tabacco sarebbe allora giustificato dalla volontà di impedire che
dei consumatori danneggino la loro salute perchØ non pensano alle conseguenze delle
loro azioni. In questo caso non si parla piø di effetti esterni ma, piuttosto, di effetti
interni (va segnalato tuttavia che esiste un altro sistema per disincentivare questi
consumi: le accise, che impongono una tassa per ogni unità consumata
indipendentemente dal suo valore).
Tale visione non giustifica però solo alte imposte sui beni “negativi”, ma anche
un trattamento fiscale agevolato per un altro tipo di beni, definiti “meritori”, per i quali
si ritiene buona cosa, sia per il singolo che per la società, incentivarne il consumo oltre
al livello che i consumatori, lasciati liberi di scegliere, fisserebbero. In questo modo si