economia. Il commercio mondiale è aumentato a causa di molteplici fattori,
riguardanti non soltanto l’innovazione tecnologica, ma anche –e soprattutto-
l’abbattimento delle misure protezionistiche e la creazione di numerosi accordi
economici sulle tariffe e gli scambi commerciali.
Va detto subito che, in realtà, la crescita dei flussi di scambio non è un
fenomeno così recente come la maggioranza delle persone ritiene, ma ha avuto
origine sin dalla metà del secolo scorso, con la creazione delle prime
fondamentali strutture di collegamento (si pensi al Canale di Suez), per
registrare una pesante recessione nel periodo successivo le due grandi guerre
e, quindi, raggiungere –e superare- nuovamente i livelli precedenti solamente
negli ultimi anni.
Nonostante ciò, possiamo dire che gli odierni traffici commerciali sono
caratterizzati da alcuni elementi di novità: l’aumento del commercio
intraindustriale, l’outsourcing e la conseguente nascita delle super potenze
commerciali asiatiche, ma soprattutto l’aumento delle esportazioni provenienti
dai paesi caratterizzati da un sistema di produzione a bassi salari.
E’ opinione alquanto diffusa che, a fronte di questi processi, i paesi
industrializzati starebbero dimostrando pericolosi fenomeni di sclerosi, con
incapacità di riformare il proprio sistema di welfare. In particolare, gli ultimi
dieci anni hanno registrato un ritorno d’attenzione alla questione dei nessi tra
commercio internazionale ed equilibri del mercato del lavoro proposti
originariamente da Samuelson. L’ampliamento dei differenziali salariali negli
Stati Uniti, caratterizzati da un mercato del lavoro a salari flessibili, e la
crescita della disoccupazione nell’Europa continentale, a maggiore rigidità
salariale, sono stati ricollegati all’inasprirsi della concorrenza tra i lavoratori
meno qualificati dei paesi sviluppati e quelli dei paesi in via di sviluppo (le
New Industrializing Economies, NIEs).
Il meccanismo empirico considerato è il seguente: il ridursi delle
barriere commerciali e dei costi di trasporto avrebbe portato ad un accresciuto
flusso di importazioni dei beni low-skill, provenienti dalle NIEs, specializzate
in queste produzioni per via della composizione della loro forza lavoro. La
ridotta competitività delle produzioni low-skill localizzate nei paesi avanzati
avrebbe ivi ridotto la domanda di lavoro meno qualificato, riducendo, di
conseguenza, il salario relativo dei lavoratori meno qualificati (unskilled
workers) dei paesi industrializzati. E’ evidente come la globalizzazione, vista
in questi termini, costituisca soprattutto una minaccia ed un pericolo dovuti al
possibile impoverimento che deriverebbe agli Stati Uniti e all’Unione Europea
dagli scambi commerciali con le nazioni a bassi salari, ai crescenti rischi
politici e ai pesanti danni sociali conseguenza di una liberalizzazione
economica che sfugge a leggi e controlli.
Nel secondo capitolo presenteremo la teoria principale che sta al centro
del dibattito internazionale sull’argomento e che riguarda il pareggiamento dei
prezzi dei fattori. Secondo questa teoria, risalente a Samuelson (1949), in
determinate condizioni ed in una situazione di equilibrio l’interscambio dei
beni tra i diversi paesi riduce ed eguaglia tra loro i prezzi dei fattori di
produzione; i lavoratori low-skilled dei paesi ricchi vengono così pagati alla
stregua della manodopera less-skilled dei paesi poveri. La stessa cosa accade
per la manodopera high-skilled. Valuteremo l’efficacia di questa teoria e le
critiche, legate in particolar modo alla ristrettezza delle condizioni che ne
consentono la validità. Successivamente, presenteremo i due principali filoni
interpretativi della verifica empirica. Il primo utilizza le stime sul “contenuto
fattoriale” delle importazioni e delle esportazioni dei paesi avanzati per
analizzare l’implicita variazione nelle diverse dotazioni dei fattori dovuta agli
scambi commerciali. Il secondo utilizza le stime relative ai prezzi per capire se
l’aumento delle esportazioni provenienti dai paesi in via di sviluppo abbia
causato o meno notevoli riduzioni nei prezzi dei beni prodotti dalla
manodopera less-skilled dei paesi più sviluppati.
Nonostante i naturali contrasti tra gli autori (trade e labor economists)
intervenuti nel dibattito internazionale, le conclusioni raggiunte nella
letteratura economica (se si esclude l’apporto di Wood) smentiscono i timori
suscitati nell’opinione pubblica dei paesi ricchi dalla concorrenza con le NIEs
e ribadiscono il prevalere dei vantaggi derivanti dall’accrescimento
dell’integrazione commerciale. La maggior parte degli studi e dei lavori sul
tema si è però concentrata quasi esclusivamente sui paesi più sviluppati, sui
loro salari e sul loro livello di occupazione, tralasciando la verifica di ciò che
contemporaneamente accade nelle economie dei paesi in via di sviluppo. Per
questo motivo, nel terzo capitolo presenteremo l’approccio di Krugman e il
suo modello interpretativo; l’economista americano considera l’economia
mondiale come un sistema, una rete complessa di interdipendenze e non una
semplice concatenazione di cause ed effetti. In questo contesto, i salari, i
prezzi, i flussi commerciali e finanziari non sono variabili esogene, bensì
dipendono in larga misura dall'equilibrio generale del sistema.
Per essere comprensibile ed accessibile, il modello presentato nel terzo
capitolo focalizzerà solamente pochi ma fondamentali elementi, non essendo
possibile cercare di capire tutto quello che può accadere a causa della
crescente integrazione mondiale. Ulteriore caratteristica del modello sarà
quella di rappresentare le due alternative ipotesi strutturali dei mercati di
lavoro statunitense ed europeo: salari fissi per l’UE e salari flessibili per gli
USA.
Concluderemo il lavoro, come accennato, analizzando le critiche mosse
da Krugman alle teorie che hanno trovato maggiore seguito nell’odierna
economia internazionale: la teoria della competitività proposta da Thurow, che
interpreta gli scambi commerciali internazionali in termini di competizione
“testa a testa” tra paesi ed aree mondiali e la (conseguente) teoria che addebita
alla concorrenza dei paesi del Terzo mondo gli alti tassi di disoccupazione in
Europa e l’elevata sperequazione salariale negli Stati Uniti.
CAPITOLO I
Globalizzazione e crescita del commercio mondiale: visione
d’insieme
1.1 - La Globalizzazione
La riduzione delle barriere doganali, la maggiore liberalizzazione dei
mercati finanziari rispetto al passato, la libera circolazione dei capitali e le
delocalizzazioni industriali stanno imprimendo una spinta sempre maggiore
alla globalizzazione dell’economia.
In termini generali la globalizzazione può essere definita come un
fenomeno per cui l’orizzonte dell’attività economica tende a farsi sempre più
vasto ed integrato a livello planetario
1
.
I processi di trasformazione dei meccanismi della comunicazione
sociale, con il passaggio dalle ferrovie alla telematica, dall’infrastrutturazione
del territorio alla deterritorializzazione, hanno determinato la tendenziale
estensione planetaria dei processi economici e sociali che fanno del mondo un
sistema unitario.
Oggi l’impresa considera il mondo come un unico mercato, in cui porre
in atto sia nuove forme di competizione, sia rapporti di cooperazione ed il suo
punto di forza è proprio quello di essere in grado di capire le esigenze dei
consumatori, mettendo in campo risorse umane, finanziarie e tecnologiche su
scala mondiale, perseguendo così una logica di localizzazione globale.
1
cfr. C. Caselli, “Globalizzazione” in “Le parole dell’impresa: guida al cambiamento”, a cura di L. Caselli,
F. Angeli Ed., 1995, pag.124
Occorre tuttavia ridimensionare la portata del fenomeno in questione e
l’opinione diffusa che questo rappresenti il principale -se non unico- aspetto
che ha cambiato in modo così radicale l’economia mondiale negli ultimi
venticinque anni. Se infatti osserviamo i dati forniti da Krugman
2
possiamo
riscontrare come l’incidenza dell’import/export statunitense sul relativo PIL
USA sia, nel 1994, ancora inferiore a quella corrispondente, relativa
all’OCSE, nel 1960 (cfr. tav.1).
D’altro canto non è certamente possibile negare che il commercio
internazionale abbia subito un considerevole aumento rispetto a quegli anni.
Sempre nella tav.1 possiamo rilevare infatti come gli incrementi
dell’incidenza import/export tra il 1960 e il 1994 sono di oltre il 6% in
entrambi i casi e quindi di assoluto rilievo; tuttavia, occorre analizzarne le
cause in modo più approfondito, senza puntare la nostra attenzione
esclusivamente al fenomeno della globalizzazione.
Tav. 1 - Incidenza dell’import/export Usa e dei Paesi OCSE sui
rispettivi PIL:
Import/export USA 1960 4,7%
Import/export USA 1994 11,4%
Import/export OCSE 1960 12,5%
Import/export OCSE 1994 18,6%
Fonte: Krugman, 1995
2
cfr. Krugman P., “Growing World Trade: Causes and Consequences”, in Brookings Papers on Economic
Activity, Washington D.C., 1:1995, pp.327-377
Alcuni economisti e, soprattutto, la maggior parte dei giornalisti
economici sostengono che questa massiccia espansione del commercio
internazionale sarebbe causata soprattutto dall’evoluzione scientifica e
tecnologica avvenuta negli ultimi anni
3
.
Gli studiosi di economia internazionale, al contrario, ritengono che ciò
sia dovuto a cause essenzialmente politiche, osservando come gran parte della
crescita degli scambi commerciali successiva alla Seconda Guerra Mondiale si
sia realizzata principalmente in seguito all’abbattimento e alla rimozione di
quelle misure protezionistiche che “imprigionavano” i mercati sin dal lontano
1913.
Almeno implicitamente essi sono portati quindi a considerare questa
tendenza verso una crescente integrazione come potenzialmente invertibile.
3
cfr. Blanchard O., “Macroeconomics”, Prentice Hall Int., New Jersey, 1997, pp. 679-681
1.2 - Crescita del commercio mondiale
Il fatto che l’economia globale si sia realizzata solo recentemente è una
presunzione di fine secolo. In realtà, questo fenomeno ha avuto origine sin
dalla metà del secolo scorso, con la creazione di infrastrutture fondamentali di
collegamento quali il canale di Suez e la linea ferroviaria Union Pacific negli
Stati Uniti; è proseguito alla vigilia della Prima Guerra Mondiale con la
costruzione dei mercati di prodotti già “globali” come grano e lana e, agli inizi
di questo secolo, con la creazione dei mezzi di comunicazione simultanea tra
le principali potenze economiche.
Inoltre, l’integrazione tra i mercati non ha registrato una espansione
continua e costante nel tempo; è cresciuta dalla metà del diciannovesimo
secolo sino al 1913 ed ha subito una forte recessione, dal 1913 al 1950, dovuta
ai pesantissimi effetti delle due guerre mondiali e alle misure protezionistiche
attuate per arginare la “Grande depressione” del 1929 (cfr. tav.2).
Tav. 2 - Esportazioni espresse in percentuale del PIL mondiale:
1850 1880 1913 1950 1973 1985 1993
5,1% 9,8% 11,9% 7,1% 11,7% 14,5% 17,1%
Fonte: World Bank, “Global Economic Prospects and the Developing Economies”, Washington
D.C., 1995
Dalla tavola 2 si può notare come, di fatto, la maggior parte della
crescita commerciale dagli anni ’50 in poi, rappresenti un recupero di quei
livelli precedenti ai quali si era giunti agli inizi del secolo, prima delle grandi
guerre.
E’ solamente dalla metà degli anni ’70 che si verifica l’espansione vera
e propria, con l’aumento degli scambi stimolato sia dalla diminuzione delle
barriere artificiali al commercio (quali tariffe doganali e contingenti), sia dai
progressi tecnologici, quali la migliore efficienza delle comunicazioni e
l’abbattimento dei costi di trasporto che hanno reso possibile anche il
superamento delle barriere naturali.
Nel 1995 gli scambi di merci e servizi fra le diverse nazioni non sono
aumentati di quanto si sarebbe potuto ritenere, raggiungendo un valore
complessivo dell’ordine di 7.500 miliardi di dollari
4
, pari a quasi sette volte
l’intero PIL dell’Italia. Per i 2/3 si è trattato di scambi di merci, per 1/6 di
servizi prodotti da imprese e per 1/6 di scambi diretti di servizi dei fattori
produttivi (in particolare di capitale).
Il lavoro e, ancora di più, il capitale sono caratterizzati da un rilevante
grado di mobilità fra le diverse nazioni; quest’ultimo fattore raggiunge
l’ordine di 1.200 miliardi di dollari. Aspetto caratteristico degli scambi
internazionali diretti dei servizi di capitale è che, in genere, ciascun paese è
simultaneamente esportatore ed importatore di questi servizi e la funzione
principale di questi flussi non è tanto quella di trasferire capitale dai paesi in
cui esso è relativamente più abbondante verso quelli in cui è relativamente più
scarso, quanto di consentire una diversificazione geopolitica degli investimenti
al fine di ridurre il rischio per ciascun investitore.
Il valore degli scambi internazionali di servizi (compresi quelli prodotti
dalle imprese, quali trasporto, comunicazione, assicurazione) nel 1995 è stato
pari a circa ¼ di quello degli scambi internazionali di merci, che rimane la
voce principale dei flussi commerciali.
4
fonte: IMF, “Balance of Payments Statistics Yearbook”, New York, 1995
1.3 - Perché è aumentato il commercio mondiale ?
La tecnologia ha certamente portato ad una riduzione dei costi di
trasporto e ad una maggiore velocità di comunicazione con la riduzione delle
distanze mondiali.
Tuttavia non basta il solo apporto della tecnologia a spiegare questo
fenomeno di natura espansiva; occorre anche tenere conto di altre cause come,
ad esempio, fattori di natura politica, quali gli abbattimenti delle misure
protezionistiche e la creazione di numerosi accordi economici, puntando
l’attenzione sul ruolo del GATT
5
, il più recente accordo generale sulle tariffe
doganali e sugli scambi commerciali.
E’ comunque difficile, oggi, identificare compiutamente il fenomeno
del protezionismo; lo stretto legame che questo ha con i mercati mondiali
rende evidente come proprio elementi di natura politica abbiano giocato un
ruolo decisivo sin dagli anni precedenti i grandi conflitti, nei quali il
commercio non era libero.
Negli anni recenti i passi più importanti verso la liberalizzazione del
commercio sono state le azioni unilaterali compiute dai paesi in via di
sviluppo, che hanno contribuito alla crescita delle esportazioni di questi paesi
verso le nazioni a più alti salari.
C’è comunque da sottolineare come non basti abbattere tutte le barriere
per ottenere una piena integrazione economica; i confini stessi, infatti,
5
GATT: General Agreement on Tariffs and Trade
rappresentano già di per sé una sorta di ostacolo persino tra paesi “amici”
come Canada e Stati Uniti
6
.
Tuttavia c’è ancora spazio per manovre politiche atte ad una ulteriore
espansione del commercio internazionale attraverso una progressiva
armonizzazione di leggi ed istituzioni.
6
cfr. McCallum G., “National Borders Matter: Canada-U.S. Regional Trade Patterns”, American Economic
Review, 85(3), 1995, pp. 615-623
1.4 – Nuove caratteristiche degli scambi internazionali
Rispetto alla natura degli scambi del passato, l’economia internazionale
7
è caratterizzata da elementi di novità, che considereremo singolarmente qui di
seguito.
1.4.1 - L’aumento del commercio “intraindustriale”
Se esaminiamo la Gran Bretagna, essa sin dai tempi della Regina
Vittoria, ha registrato una quota elevata di scambi commerciali, dovuta
soprattutto alle relazioni con le colonie britanniche.
Oggi, tuttavia, i suoi prodotti sono rivolti principalmente ai paesi
europei, dotati di risorse simili; inoltre, l’oggetto di questi scambi è costituito
da prodotti intermedi provenienti dall’industria di trasformazione
8
.
Il caso inglese non è un caso isolato tra i paesi industriali, infatti la
maggior parte del commercio di manufatti tra questi paesi consiste di
commercio “intraindustriale”, ossia di scambio di beni che vengono prodotti
con l’utilizzo di simili rapporti di capitale rispetto al lavoro e di lavoratori
specializzati rispetto ai lavoratori non specializzati.
E’, dunque, difficile spiegare il modello del vantaggio comparato tra
paesi industriali mediante differenze nella composizione delle loro risorse ,
che sono in ogni caso molto simili
9
.
7
cfr. Krugman P., “Rethinking International Trade”, MIT Press, Cambridge, Massachussets, 1994
8
cfr. Great Britain, Central Statistical Office, “Annual Abstract of Statistics”, 1994
9
cfr. Grubel H., Lloyd P., “Intra-Industry Trade”, Wiley, New York, 1975
Un iniziale tentativo di comprensione di questo fenomeno potrebbe
inquadrarsi nella ricerca di maggiori economie di scala per la produzione di
beni differenziati, ma il reale motivo del verificarsi di questa situazione risiede
probabilmente nella natura di questi particolari prodotti, più complessi e
qualitativamente superiori rispetto ai precedenti, per i quali un fattore
importantissimo di specializzazione è costituito dalle abilità e dalle
conoscenze tecnologiche, che vengono acquisite e perfezionate soprattutto
attraverso le esperienze produttive.
Sembra inoltre che ci sia un processo cumulativo per cui chi
inizialmente riesce ad acquisire un vantaggio comparato in produzioni
technology intensive vedrebbe sempre più rafforzarsi la propria posizione
competitiva, mentre gli altri paesi vedrebbero aumentare sempre di più il loro
distacco in termini di conoscenze e abilità tecnologiche.
Per di più, la produzione odierna si sviluppa solamente attraverso
alcune delle sue fasi di lavorazione, dando così luogo ad una vera e propria
disintegrazione verticale dell’industria (diversi stadi di produzione in diversi
paesi), generando un considerevole aumento nei volumi di scambio.
1.4.2 – L’outsourcing.
Negli ultimi anni il modello produttivo si è basato sulla suddivisione
della produzione in diversi stadi (e in diversi luoghi), incrementando, ad ogni
fase, il valore del prodotto.
Questa frammentazione produttiva cambia totalmente l’ottica
dell’impresa, che, vista l’inadeguatezza delle tradizionali strutture
organizzative, si volge ad un nuovo sistema aperto con conseguente aumento
del volume potenziale degli scambi internazionali
10
. Se nel 1913 un
determinato bene di consumo poteva infatti essere esportato una volta sola,
oggi può invece subire un maggior numero di viaggi (per non parlare poi dei
suoi singoli componenti, prodotti in paesi diversi).
Questo secondo aspetto ci introduce direttamente al prossimo elemento
di novità.
1.4.3 - La nascita delle super potenze commerciali
Nel 1913 non c’era alcun paese le cui esportazioni eccedessero il 50%
del proprio PIL, oggi ve ne sono almeno sei:
Tav. 3 - Le “Supertrading” economies
Esportazioni espresse in
percentuale del PIL
Singapore 174%
Hong Kong 144%
Malaysia 78%
Belgio 70%
Irlanda 64%
Olanda 52%
Fonte: World Bank,”The East Asian Miracle: Economic Growth and Public Policy”, Oxford
University Press,1993
10
cfr. Feenstra R., Hanson G., “Globalization, Outsourcing and Wage Inequality”, American Economic
Review, Maggio 1996, vol.86, n.2