Relativamente alla politica di smobilizzo esaminata si è considerato il
periodo di tempo successivo al 1991. Alla fine di tale anno le principali
imprese controllate dallo Stato erano sostanzialmente organizzate in base
all’attività economica e rispondevano a società caposettore il cui capitale era
posseduto da quattro Enti pubblici di gestione: IRI, EFIM, ENI ed ENEL Gli
enti di gestione rispondevano al Ministero delle Partecipazioni statali. Il
1992 segna l’inizio di un nuovo corso, soprattutto a seguito della
trasformazione degli enti di gestione in società per azioni e l’avvio di una
decisa politica di privatizzazione. La trasformazione degli enti in S.p.A. ha
trasferito le partecipazioni in capo al Tesoro dello Stato (il Ministero delle
partecipazioni statali fu abolito nel giugno 1993) cambiando la loro
“missione”: da gestioni con obiettivi legati all’interesse pubblico si è passati
ad una conduzione degli affari con “criteri di economicità ed efficienza
secondo le regole del mercato”.
La politica di privatizzazione ha comportato cessioni di aziende e liquidazioni
di attività giudicate non risanabili.
L’EFIM è stato posto in liquidazione nel 1992 e soppresso nel 1993;
l’IRI è stato posto in liquidazione nell’anno 2000;
le azioni di ENI ed ENEL sono state vendute in Borsa, ma non si è ancora
pervenuti alla loro privatizzazione definitiva.
II
Infine, l’avvio del processo di privatizzazione della Finmeccanica ha portato
il suo controllo in capo al Tesoro il quale vi detiene ancora circa un terzo
delle azioni. Il Tesoro detiene “poteri speciali” (la cosiddetta golden share)
in ENI, ENEL e Finmeccanica, nonché nella Telecom Italia privatizzata nel
1997.
La quantificazione degli introiti derivanti dalla politica accennata non è
agevole. Infatti, da un lato occorre distinguere tra privatizzazioni e semplici
smobilizzi, dall’altro i rendiconti richiesti dalla normativa (Legge n. 474 del
1994) non contemplano i dettagli delle operazioni di acquisizione (i cui flussi
andrebbero contrapposti a quelli delle cessioni); da ultimo, la cessione di
alcune attività produttive non configura necessariamente l’uscita dello Stato
da un settore, potendo costituire un’operazione volta semplicemente ad
ottimizzare il portafoglio di business dell’impresa. I soggetti pubblici hanno
comunque perfezionato delle cessioni per le quali si sono avvalsi di numerosi
intermediari (consulenti, valutatori, collocatori, operatori pubblicitari ecc.)
ai quali sono stati erogati compensi pari mediamente al 3% dei controvalori
lordi.
Facendo riferimento alle principali operazioni, il 63% degli introiti da
privatizzazioni ha riguardato imprese industriali. Si tratta essenzialmente di
cessioni degli ex-enti di gestione (IRI, ENI ed EFIM); il Tesoro è intervenuto
III
privatizzando Telecom Italia e Seat, precedentemente rilevate dall’IRI, solo
per consentire il rispetto dell’impegno sulla riduzione dei debiti di questo
ente per la fine del 1996 conseguente all’accordo “Andreatta-Van Miert”. Le
operazioni degli ex-enti di gestione si sono sviluppate secondo criteri
differenti: l’ENI ha considerato il programma di dismissioni come una
semplice selezione del proprio portafoglio di business, l’EFIM ha operato
nell’ambito di una procedura di liquidazione, l’IRI ha operato dapprima in
un’ottica di superamento di condizioni finanziarie critiche,( debiti molto
considerevoli accumulati nel tempo) poi - dal 1997 - in un’ottica di
liquidazione di tutte le sue attività.
Gli smobilizzi di imprese pubbliche hanno prodotto importanti effetti sul
bilancio dello Stato. Partendo dalla considerazione che ogni conferimento di
risorse alle imprese ha generato oneri a carico della finanza pubblica e che
tali oneri si sono necessariamente riflessi sul debito pubblico, è stato valutato
quanto di tale debito sia attribuibile all’attività dello Stato imprenditore. La
metodologia seguita si è basata sull’individuazione dei flussi finanziari
generati da tale attività: i flussi in uscita sono rappresentati dalle erogazioni
di somme per fondi di dotazione, quelli in entrata sono costituiti dall’incasso
di somme a titolo di dividendo distribuito dagli ex-enti di gestione e dalla
vendita al pubblico di quote del loro capitale. A questi flussi sono stati
aggiunti quelli impliciti derivanti dalla maturazione di interessi
IV
sull’indebitamento via via accumulato i quali hanno essi stessi contribuito ad
aumentare il debito pubblico.
Sotto il profilo temporale vi è stato un progressivo aumento del debito dello
Stato indotto dalle imprese pubbliche fino al 1994: in tale anno il debito
accumulato è valutabile in 65,85 miliardi di euro circa(compreso l’EFIM).
Successivamente, gli utili distribuiti dagli ex enti e il collocamento al
pubblico delle azioni ENI ed ENEL hanno comportato rimborsi netti. In
rapporto all’indebitamento netto delle amministrazioni pubbliche (fabbisogno
annuo calcolato secondo le norme comunitarie), il sistema delle imprese
pubbliche ha generato introiti netti pari al 7,3% nel 1995-97, al 17% nel
1998
e al 100,8% nel 1999.
Le operazioni di dismissione delle partecipazioni dirette dello Stato hanno
comportato incassi che sono affluiti al “Fondo per l'ammortamento dei titoli
di Stato”; una parte di tali introiti non è però affluita al fondo poiché è stata
utilizzata per coprire i costi delle operazioni per commissioni, consulenze,
tasse sui contratti di borsa, spese per adempimenti vari, etc.
In ordine alla utilizzazione delle somme affluite al Fondo per
l’ammortamento del debito pubblico, si rammenta che sulla destinazione
originaria del Fondo stesso, istituito allo scopo di ridurre la consistenza dei
titoli di Stato in circolazione (art. 2 della legge 27 ottobre 1993 n. 432), ha
V
inciso la disciplina introdotta prima provvisoriamente dal d.l. 21 novembre
1996, n. 598, non convertito, e poi dall'articolo 2, comma 182, della legge 23
dicembre 1996, n. 662 («Misure di razionalizzazione della finanza pubblica»,
provvedimento collegato alla legge finanziaria 1997), che ha autorizzato in
via generale il Tesoro ad acquisire, ai fini della successiva dismissione,
partecipazioni totalitarie indirette, utilizzando per la relativa spesa i proventi
delle privatizzazioni accantonati sul Fondo di ammortamento dei titoli di
Stato.
Per la trattazione quantitativa degli argomenti sino a questo punto richiamati
si rinvia ai contenuti della nostra ricerca che è strutturata in quattro capitoli.
Il primo è un capitolo prettamente introduttivo nel quale sono stati
considerati tutti quegli elementi ritenuti necessari per poter comprendere con
più facilità e precisione gli argomenti trattati nella seconda parte della tesi.
Si è dato ampio spazio alla regolamentazione legislativa del fenomeno, alle
motivazioni economiche che lo hanno stimolato, a precisazioni
terminologiche e definizioni considerando, per ultimo, in breve, anche il
quadro internazionale delle privatizzazioni.
I capitoli II, III e IV costituiscono la seconda parte.
In essi è stata svolta un’analisi ( dettagliata anno per anno, operazione per
operazione) dell’andamento del fenomeno delle privatizzazioni a partire
VI
dall’anno 1992 sino ad arrivare alla fine del 2003 con i relativi riflessi
sull’andamento del debito pubblico.
In particolare, nel capitolo secondo si è trattato dei primi anni (1992-1995)
di sviluppo del fenomeno; nel capitolo terzo si è analizzata la fase centrale e
più importante della realizzazione delle politiche di privatizzazione (anni
1996-2000); il quarto capitolo ha avuto come obiettivo l’analisi delle attività
di privatizzazione attuate nei primi anni del 2000 sino ad arrivare, quasi, ai
giorni nostri.
In ognuno dei tre capitoli citati si è dato spazio all’analisi dei risvolti delle
privatizzazioni sul Fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato e in
conclusione di essi si è fatto un bilancio del periodo considerato.
Gli effetti positivi riscontrati al termine dell’analisi portata avanti in questo
studio hanno confermato l’utilità delle politiche di privatizzazione come
metodo per incrementare le entrate dello Stato e ridurre, tramite il Fondo per
l’ammortamento, il debito pubblico, ma hanno anche permesso di
sottolineare come le aspettative riposte in questo processo siano in parte
rimaste deluse.
VII
CAPITOLO I
ELEMENTI INTRODUTTIVI RELATIVI ALLE PRIVATIZZAZIONI
1.1 Le fasi politico normative di privatizzazione
Il tema delle privatizzazioni ha trovato affermazione nella politica economica
di stampo liberista dei governi degli Stati Uniti e del Regno Unito già a partire
dalla fine degli anni ’70 rimanendo, invece, pressoché sconosciuto in Italia
sino agli inizi degli anni ’90.
I primi passi sono stati realizzati nei confronti dell’IRI
1
più con un intento di
rivitalizzazione dell’ente che di una sua totale eliminazione. Si è però da qui
iniziata a considerare la possibilità di attuare un vero e proprio progetto di
privatizzazioni che avrebbe consentito influenze positive sulle strutture
produttive e sulla competitività del paese in certi settori.
Il tentativo di mantenere il vecchio sistema delle partecipazioni statali,
stimolando gli investimenti dei privati in alcune parti dello stesso, contrastava
fortemente con l’inversione del ciclo economico degli anni ’90-’91 e,
soprattutto con la scoperta degli effetti negativi esercitati dalla tutela politica.
1
Istituto per la ricostruzione industriale fondato nel 1933.
1
La crisi economico-finanziaria di queste imprese, evidente sintomo di una
loro difficoltà strutturale, è espressa dall’allargarsi delle perdite da un lato e
dall’impossibilità, da parte del Ministero del Tesoro, di farvi fronte con gli
adeguati mezzi . Il finanziamento delle ristrutturazioni e la necessaria
copertura dei debiti pregressi potevano, chiaramente, essere sostenuti solo in
minima parte dai fondi pubblici sempre meno supportati, oltretutto, dagli aiuti
europei.
In questo contesto le privatizzazioni avrebbero dovuto contribuire alla
riduzione del debito pubblico e, proprio in questo senso si era indirizzata, nel
novembre del 1990, la commissione per il riassetto del patrimonio mobiliare
pubblico e per le privatizzazioni individuando, con il suo rapporto al Ministro
del Tesoro, come principale finalità delle privatizzazioni, il contributo che
avrebbero potuto dare per il risanamento della finanza pubblica.
In questa ottica, il processo di privatizzazione veniva considerato applicabile
a tutte le attività produttive e finanziarie a controllo pubblico.
Il primo passo della privatizzazione era dunque, necessariamente, quello di
trasformare tali soggetti in società per azioni (S.p.A.), ossia in soggetti di
diritto privato. Prima applicazione di tale disegno è stata realizzata in ambito
creditizio grazie alla legge Amato (L. 30 luglio 1990, d.lgs. 20 novembre
1990, n. 35), rinviando l’inizio del procedimento di privatizzazione all’anno
1993 per le altre imprese pubbliche. Fondamentale in proposito la legge 29
2
gennaio 1992, n. 35, che ha consentito al Cipe
2
di trasformare in S.p.A. gli
enti di gestione delle partecipazioni statali, gli altri enti pubblici economici e
le aziende autonome dello Stato, considerando, inoltre, la possibilità di una
cessione anche maggioritaria del capitale azionario. Si è prevista, inoltre,
l’alienazione di beni patrimoniali demaniali soggetti a gestione economica.
Inizialmente il governo ha tentato di creare due supersocietà industriali-
bancarie attorno ad Iri ed Eni
3
alle quali si sarebbero unite la Banca Nazionale
del Lavoro e l’ Imi collocando solo parzialmente le relative azioni sul mercato
come previsto dal progetto Guarino-Capaldo. L’emanazione però della legge
8 agosto 1992, n. 359, disponendo l’immediata trasformazione in società per
azione di Iri, Eni, Ina (istituto nazionale assicurazioni), Enel (Ente nazionale
energia elettrica), riconoscendo la titolarità del capitale al Tesoro, ha
determinato l’accantonamento del progetto sopra menzionato. Stessa
trasformazione hanno subito le Ferrovie dello Stato, sempre con attribuzione
del pacchetto azionario al Tesoro, incaricato di esercitare i diritti proprietari
d’intesa con il Bilancio e i Trasporti.
Questi eventi hanno altresì sottolineato la scarsa rilevanza del Ministero delle
Partecipazioni statali, da sempre privo di una struttura organica e fondato
sull’attività di manager o di operatori di enti o società che dovevano essere
2
Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica istituito con la legge 27 Febbraio 1967 n.48 art.16.
3
Ente nazionale idrocarburi istituito con la legge n.136 del 1953.
3
sotto il controllo del ministero. La presenza contemporanea di ministeri come
quello del Bilancio e dell’ Industria e di istituzioni come il Cipe e l’Ispe ne
sottraevano di fatto ogni potenzialità sia programmatoria che di indirizzo.
Dopo esserne state attribuite ad interim le funzioni al Ministro dell’ Industria,
l’anno successivo ne sarebbe stata deliberata la soppressione.
La legge 359 stabiliva inoltre che il Ministro del Tesoro, d’intesa con quello
del Bilancio, dell’Industria e ad interim delle Partecipazioni statali, dovesse
predisporre un programma di riordino delle partecipazioni dello Stato.
Riconoscendo ancora alle privatizzazioni il compito di ridurre il debito
pubblico, iniziava a farsi strada l’idea che queste avrebbero potuto contribuire
a rafforzare la competitività del sistema industriale del Paese.
La crisi istituzionale apertasi a livello politico nel 1992, la messa in
liquidazione del terzo ente di gestione delle Partecipazioni statali (Efim) e
l’emergenza valutaria dello stesso anno hanno rafforzato, nel governo,
l’atteggiamento favorevole nei confronti delle privatizzazioni facendo così
scaturire un importante dibattito istituzionale che ha messo in evidenza come
la rinuncia dello Stato alla proprietà delle imprese potesse essere utile sia a
porre fine agli intrecci perversi tra politica ed economia, sia ad impostare una
nuova politica industriale del paese.
L’uscita dello Stato dalla proprietà delle imprese produttive diventava quindi
un preciso obiettivo politico formalizzato dal governo Amato e attuato
4
praticamente dal successivo governo Ciampi: competitività delle imprese da
privatizzare e efficienza complessiva del sistema produttivo e finanziario del
paese erano gli obiettivi perseguiti da tale progetto.
Il cambiamento di proprietà avrebbe dovuto agevolare, sotto un primo profilo
il verificarsi di alcuni eventi:
x il reperimento di risorse adeguate senza eccessivi oneri per le finanze
pubbliche;
x nuovi comportamenti competitivi;
x nuove forme di aggregazione/disaggregazione delle attività produttive con
un’ottica plurinazionale
Sotto un secondo profilo, la maggiore efficienza di settori come quello
dell’energia, delle telecomunicazioni, dei trasporti ecc. avrebbe potuto portare
ad un miglioramento indiretto per la competitività complessiva del paese.
Tale tipologia di beneficio era poi prevista come conseguenza del maggiore
spessore e della maggiore efficienza del mercato di borsa in conseguenza
dell’incremento della proprietà azionaria derivante dalle stesse
privatizzazioni. Il nuovo atteggiamento dello Stato sembrava ormai destinato
ad estendersi anche ad altri settori (manifatturiero, terziario, patrimonio
immobiliare sia demaniale che degli enti di previdenza) poiché ci si rendeva
conto che il passaggio alla proprietà privata dava contributi, in riferimento
alle finanze pubbliche ma anche all’efficienza gestionale ed allocativa, se si
5
fossero resi competitivi e se fossero opportunamente regolamentati i relativi
mercati.
Una impostazione in tal senso è riscontrabile, seppure con maggiore lentezza,
a livello locale per ciò che concerne le imprese industriali e i servizi di
proprietà comunale e regionale. La legge 142 del 1990 ha posto alcune
premesse per consentire una maggiore apertura a gestioni e capitali privati
nell’ambito dei servizi pubblici competenti agli enti locali. La legge n. 498 del
1992, poi, prevedendo la possibilità per comuni e province di gestire servizi
pubblici tramite società per azioni a maggioranza privata, ha consentito di
suparare la concezione della legge 142 secondo la quale le S.p.A., costituite
per gestire i servizi pubblici locali, avrebbero dovuto rimanere a prevalente
capitale pubblico.
Oltre però alle svariate opportunità positive derivanti dalle privatizzazioni, le
autorità politiche, si sono trovate di fronte una serie di problemi legati ai
necessari adeguamenti richiesti per far si che tali opportunità potessero
tramutarsi in effettivi benefici per lo Stato.
Tra i più rilevanti problemi possiamo considerare:
x gli assetti proprietari, le regole di governo societario e di riallocazione del
controllo;
x le regole di funzionamento dei mercati e il ruolo delle relative autorità di
tutela ( antitrust e regolamentazione )
6
In ambedue i casi, la cessione del controllo da parte dello Stato ai privati deve
realizzarsi tenendo presente l’obiettivo di massimo stimolo dell’ efficienza
tramite la competizione, assicurando contemporaneamente livelli di stabilità
atti a garantire orizzonti temporali abbastanza ampi per permettere la
realizzazione delle strategie dei nuovi proprietari e manager.
La prima tipologia di problemi risulta legata alle modalità da seguire nel
processo di privatizzazione: meglio un’offerta delle azioni al pubblico oppure
la vendita a gruppi già esistenti e attivi nel settore o in ambiti contigui; a
banche o a investitori istituzionali ecc.?
L’atteggiamento del governo Ciampi e, di quelli successivi, è stato, in
proposito, di tipo pragmatico, nell’ambito di un quadro normativo che
prevede tutte le modalità sopra indicate.
La materia è stata regolata in momenti successivi, dal d.lgs.28 settembre
1993, n. 383 contenente “norme per l’accelerazione delle procedure di
dismissioni di partecipazioni del ministero del Tesoro in società per azioni”,
reiterato con modifiche sino ad arrivare alla approvazione definitiva della
legge 30 luglio 1994, n. 474
Con riferimento alle modalità delle dismissioni si prevedono:
x forma dell’offerta pubblica di vendita ( Opv ) ;
x forma della trattativa privata (con asta) ;
x forma risultante dalla combinazione delle due procedure precedenti.
7
È contemplata la possibilità di creare nuclei stabili di azionisti a garanzia di
condizioni finanziarie,economiche e gestionali per le società privatizzate.
Il d.lgs. 383 del 1993 prevedeva già che, in certe situazioni, il grado di
concentrazione della proprietà e, potenzialmente del controllo, in capo ai
singoli soggetti non fosse superiore ad un certo limite, concedendo alle
imprese da privatizzare la possibilità di introdurre nello statuto una soglia
massima relativa al possesso azionario con diritto di voto, riferito al singolo
socio e al gruppo di appartenenza.
Questo discorso vale sia per particolari settori quali la difesa, i trasporti, le
telecomunicazioni e l’energia sia per le banche e le assicurazioni. Non appena
tale norma è stata introdotta è subito stata elusa nelle sue finalità: dalle
privatizzazioni del Credito italiano e della Banca commerciale si sono
sviluppate strutture di controllo di fatto tramite coalizioni informali di
azionisti, ognuno rispettoso del massimo limite di possesso, ma gravitanti
nelle loro totalità attorno a Mediobanca. Quanto accaduto evidenzia una tipica
tendenza del nostro paese per ciò che concerne il modello di controllo delle
grandi imprese: ci riferiamo, cioè, alla formazione di assetti azionari
finalizzati a rendere impossibili o molti difficoltosi i tentativi di scalata da
parte di gruppi esterni, anche per mezzo di partecipazioni incrociate di mutuo
soccorso.
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