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produttività. In particolare, in questo lavoro si evidenzia come i problemi di
eterogeneità nel rischio sistemico possano riflettersi nelle decisioni delle banche in
termini di tassi d’interesse e, di conseguenza, sulla profittabilità dell’impresa.
Inevitabilmente, tale processo finirebbe con l’influenzare il livello salariale pagato
dall’impresa ai lavoratori in un contesto in cui gli agenti contrattano in assenza di un
livello centralizzato. Tutto ciò, porterebbe ad avere degli effetti in termini di
divergenza tra i salari pagati nelle aree dove la maggior produttività è associata ad un
rischio sistemico minore e i salari corrisposti nelle aree con più bassa produttività
del lavoro e maggior rischiosità. La scomparsa di tali differenziali, nel lungo periodo,
genererebbe, a sua volta, la necessità di flussi migratori, verso le zone a basso rischio
ambientale, più consistenti rispetto a quelli che si verificherebbero in assenza di
inefficienze nel mercato del credito. Il presente lavoro risulta avere, quindi,
importanti implicazioni di policy. In presenza di manovre miranti a legare il salario
alla produttività, infatti, risulterebbe necessario attuare politiche di sostegno al
credito a favore delle imprese operanti nelle aree a maggior rischio sistemico al fine
di evitare che, in tali zone, si verifichino elevate perdite in termini di risorse umane.
L’aspetto originale della tesi consiste, perciò, nella creazione di un modello
teorico che permette di valutare contemporaneamente gli effetti che il rischio
sistemico genera sui rapporti che si istaurano tra l’impresa e la banca e l’impresa ed
il lavoratore. I risultati raggiunti attraverso tale modello risultano, a loro volta,
confermati dall’analisi empirica svolta.
Nel dettaglio, la struttura del presente lavoro si articola in quattro capitoli.
Nel primo capitolo, dopo aver fatto una breve evoluzione storica della
contrattazione collettiva, viene illustrato il meccanismo con cui essa si svolge
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attualmente per effetto del Protocollo del 23 Luglio 1993. Si analizzano, quindi, i
motivi che hanno fatto emergere la necessità di una revisione del suddetto Protocollo
e, infine, si espongono le due più interessanti proposte in merito al decentramento
della contrattazione: Le Linee guida di Confindustria (2008) e la proposta del premio
a due livelli formulata dagli economisti Boeri e Garibaldi (2009).
In particolare, l’attenzione si focalizza sul fatto che l’introduzione del
Protocollo del 23 Luglio 1993 ha segnato definitivamente la fine del meccanismo di
indicizzazione automatica dei salari che, a livello macroeconomico, si era mostrato
incapace nel contenere la spirale prezzi-salari ed aveva amplificato gli effetti degli
shock degli anni ’70 rendendoli persistenti, mentre, sul piano microeconomico,
aveva determinato una crescente compressione dei differenziali salariali e sottratto
quasi tutto lo spazio alla contrattazione collettiva. Con l’accordo del 23 Luglio si è
iniziato, quindi, a dare nuovamente spazio alla contrattazione, con una virtuosa
divisione dei compiti tra livello nazionale e livello aziendale. Al livello nazionale
viene affidato il compito di gestire la dinamica delle retribuzioni minime
contrattuali, con l’obiettivo di difenderne il potere d’acquisto assumendo come
riferimento il tasso di inflazione programmato in modo da minimizzare gli impulsi di
amplificazione dell’inflazione. Al livello aziendale sono affidati, invece, il compito
di accrescere il grado di flessibilità di retribuzioni e occupazione rispetto
all’andamento economico delle imprese, la riduzione dello schiacciamento
retributivo e la redistribuzione degli incrementi di produttività. In realtà, la
contrattazione aziendale ha avuto, in questi anni, una scarsa diffusione (limitata alle
imprese più grandi soprattutto nel Centro-Nord). Ciò, in linea di massima, è dovuto
al fatto che i minimi salariali, fissati dal contratto collettivo di categoria, tendono ad
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essere più bassi della produttività marginale del lavoro del Nord Italia e, allo stesso
tempo, più alti della produttività marginale del lavoro del Mezzogiorno. Di
conseguenza, nelle aziende del Sud Italia non sembrerebbero esistere ulteriori
margini per poter effettuare contrattazione.
Inoltre, nel Protocollo del 1993 sono state le stesse parti sociali a sostenere la
necessità di un successivo adeguamento di tale accordo una volta stabilizzata
l’inflazione. In realtà, tale adeguamento non si è mai verificato e, attualmente, esso
non risulta idoneo a perseguire obbiettivi, quali per esempio, l’incremento della
produttività marginale del lavoro. Ecco perché, oggi, sia le parti sociali che
numerosi economisti ritengono necessario realizzare una riforma della contrattazione
collettiva.
Nel secondo capitolo, si analizza il rapporto banca-impresa secondo quanto
noto nella letteratura economica facendo particolare attenzione sia alle modalità di
concessione dei prestiti alle piccole e medie imprese, sia agli effetti derivanti
dall’integrazione dei sistemi bancari. A questo punto, l’attenzione si sposta sulle
caratteristiche della domanda e dell’offerta di credito in Italia e, quindi, sulle
possibili cause dei divari esistenti in termini di tassi di interesse tra Nord e Sud del
Paese.
In particolare, l’analisi si concentra sul fatto che in un’economia come quella
italiana, in cui le piccole e medie imprese rappresentano la quota prevalente del
tessuto produttivo, il sistema bancario gioca un ruolo fondamentale per lo sviluppo
economico. A tal riguardo, la letteratura ha mostrato come il modello più efficace di
finanziamento delle piccole e medie imprese sia rappresentato da quelle forme di
relationship banking che trovano la loro origine in un patrimonio di rapporti duraturi,
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fiduciari, basati sulla conoscenza reciproca tra l’istituzione bancaria e l’impresa.
L’esistenza di tali rapporti tende, infatti, a ridurre le asimmetrie informative e si può
tradurre in una disponibilità di linee di finanziamento relativamente più vantaggiose
per le imprese. Nel quadro delineato si evidenzia, poi, come l’Italia sia caratterizzata
da significativi differenziali interregionali nei tassi d’interesse. In particolare, tali
differenziali risultano attribuibili a diverse ragioni.
La prima può essere ricercata nella struttura del sistema creditizio
meridionale. Un grado di concentrazione comparativamente più elevato, infatti,
ridurrebbe la concorrenza e, per il “potere di mercato” che attribuisce agli operatori
locali, consentirebbe la fissazione di tassi più elevati. In effetti, il sistema creditizio
meridionale si presenta storicamente più concentrato rispetto a quello del Centro-
Nord: alcuni studi evidenziano, infatti, come già dai primi anni ’40 (e perlomeno fino
ai primi anni ‘90) il sistema bancario meridionale fosse caratterizzato da un grado di
concentrazione relativamente elevato (D’Onofrio e Pepe 1990; Jossa 1996 ). Nel
Mezzogiorno, mentre due grandi banche locali (Banco di Napoli e Banco di Sicilia)
hanno a lungo detenuto una larga quota di mercato, nelle quote residue, un’elevata
frammentazione dell’offerta, costituita da piccole banche locali non in grado di
operare (per la modesta dimensione) in maniera efficiente, non ha favorito la
pressione al ribasso dei tassi. Tale visione, tuttavia, si concilia poco con il problema
della selezione avversa che caratterizza il rapporto banca-imprenditore.
Una seconda ragione può essere rintracciata nel livello medio dei costi
sostenuti dalle aziende di credito: maggiori costi operativi dell’attività bancaria
tendono a determinare tassi (e quindi margini di intermediazione) comparativamente
più elevati. In questo senso, i maggiori costi diretti o, alternativamente, la minore
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produttività delle banche meridionali andrebbero, dunque, a spiegare l’esistenza di
un margine di intermediazione superiore rispetto a quello medio nazionale. In realtà,
tale causa sembrerebbe non essere l’artefice principale dei differenziali esistenti in
merito ai tassi d’interesse. A tal riguardo, basti pensare che i differenziali hanno
continuato a persistere, anche dopo l’acquisizione da parte dei gruppi bancari del
Nord delle principali banche meridionali nei primi anni ’90.
Infine, una terza causa dei differenziali nei tassi d’interesse può essere fatta
risalire alla rischiosità ambientale. A livello territoriale, il diverso configurarsi di una
serie di fattori ambientali tende a modificare, indipendentemente dalla caratteristiche
individuali, la probabilità di default di tutta la clientela, determinando un aumento
del tasso d’interesse. In particolare, il fatto che nel Mezzogiorno una serie di
condizioni di contesto considerate essenziali per conferire credibilità agli impegni tra
le parti e correttezza di comportamento siano molto carenti, che la tutela dei
creditori soffra dei tempi lunghi della giustizia e di una durata dei procedimenti civili
superiore rispetto agli altri paesi europei e, che sulle imprese dell’area gravino
imponenti diseconomie esterne, accrescendo il rischio di insolvenza per gli
intermediari, giustificherebbe l’applicazione da parte delle banche meridionali di
tassi d’interesse più elevati rispetto a quelli praticati nel Nord Italia.
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Lo scopo del terzo capitolo è, perciò, quello di verificare in un unico modello
teorico i due scenari descritti in precedenza. Da un lato, si prende in considerazione
un’ipotetica situazione nella quale la contrattazione salariale che avviene tra impresa
e lavoratore è decentralizzata, mentre, dall’altro si esamina il rapporto banca-impresa
in presenza di eterogeneità nel rischio ambientale che caratterizza aree geografiche
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Tra tali condizioni di contesto rientrano: l’ordinato svolgimento delle attività delle imprese e della
collettività, una rafforzata fiducia reciproca tra cittadini e istituzioni e l’elevata efficienza
dell’Amministrazione Pubblica.
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distinte. L’obiettivo è cercare di capire se, effettivamente, il rapporto banca-impresa
possa incidere sul risultato del decentramento della contrattazione. In particolare, per
rappresentare il rapporto che intercorre tra l’istituto di credito e l’azienda si utilizza il
modello di Stiglitz e Weiss (1981), nel quale si presuppone l’esistenza di un
continuum di imprenditori, ognuno dei quali ha un progetto che può realizzare solo
se ottiene il finanziamento bancario. Tale modello si fonda sull’assunto di
asimmetria informativa ex ante: ogni progetto ha una sua probabilità di successo nota
all’imprenditore ma non all’istituto di credito. In tale contesto, quindi, quello che
conosce la banca è solo la funzione di distribuzione del rischio dei progetti di
investimento. In particolare, essa, non essendo in grado di discriminare perfettamente
i propri potenziali mutuatari rispetto al loro potenziale rischio di insolvenza, si limita
a valutare la rischiosità media di ciascun progetto. Tale situazione, come è noto,
può generare casi di razionamento del credito. Nel terzo capitolo viene, perciò,
presentata un’estensione del modello di Stiglitz e Weiss (1981) con lo scopo di tener
conto della presenza nel Mezzogiorno di una maggior rischiosità ambientale. In
questo contesto, quindi, per valutare come tale rischiosità incide sui rapporti banca-
impresa, si assume che la distribuzione del rischio dei progetti di investimento
dipenda, oltre che dalla probabilità di successo del progetto, dall’entità del rischio
sistemico, approssimata dalla varianza, ossia, da un indice di dispersione ottenuto
come media aritmetica dei quadrati degli scostamenti, per ogni progetto, della
probabilità di successo (nota all’imprenditore) dalla rischiosità media valutata dalla
banca. I risultati raggiunti, consentono di affermare che, quando aumenta il rischio
ambientale, la banca, ceteris paribus, reagisce aumentando il tasso d’interesse che
massimizza i suoi profitti attesi. Tale conclusione risulta rilevante nel momento in
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cui si prende in considerazione la presenza di contrattazione decentrata tra impresa e
lavoratore. In particolare, utilizzando il modello ad offerte alternate di Rubistein
(1982), si mostra come i lavoratori, localizzati nel Mezzogiorno, ossia in aree dove il
rischio ambientale è più elevato, ottengano un salario che è più basso rispetto a
quello pagato ai lavoratori che si trovano nel Nord Italia, dove il rischio sistemico è
minore. Tali differenziali salariali, per effetto della maggior spesa per interessi,
tenderebbero a permanere anche se, al Sud, la produttività marginale del lavoro
fosse uguale a quella del Nord. Ne consegue che, in assenza di una contrattazione
centralizzata, affinché possa esserci una convergenza salariale nel lungo periodo,
dovrebbero verificarsi flussi migratori, verso le aree settentrionali, maggiori rispetto
a quelli che sarebbero necessari se il mercato del credito non fosse influenzato dalla
presenza al Sud di un maggior rischio ambientale.
Nel quarto e ultimo capitolo si valuta, da un punto di vista empirico, se
effettivamente la rischiosità ambientale incida sulla determinazione da parte della
banca dei tassi d’interesse. Viene, quindi, effettuata una treatment analysis
utilizzando come proxy del rischio sistemico la probabilità di fallimento delle
imprese e come anno di riferimento il 2008. I dati utilizzati per l’analisi vengono
estrapolati dalla Banca Dati AIDA, la quale contiene i bilanci di oltre 20.000 aziende
operanti in Italia. In particolare, sono presi in considerazione quattro campioni
relativi al Nord, Centro, Sud ed Italia insulare. Per ognuna di queste aree, si
individuano sia le imprese che, entro la fine del 2008, erano fallite, sia quelle che
erano, ancora, attive. La strategia di valutazione utilizzata per stimare l’impatto del
rischio ambientale sulle decisioni della banca consiste, infatti, nel confrontare il tasso
di interesse che l’impresa paga nell’anno precedente al suo fallimento con quello che,
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nel medesimo anno, pagherebbe se fosse sana. Per effettuare tale confronto è
necessario riuscire ad individuare, all’interno del campione, imprese attive e fallite
che presentino caratteristiche molto simili tra di loro. In genere, numerosi lavori
presenti in letteratura (Caouette e Narayan 1998; Saunders 2002) valutano l’impatto
del fallimento sui tassi d’interesse basandosi sullo Z-Score di Altman (1977).
Quest’ultimo è un approccio multivariato teso a fornire una misura (un punteggio del
rischio di credito) che discrimini nel miglior modo le aziende che falliscono da quelle
che non falliscono. L’idea è che una banca, che utilizzi questo metodo, applichi un
tasso d’interesse più (o meno) alto se il punteggio Z-score dell’azienda in questione
scende al di sotto di una determinata soglia. Tuttavia, lo Z-score presenta un grave
limite: per effettuare l’analisi è necessario disporre di un campione nel quale il
numero delle imprese fallite sia all’incirca uguale al numero delle imprese attive. In
realtà, essendo l’insolvenza un evento raro capita, spesso, che si abbiano a
disposizione campioni sbilanciati che finiscono per alterare i risultati conseguiti.
Viceversa, ciò, quando si usa la tecnica dello statistical matching, non costituisce un
problema nella treatment analysis. In questo caso, infatti, tanto maggiore è la
differenza, all’interno del campione, tra il numero delle imprese fallite e il numero
delle imprese sane, tanto più grandi sono le potenzialità di tale metodo, in quanto,
essendo più vasto il numero delle osservazioni tra cui scegliere le imprese simili,
aumenta la probabilità di ottenere accoppiamenti migliori, ovvero di ottenere risultati
più attendibili. Dall’analisi condotta emerge che, sia al Nord che al Centro che al Sud
Italia, la probabilità di fallimento (ossia il rischio sistemico) sembra avere degli
effetti significativi sulla determinazione dei tassi d’interesse fissati dalla banca. Nello
specifico, tali effetti tendono ad essere maggiori nel Mezzogiorno. La localizzazione
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geografica risulterebbe, quindi, essere, un fattore discriminante per le imprese. Tale
risultato implica, in presenza di contrattazione decentrata, la necessità di introdurre
politiche di sostegno al credito che consentono alle imprese del Sud, a parità di
qualsiasi altra condizione, di conseguire una performance pari a quella delle imprese
del Nord, in quanto, in caso contrario le asimmetrie informative che caratterizzano il
rapporto banca-imprenditore si rifletterebbero sul mercato del lavoro generando, nel
Mezzogiorno, una perdita di capitale umano maggiore rispetto a quella che si
verificherebbe se, su tale area, non fosse presente un elevato rischio sistemico.