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INTRODUZIONE
―Lo fanno tutti‖ è la più celebre delle giustificazioni. Ma è una giustificazione o
piuttosto una scusa (e dove cade il confine tra questi due atti linguistici)? Che tipo
di soggetto modale disegna: un soggetto che può fare o non deve fare1 perché lo
fanno tutti, o un soggetto che non può non fare perché vincolato dall‘azione
collettiva? Di conseguenza, che ruolo ha questo ―tutti‖: è un aiutante che permette
di raggiungere un obiettivo o un destinante che manipola il soggetto scaricandolo
da una diretta responsabilità? Infine, che tipo di interlocutore è prefigurato da un
soggetto che usa la formula ―lo fanno tutti‖ come giustificazione?
A dispetto della frequenza con cui occorre nelle interazioni tra esseri umani, la
giustificazione è un oggetto di studio particolarmente complesso. Secondo
l‘etimologia, giustificare vuol dire ―fare giusto‖, laddove il concetto di giusto può
assumere diverse accezioni: legale, corretto (in senso logico o etico), accettabile.
Sfumature a parte, però, si può dire che la giustificazione mira a trasformare la
valutazione che qualcuno ha dato o potrebbe dare su un‘azione compiuta da un
individuo. Da un individuo o dal suo simulacro in discorso? O da entrambi?
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Riteniamo opportuno sottolineare la differenza tra non dover fare (facoltatività) rispetto a dover
non fare (interdizione)
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Per capire chi dev‘essere valutato dal destinatario della giustificazione è
necessario stabilire chi sta parlando e il modo in cui, attraverso un sistema di
segni, sta provando a parlare di se stesso.
Consideriamo, ad esempio, un tipo di interazione in cui la giustificazione si
presenta con frequenza, e dove l‘effetto di distanza tra colui che parla e il suo
simulacro in discorso è minimo: il dialogo. Nei romanzi o nelle sceneggiature dei
film, i dialoghi si presentano come una successione di frasi accompagnate, a volte,
da indicatori che servono a fornirci informazioni aggiuntive: chi sta parlando,
quali sono i suoi sentimenti, qual era il tono di voce adottato, se gesticolava o no.
Nel 1928 lo scrittore statunitense Ernest Hemingway pubblicò un racconto,
Colline come elefanti bianchi (1928), la cui caratteristica principale è quella di
essere composto da un unico, lunghissimo dialogo. Un dialogo rappresentato in
forma minima: le uniche informazioni, a parte alcuni indicatori sulla direzione
degli sguardi, sono dei continui ―lui disse‖ e ―lei disse‖. Come ha affermato (e
dimostrato) Marina Mizzau
non ci sono descrizioni e commenti relativi agli stati d‘animo dei
personaggi. Eppure, noi inferiamo ciò che essi intendono al di là del loro
dire esplicito, e comprendiamo ciò che essi stessi inferiscono nell‘ambito di
una comunicazione quasi costantemente obliqua, riferita a un conflitto il cui
topic diventa comprensibile solo a metà del racconto, pur non venendo mai
nominato esplicitamente (Mizzau 2002:32)
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Se Hemingway avesse inserito degli indicatori come ―sottolineò con ironia‖ o
―esclamò con stupore‖ avrebbe prodotto dell‘informazione ridondante perché
stava già emergendo un surplus di senso che non riguardava i singoli enunciati,
quanto due posizioni che stavano al di là delle singole affermazioni, e alle quali il
lettore stava già iniziando ad attribuire intenzioni, sentimenti, aspettative, strategie
comunicative. In fondo, quando capita di leggere la trascrizione di una
conversazione o di ascoltare un dialogo via telefono, non ci si ritrova in una simile
situazione? Nella vita di tutti i giorni non esiste un narratore che sottolinei le
sfumature degli atteggiamenti o che, addirittura, ci informi della corrispondenza o
della discrepanza tra le affermazioni di un individuo e i suoi moti sentimentali
interni.
La posizione dell‘osservatore è proprio quella del lettore di Colline come
elefanti bianchi, e non bisogna stupirsi delle capacità inferenziali che mettiamo
alla prova su questo racconto, in quanto sono quelle che ci permettono di
formulare giudizi sulle interazioni quotidiane a cui assistiamo. Se il punto di vista
del produttore vuole la comunicazione come un percorso di questo tipo
il punto di vista dell‘osservatore richiede uno schema ben diverso
Mittente Messaggio Destinatario
Mittente Messaggio Destinatario
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Per chi osserva non è il mittente a produrre un messaggio per un destinatario, ma è
il messaggio a produrre un mittente e un destinatario. Ciò non dev‘essere inteso,
ovviamente, da un punto di vista fisiologico, ma da un punto di vista sia logico
che percettivo. Questo vuol dire allargare la concezione di messaggio a tutto ciò
che può essere utile a costruire il mittente e il destinatario. Noi non osserviamo
individui arrabbiati ma ascoltiamo un tono di voce alterato, vediamo un
gesticolare frenetico, leggiamo frasi come ―egli disse, digrignando i denti‖, e
concludiamo che chi sta enunciando è arrabbiato.
Chi assiste a una conversazione riceve messaggi e, attraverso essi, ricava due
posizioni, a ciascuna delle quali attribuisce non solo stati d‘animo, ma anche
competenze, desideri, aspettative, intenzioni. Si costituiscono dei veri e propri
soggetti caricati di valori modali:
In quanto attanti, Enunciatore ed Enunciatario sono variamente caricati,
all‘interno del testo, di valori modali (volere, dovere, sapere, potere).
Laddove, nella tradizionale teoria della comunicazione emittente e
destinatario sono pure istanze di trasmissione e di ricezione senza alcuna
particolare determinazione interna (diceva Goffman: ―cabine telefoniche
vuote‖), in semiotica l‘Enunciatore e l‘Enunciatario sono soggettività
variamente costruite che entrano in relazione fra loro anche e soprattutto
attraverso i carichi modali che li contraddistinguono (Fabbri e Marrone
2001:14)
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Attraverso una rivoluzione copernicana del concetto di dialogo, in cui è il testo a
creare le posizioni di enunciatore ed enunciatario e a riempirle dinamicamente
attraverso la distribuzione dei carichi modali, la semiotica avrebbe potuto dire
qualcosa di nuovo rispetto alla pragmatica e ai tradizionali analisti della
conversazione:
A ben vedere, è piuttosto sorprendente che questo ambito di ricerca sia stato
quasi interamente lasciato ad altre discipline, dall‘analisi della
conversazione alla pragmatica linguistica, che da un lato si sono soprattutto
occupate dei meccanismi di superficie di organizzazione del discorso (turn
taking, struttura minima dello scambio dialogico etc), dall‘altra hanno
indagato nella direzione della ricostruzione dell‘intenzionalità della
produzione e del computo inferenziale su essa basato, lasciando in ombra o
totalmente inesplorate altre questioni centrali per la definizione del senso,
dall‘enunciazione alla narratività, alla componente affettiva, passionale, ma
anche strategica e manipolativa dei discorsi, dove un‘analisi semiotica
avrebbe potuto opportunamente esercitarsi2 (Violi 2006:2)
Tra i simulacri in discorso e gli interlocutori empirici si trovano, dunque, delle
posizioni inscritte nei testi e delineate attraverso la loro comprensione e analisi.
Sia la semiotica greimasiana, attraverso la teoria dell‘enunciazione, che quella
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Bisogna riconoscere comunque, agli analisti della conversazione, la grande finezza analitica e la
capacità di descrivere i meccanismi che provvedono all’organizzazione del dialogo senza lasciarsi
trasportare da conclusioni non confortate da indizi testuali
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echiana, attraverso i concetti di Autore e Lettore Modello, cercano di render conto
di queste posizioni:
Un altro aspetto su cui la semiotica può portare un contributo innovativo agli
approcci sulla conversazione riguarda la natura del testo. Chi parla non utilizza un
codice creato e negoziato volta per volta, ma si appropria (per citare
un‘espressione di Benveniste) della lingua; questo processo di appropriazione è
tutt‘altro che pacifico. La lingua, infatti, preesiste agli individui, come preesistono
agli individui i percorsi interpretativi che si possono compiere su un testo, sia le
micronarrazioni su cui si poggia la stabilità semantica di un termine. Questo si
traduce in un controllo sempre parziale del soggetto sulle possibilità interpretative
dei suoi enunciati: si apre così la strada per la gaffe, il fraintendimento o persino
la menzogna. È evidente che un fenomeno del genere rende ancora più delicata la
costruzione del proprio simulacro in discorso.
A questo punto la comunicazione può apparire come un‘attività disperata: da
un lato, infatti, gli individui non possono inserire se stessi come soggetti, ma
possono soltanto produrre simulacri testuali; dall‘altro, esiste la possibilità
concreta che le reali intenzioni di un individuo (che possono essere presenti solo
all‘individuo stesso) siano sovrastate dai percorsi interpretativi che una cultura
permette nei confronti di un determinato enunciato.
Enunciatore Testo Enunciatario
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L‘unico modo per risolvere questo problema è rovesciare totalmente la
prospettiva. La comunicazione non dev‘essere considerata come un mezzo
passivo di trasmissione della verità (che, in quanto mediata, non può che arrivare
in forma degenerata), ma come strumento che permette di raggiungere straordinari
effetti di verosimiglianza:
Se la verità non è altro che un effetto di senso, la sua produzione consiste
allora nell‘esercizio di un fare particolare, il far-sembrare-vero, ovvero nella
costruzione di un discorso che ha come funzione non il dire-vero ma il
sembrare vero. Questo sembrare non ha più come scopo quello
dell‘adeguazione con il referente, come nel caso della verosimiglianza,
bensì l‘adesione del destinatario a cui si indirizza. Cerca, in altri termini, di
essere letto come vero da quest‘ultimo (Greimas 1983:108)
L‘assenza di un narratore esterno nella vita di tutti i giorni fa saltare la possibilità
di saldare ciò che un individuo è con ciò che un individuo dice di essere, e rende
la semiotica ―la disciplina che studia tutto ciò che può essere usato per mentire‖
(Eco 1975:17). La ―posizione‖ di quel soggetto si costruisce attraverso
l‘interazione. Ad esempio, una gaffe di cui il soggetto non si rende conto (e che
quindi non può correggere) costruisce nell‘osservatore un‘idea di quel soggetto
che non corrisponde all‘idea che il soggetto ha di se stesso, e nessuno verrà mai ad
avvertirlo di questo scarto. Viceversa, un manipolatore particolarmente in gamba
può costruire una perfetta immagine di se stesso che non corrisponde ai suoi
pensieri e ai suoi stati d‘animo, e nessuno, senza strumenti adeguati che trovino
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nel testo (o nel confronto tra testi) elementi di contraddizione, può spostare la
maschera e gettare uno sguardo nell‘insondabile, ovvero nel complesso motore
dei desideri e delle aspirazioni individuali. L‘insondabile interiorità, se non si
manifesta in forme di espressione collegabili (culturalmente) a un contenuto, resta
fuori dalla portata semiotica: de individuo nullo scientia.
La semiotica, attraverso le riflessioni sviluppate negli ultimi cinquant‘anni, può
avere molto da dire sull‘analisi dell‘interazione. Innanzitutto, sgomberando il
campo da una presunta extratestualità legata a teorie del riferimento diretto, e
utilizzando, poi, le categorie che permettono di valutare i rapporti tra le
configurazioni discorsive, i livelli soggiacenti e le ricadute nei rapporti tra gli
attanti enunciatori e i loro simulacri.
Il presente lavoro è diviso in due parti: nella prima si cerca di inquadrare, da un
punto di vista semiotico, alcuni concetti che possiamo applicare alla strategia di
giustificazione all‘interno degli scambi dialogici; il rapporto
enunciatore/simulacro, i carichi modali dei soggetti, il ruolo dell‘osservatore, sono
tutti temi attraverso cui la semiotica può dire qualcosa di nuovo sull‘oggetto
―giustificazione‖. In particolare, saranno approfonditi i problemi di quelle
strategie di giustificazione che giocano sulla membership, cioè sulla possibilità del
soggetto di presentarsi in modo diverso a seconda della situazione – e della
propria strategia; inoltre, sarà considerato il ruolo, fondamentale nel caso della
giustificazione, di colui che giudica. Essendo la giustificazione la ricerca (o
l‘imposizione) di una posizione comune, essa non può che essere legata al
concetto di riconoscimento da parte dell‘enunciatario.
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La seconda parte consta di tre analisi; ognuna riguarda una strategia di
giustificazione, seppure da un punto di vista diverso. La prima opera un confronto
tra la favola Il lupo e l’agnello analizzata da Coquet e un brano tratto da Il
giocatore di Dostoevskji; dalla comparazione emergono, oltre alle ovvie
differenze, anche alcuni aspetti comuni come la costruzione degli attanti a partire
dall‘interazione, il carico modale di cui ciascun attante si dota in corso d‘opera, la
lotta per supremazia gerarchica e la resistenza attraverso lo smascheramento. La
seconda analisi nasce da un‘osservazione di Thomas Schelling a proposito di un
fenomeno comune quale l‘attraversamento stradale; l‘episodio offre riflessioni di
portata più vasta sulla costruzione degli attori collettivi e sulla differenza di
carichi modali tra questi e i singoli individui che li formano; i limiti e i diritti di
una massa sono gli stessi rispetto a quella dei suoi componenti presi ad uno ad
uno? Infine, la terza analisi riguarda un brano di Arthur Lovejoy ripreso da Jon
Elster in Ulisse e le sirene; attraverso l‘analisi, cercheremo di mostrare come la
presenza dell‘Altro, nelle strategie di giustificazione, sia tutt‘altro che secondaria;
l‘esistenza di vincoli, infatti, è fondativa per il concetto stesso di giustificazione,
affinché esso non straripi nella possibilità infinita, spazio in cui si può affermare
tutto e il suo contrario.
In definitiva, questo lavoro rilancia la necessità di una prospettiva semiotica
sulle interazioni quotidiane, prospettiva che non può prescindere dai testi e dalle
trasformazioni che essi operano – attraverso le loro caratteristiche strutturali – nel
modificare le relazioni tra gli individui.
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CAPITOLO I: SOPRAVVIVERE NELLA SEMIOSFERA
Ogni uomo e donna su questo pianeta, salvo casi di isolamento estremo, fa
esperienza quotidiana della conversazione. La facilità con cui ciascuno di noi
gestisce le proprie conversazioni quotidiane fa passare in secondo piano la loro
estrema complessità, complessità che emerge quando esse si trasformano da
pratica quotidiana a oggetto di studio.
Il senso di un dialogo, sembra infatti ―sgomitare‖ verso l‘esterno: il contesto, le
relazioni tra gli interlocutori e le conoscenze pregresse che ciascuno di loro ha. La
pragmatica ha sottolineato con enfasi questi aspetti, evidenziando ad esempio il
potere della presupposizione e del ―non detto‖ all‘interno della conversazione (cfr.
Sbisà 2007), o il modo in cui il contesto disambigua le espressioni o permette di
individuare il topic del discorso (da qui seguirebbe l‘idea che per ottenere l‘effetto
di senso ―corretto‖ di un dialogo sarebbe necessario esplicitare un setting). Infine,
non vanno dimenticati i tentativi di integrare, nell‘analisi della conversazione, tutti
gli aspetti non verbali quali, ad esempio, la distanza tra gli interlocutori o le
sfumature nel tono della voce.
Di fronte a questa indubbia relazione tra il dialogo e le circostanze ―esterne‖, la
domanda per la semiotica è questa: a quale livello si può e si deve chiudere un
dialogo, essendo la chiusura un passo fondamentale per la costituzione di un testo
d‘analisi? Chi assiste a un dialogo crea, in effetti, la propria narrazione,
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selezionando e inserendo nel suo testo ciò che riesce a rilevare come pertinente;
allo stesso modo, chi trascrive una conversazione non può tener conto di tutte le
intonazioni ascendenti e discendenti, e dovrà stabilire un livello di rilevanza, nella
speranza che questo non sia influenzato da ipotesi ideologiche sulla
conversazione.
A prima vista sembra, dunque, che una prospettiva centrata sul testo sia più
adatta a forme ―chiuse‖ quali i romanzi o i racconti, in cui la presenza rassicurante
del narratore solleva l‘osservatore dal ritagliare il piano di pertinenza più
adeguato, e tutti gli indizi necessari alla comprensione sono relegati al semplice
piano verbale. Ma è l‘assenza di questa comoda figura che può fornire lo stimolo
principale per confrontarsi con nuovi tipi di testo e il modo in cui essi producono
senso.
1.1 LA PERMEABILITÀ ATTANZIALE
Nel suo livello superficiale, la conversazione è l‘interazione tra coppie di turni
conversazionali che si alternano trasformando le relazioni tra gli oggetti del loro
discorso3:
3
Sull’organizzazione dei turni all’interno della conversazione cfr. Sacks, Schegloff, Jefferson 1978
Enunciato 1
Enunciato 2
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Ciò che caratterizza il dialogo tra esseri umani (reali o letterari) è, però, la
presenza di qualcosa al di là degli enunciati, una posizione che non può essere
appiattita sull‘individuo in carne e ossa. Questa posizione noi la chiamiamo
enunciatore; caratteristica dell‘enunciatore (nella teoria greimasiana) è quella di
non essere il produttore materiale dell‘enunciato, bensì un‘istanza presupposta
dalla presenza dell‘enunciato stesso. Quello che, da un punto di vista della
produzione, era schematizzabile in questo modo
adesso viene ribaltato stabilendo la centralità del testo:
Tuttavia, i due schemi non coincidono per quanto riguarda i termini adottati:
enunciatore ed enunciatario, infatti, non sono identificabili col mittente e il
destinatario. È necessario approfondire questa distinzione affinché le istanze
materiali di produzione, appena cacciate dalla porta, non rientrino dalla finestra
sotto le sembianze di un debole concetto di enunciazione.
Sia la semiotica greimasiana che quella interpretativa tengono ben distinti i
cosiddetti ―autori empirici‖ dai loro effetti testuali, garantendo al testo una totale
autonomia rispetto al referente:
Mittente Messaggio Destinatario
Enunciatario Enunciatore Enunciato