ampio spazio al mutamento della politica penale statunitense a partire dagli anni
Settanta. Esso ruota attorno a tre concetti molto significativi: il declino dell’ideale
riabilitativo come obiettivo perseguito dalle istituzioni penali, il riemergere di
sanzioni punitive ed il cambiamento del tono emotivo della politica criminale.
L’ultimo trentennio del XX secolo si caratterizza come epoca nella quale la cultura
e la politica assumono una tendenza reazionaria, e si impongono politiche
neoconservatrici e neoliberiste che culminano nell’elezione di Reagan. La sua
vittoria dipese soprattutto dalla capacità di fare appello al conservatorismo sociale
di cittadini rispettabili, appartenenti alle classi medie, convinti sostenitori dei valori
della famiglia e del lavoro, in larga parte bianchi: la “nuova destra” si accaniva
contro gli strati della popolazione endemicamente poveri, colpevoli di danneggiare
la società con la criminalità, la spesa per l’assistenza e l’elevato prelievo fiscale, e
accusando le élite liberali di aver favorito una cultura permissiva ed incoraggiato
comportamenti antisociali. Se le parole d’ordine della democrazia sociale del
dopoguerra erano state controllo economico e liberazione sociale, la politica degli
anni Ottanta ha instaurato la libertà economica ed il controllo sociale.
L’affermazione di nuove scuole di pensiero criminologico – le “teorie del
controllo” e quelle “dell’altro” - contribuì ad influenzare le politiche governative.
Le prime concepivano il crimine e la delinquenza non come problemi dovuti alla
deprivazione, ma all’assenza di controlli adeguati, ed il loro presupposto era che gli
individui fossero fortemente attratti dal perseguire il proprio vantaggio anche a
costo di intraprendere condotte criminali, a meno che non venissero inibiti da
controlli efficaci. Esse conferivano all’autorità della famiglia, della comunità e
dello Stato la funzione di stabilire ed imporre divieti e restrizioni. L’uso di
spiegazioni sociali al problema della criminalità era totalmente bandito, poiché in
questo modo – secondo le argomentazioni dell’epoca – si riproducevano gli errori
della pratica correzionalista, la quale causava effetti perversi, inducendo ad un
aumento dei tassi di criminalità e finendo con il minare valori fondamentali come
l’autonomia morale, i diritti dell’individuo ed il principio di legalità.
Le cosiddette “criminologie dell’altro” rispecchiavano lo svilimento della sfera
culturale indotto dalle politiche neoconservatrici, in quanto tendevano a
drammatizzare la criminalità, descrivendola in termini enfatici, e a giudicare il
deviante come un diverso e un pericoloso. Dunque esse avevano il potere di
suscitare sentimenti di angoscia generalizzata, e la conseguente richiesta di
5
controlli più rigidi, e di mobilitare l’emotività della popolazione. Infatti, la retorica
associata a queste immagini evocava un’opinione pubblica piena di rabbia e stanca
di vivere in un clima di paura, che domandava a gran voce misure energiche di
sicurezza e di pena (e non un impegno a favore di soluzioni rieducative ed
assistenziali).
Proteggere i cittadini è ormai il tema dominante delle politiche penali, intorno al
quale si gioca la competizione elettorale, ed i processi decisionali risultano
profondamente intrisi di populismo, e tendono a screditare le élite professionali, gli
esperti ed i ricercatori sociali, per invocare invece l’autorità “della gente”. Sono
andati così diffondendosi un gran numero di slogan, fra cui i più celebri sono
Prison works (il carcere funziona), No frill prison (no al carcere “morbido”),
Tolerance Zero (tolleranza zero), Though on crime (duri con il crimine); ad essi si
sono accompagnati provvedimenti legislativi tanto rigidi dal punto di vista della
sanzione penale, quanto suggestivi nell’ottica dell’impatto emotivo sulle masse.
Uno dei più severi è il “three strikes and you’re out” (“al terzo errore sei fuori”), in
virtù del quale un individuo – dopo la terza condanna per lo stesso crimine, di
qualunque entità purché punibile con il carcere – debba scontare automaticamente
una pena che va, a seconda degli stati (è stato adottato da 36 di essi), da 25 anni
all’ergastolo. Ciò significa, concretamente, che un individuo arrestato per la terza
volta per un furto di pochi dollari o per spaccio di droghe leggere, in California può
essere condannato dal giudice a trascorrere il resto della propria vita in carcere.
Nel precedente elaborato affermavo in conclusione che “oggi il carcere funziona
in quanto mezzo di neutralizzazione e punizione che soddisfa le istanze politiche
popolari di sicurezza pubblica e di severità della condanna”; alla luce dei miei
attuali studi posso aggiungere che esso funziona anche in quanto business di
enorme portata, come avrò modo di illustrare ampiamente in seguito.
Richiamando ora l’attenzione sulla materia di tesi, ossia Sociologia urbana e
rurale, il nucleo e scopo centrale dell’elaborato è costituito dall’indagine di alcune
interessanti ripercussioni del “grande internamento”, per dirla con Foucalt, sul
progressivo processo di trasformazione delle strutture abitative e delle modalità di
insediamento della popolazione americana, un tema molto sentito in tempi recenti
dalla sociologia del territorio.
Gated communities e prison towns sono due forme assai diverse (quanto a
premesse e scopi della costruzione, collocazione spaziale, caratteristiche
6
architettoniche, ecc.) di insediamento, che a partire dagli anni ’80 sono andate
moltiplicandosi sul tessuto spaziale americano; entrambe però sono legate, più o
meno direttamente, al fenomeno del “boom penitenziario”. Mentre le prime sono
oggetto di studio e ricerca anche nel nostro Paese (tra gli altri, G. Martinotti, A.
Detragiache, A. Petrillo, G. Amendola, F. Mantovani, ecc.), le seconde sono state
descritte ed indagate da un punto di vista sociologico esclusivamente da autori
statunitensi, ed in un numero piuttosto ristretto di ricerche empiriche, tuttavia
autorevoli e i cui risultati sono assai pregnanti. Trattandosi dunque di un tema
pressoché intoccato dalla letteratura italiana, ma meritevole d’attenzione in quanto
si riallaccia ai più ampi dibattiti sul clamoroso boom penitenziario statunitense e
in ultimo sull’evoluzione delle forme di sviluppo dello spazio urbano e rurale, ne
ho fatto argomento del mio elaborato, benché a livello di suggestione e
“suggerimento empirico” piuttosto che di rigorosa trattazione teorica.
Il termine “paradosso”, che ho utilizzato nel titolo del mio lavoro, è spiegato dallo
spiccato interesse rivolto all’aspetto di contraddizione insito nelle forme delle
sempre più numerose gated communities e prison towns in relazione alle ragioni
che le hanno generate e agli scopi che devono perseguire attraverso la loro
organizzazione interna. Infatti, pare assodato che esse rivelino un inquietante
aspetto politico, il ritrarsi della sfera d’influenza delle tradizionali giurisdizioni
politiche a fronte dell’ipertrofia dello stato penale, trasformatosi in vero e proprio
“ Prison-Industrial Complex” (complesso penitenziario-industriale).
Di fatto la corsa all’isolamento, suggerita dagli stessi termini di gated
communities (“comunità sbarrate”) e walled cities (“città fortificate”), va letta
come “un sintomo della volontà di tagliare corto in modo brutale con una serie di
problemi considerati ormai come insolubili. La privatizzazione dello spazio è un
aspetto della più generale rimessa in discussione del ruolo dei pubblici poteri nel
soddisfare le aspettative dei cittadini, sulle nuove forme di controllo sociale. È una
risposta estrema alle tensioni sociali, etniche, di classe che attraversano
storicamente le città americane”3. Tale frattura si esprime nel modo più profondo
nelle Privatopias, caratterizzate da forme di governo privatizzato quasi autonomo
da quello centrale, che esprimono interessi di tipo esclusivamente localistico e
privatistico.
3
Petrillo A., La città perduta, Dedalo, Bari 2005, cit., p. 210.
7
Inoltre, se è ben documentato che le gated communities possono essere viste
anche come risposta alla paura del crimine (specificamente, quelle che Blakely e
Snider, nella loro classificazione, definiscono security zones), è però altrettanto
documentato che esse non sono necessariamente più sicure di comunità suburbane
ungated, ma in compenso arricchiscono considerevolmente l’industria della
sicurezza.
Il clamoroso inasprimento delle politiche penali si inserisce quindi in una più
generale trasformazione del rapporto tra cittadini e istituzioni rappresentative, dal
momento che nelle democrazie contemporanee il carattere tecnico e la
complessificazione del diritto contribuiscono ad una disaffezione degli individui
nei confronti delle norme e ad un loro allontanamento dai luoghi della
partecipazione democratica. Tuttavia l’avvento del big government carcerario non
pare aver mitigato, bensì alimentato, quel “senso di vulnerabilità e impossibilità di
prevenire e contenere il male, che alimenta ansie e paure diffuse”4, come dimostra
l’espansione di un’urbanistica “della separatezza” e “della paura”. E d’altronde
questa “paranoia securitaria”, per usare un’ efficace espressione di L.Wacquant, è
al contempo causa ed effetto dei fenomeni dell’ipertrofia dello stato penale e della
bulimia carceraria, a loro volta connessi indissolubilmente allo sviluppo di un
insieme di interessi burocratici, politici ed economici che incoraggiano l'aumento
delle spese per gli istituti di pena a prescindere dalla loro effettiva necessità.
È in questo snodo cruciale che si colloca il caso delle prison towns, “le cittadine-
carcere” che vanno moltiplicandosi nelle aree rurali statunitensi (anche dette
nonmetro areas) in virtù della loro (presunta) capacità di risollevare l’economia
locale, rilanciando lo sviluppo di regioni rurali, specie meridionali, impoverite
dall’abbandono di economie fondate sull’agricoltura e sul settore manifatturiero.
Tra il 1990 e il 1999, sono stati inaugurati 245 istituti di pena (tra jails e prisons)
in altrettante cittadine “di campagna”, alla media di una nuova apertura ogni
quindici giorni. Eppure, alla luce degli studi e delle ricerche che presento, le
prigioni non sembrano affatto una valida strategia di sviluppo economico, in
quanto creano scarsi links con l’economia locale. Se è indubbio che “il richiamo
di grandi guadagni stia corrompendo il sistema nazionale di giustizia,
rimpiazzando le nozioni di sicurezza sociale e servizio pubblico con una corsa ai
profitti più alti” e che “la brama dei governatori di attuare politiche though on
4
Baggiani R., Huntsville Blues, Aliberti, Reggio Emilia 2005, cit., p. 35.
8
crime unitamente alla loro riluttanza nel divulgare i costi economici e sociali di
tali leggi, abbia incoraggiato ogni sorta di scorrettezza finanziaria”5, è anche vero
che tali vantaggi sono appannaggio pressoché esclusivo di potenti gruppi di
interesse, grandi aziende pubbliche e private impegnate nella costruzione di
prigioni o nella gestione di servizi ad esse forniti (custodia, sanità, tecnologia,
approvvigionamenti, ecc.), celeberrime multinazionali che sfruttano il lavoro non
pagato dei detenuti, governi e camere di commercio locali. I vantaggi sulle
smalltowns e sui loro abitanti dal punto di vista economico, demografico e in
termini di benessere sociale, sono invece piuttosto vaghi, se non assenti, benché
esse presentino una facciata da apple pie: lo sviluppo carcerario non fa che
alimentare incessantemente un sistema consolidato di interessi politici ed
economici, tra cui spiccano quelli dell’impresa privata della detenzione.
Gated communities e prison towns rappresentano così due differenti
configurazioni profondamente connesse con l’iperinflazione carceraria: se gli alti
livelli di angoscia prodotti dalla consapevolezza della crisi della sovranità statuale
portano la popolazione a “fortificarsi”, il potere sovrano viene drasticamente
riaffermato attraverso misure “populiste” assai rigorose contro il crimine, ma
altrettanto redditizie per alcuni, i pochi, in verità, “soliti noti”. Insomma: più stato
(forte politicizzazione delle questioni inerenti la criminalità, bulimia carceraria,
prolificazione di prison towns nelle aree rurali) uguale meno stato (investimento
emotivo intenso e generalizzato rispetto al tema della criminalità, tendenza alla
difesa privata, gated communities e forme di insediamento “cintate”) e più
business carcerario (mantenimento e soddisfazione di interessi politici, finanziari
e burocratici), in un processo circolare che si autoalimenta di continuo, ed è il
fulcro del mio lavoro.
5
Schlosser E., The Prison-Industrial Complex, The Atlantic Monthly, n. 12, 1998 (articolo
disponibile sul sito www.theathlantic.com)
9
Struttura della tesi
La mia ricerca ha come oggetto di studio “empirico” la cittadina di Huntsville
(cap.5), una piccola prison town texana che vanta l’infelice primato di “capitale
occidentale delle esecuzioni”, in quanto vi si portano a termine annualmente il
maggior numero di condanne a morte (nell’ultimo decennio sono state in media
24 ogni anno). Nell’introduzione al suo testo Huntsville Blues, R. Baggiani si
domanda “come fanno gli abitanti a convivere con una camera della morte a
pieno regime proprio nel centro storico?” : in una certa misura questa è la mia
stessa domanda, per rispondere alla quale mi sono avvalsa essenzialmente del
succitato volume e di uno in lingua inglese scritto da una coppia di coniugi
residenti ad Huntsville e facenti parte di una congregazione di religione cristiana
contraria alla pena di morte (Living next door to the Death Chamber). Con ciò
intendo sottolineare l’importanza di restituire, per quanto possibile, un’immagine
attendibile del “fenomeno vivo”, delle abitudini e della mentalità di una comunità
così distante da quella di una generica smalltown europea, ma senza trascurare
l’aspetto più “tecnico” della questione. Infatti la digressione sulla cittadina di
Huntsville è preceduta da un dettagliato capitolo riguardante l’impatto della
costruzione di nuove carceri sulla crescita economica delle cittadine rurali,
tracciato essenzialmente attraverso le statistiche di uno studio nazionale del 2003
(Besser e Hanson): esso rivela che le prison towns divengono sostanzialmente
meno popolose, più povere e con un maggior tasso di disoccupazione delle non
prison towns, benché le carceri siano ormai sponsorizzate come strumento
taumaturgico di ripresa delle economie locali.
Come dicevo, questo argomento si colloca ad un livello di proposta ed esortazione
piuttosto che di trattazione organica, in quanto le stesse fonti da cui attingere
informazioni e dati sono recenti e frammentarie: la situazione che sembrano
inquadrare, infatti, è nuova e meritevole di essere approfondita, ma l’affresco
finora tracciato è indubbiamente curioso e suggestivo e rappresenta una direttrice
di ricerca che non deve essere trascurata.
Per tornare all’impianto complessivo della tesi, essa tesi prende avvio (cap. 1) da
una descrizione dell’evolversi della politica penale statunitense a partire dalla
10
metà degli anni Settanta, così da suggerire l’espansione verticale del sistema e
fornirne un quadro aggiornato, con particolare riferimento ad alcuni stati “leader”
della carcerazione (California, Texas, Florida). Nel fare ciò viene necessariamente
introdotta anche una sintetica descrizione della struttura e del funzionamento
dell’apparato penitenziario e penale degli Usa.
Segue un capitolo (cap. 2) sul tema del “controllo del crimine come prodotto”, in
cui, all’esposizione di dati e rilievi statistici ho cercato di affiancare una serie di
curiosità e di vividi esempi al fine di arricchire il quadro e restituire in modo più
efficace quanto siano incredibili – per una mentalità “europea” di fatto non saprei
come altro definirle – e scopertamente esposte le relazioni fra il sistema
penitenziario e gli interessi industriali. Il paragrafo 2.3. tratta specificamente il
tema della flessione nel numero dei reati e dei crimini che si è verificato negli Usa
a partire dagli anni ’80, a cui Maurizio Barbagli ha dedicato un intero volume
(Perché è diminuita la criminalità negli Stati Uniti?). Esso non ha solo lo scopo di
sottolineare la consistenza di questo calo, ma anche la natura delle sue cause: non
è infatti riconducibile unicamente alla “linea dura” incentrata sulla carcerizzazione
di massa, sulla criminalizzazione della miseria e sull’azione indiscriminata della
polizia, ma in gran parte anche alle spontanee dinamiche demografiche e sociali,
nonché alle politiche restrittive sul fronte del consumo di alcool o di politiche di
sostegno alle famiglie e alle istituzioni scolastiche.
Il problema della generale trasformazione dei setting abitativi contemporanei e
della crisi della città materiale viene preceduto da una lunga dissertazione sul
tema della paura e dell’angoscia quali principi organizzatori della grande città
contemporanea (cap. 3). È questa paura diffusa, straordinaria per intensità e
radicamento, che consente di spiegare sia forme urbane e architettoniche, sia
comportamenti ed atteggiamenti adattivi messi in atto dal cittadino metropolitano,
sempre più distante dal flâneur di Charles Baudelaire, che lo definiva come “un
gentiluomo, botanico del marciapiede”, privo di urgenza “come uno che porti –
nelle parole dello studioso di letteratura J.W. Verner – delle tartarughe al
guinzaglio per le vie della città”. L’uomo metropolitano ha invece sviluppato,
indipendentemente dalle informazioni preventive, una nuova capacità di
riconoscere i segnali di pericolo: egli dispone di un early warning system che,
reagendo tempestivamente a segnali ottici e sonori, anche lievi, è in grado di
attivare le difese. L’abitante di New York o di Londra sa captare immediatamente
11
dallo stato dei portoni o dei lampioni, dalla velocità dei taxi o dall’espressione dei
passanti, se ha oltrepassato uno dei tanti confini invisibili presenti nella città.
Particolare attenzione è posta agli insediamenti noti come gated communities (cap.
4), insediamenti i cui residenti “are transforming the American dream of owning a
suburban home in a close-knit community with easy access to nature into a vision
that includes gates, walls and guards”6. Questo punto viene affrontato in relazione
a quello che D. Garland definisce “complesso del crimine”, come formazione
culturale che conferisce all’esperienza della criminalità una forma istituzionale
consolidata e ha la tendenza a ritenere la giustizia penale statuale inadeguata e
inefficace (in psicologia, infatti, il complesso è una reazione spropositata ad uno
stimolo). Il tema è particolarmente scottante se si pensa che, al 1998, 16 milioni di
americani (solo nel 1997 erano la metà) vivevano in gated communities, e che
simili forme “fortificate” stanno diffondendosi in molte parti del globo,
dall’America latina, alla Cina, all’Australia, a Germania e Francia.
L’aspetto sorprendente e contraddittorio di questi insediamenti-enclave fortificati
è il loro proliferare ubiquitario sull’onda di un terrore quasi patologico della
criminalità e di ogni forma di “pericolosa diversità”, nonostante l’assodato e
consistente calo nel numero dei reati nelle zone urbane, suburbane e rurali degli
Stati Uniti, registrato progressivamente a partire dagli anni ’90. Numerose
ricerche dimostrano inoltre che questa parossistica corsa alle barricate non sortisce
automaticamente gli effetti desiderati: non sempre, infatti, le gated communities
risultano più sicure di insediamenti tradizionali; inoltre il tanto ambito “senso di
comunità”, richiamato con echi quasi tribali, non pare realizzarsi nella misura
desiderata dai residenti. D’altronde è stato notato da più parti che questa sorta di
“arcaismo modernizzante” deriva dall’idea che con uno sforzo di pianificazione e
controllo della struttura fisica e sociale di tali insediamenti si possano ottenere
determinati comportamenti, si possa promuovere socialità e senso di comunità.
Per riallacciarmi al punto relativo alle prison towns, conclusivo della mia tesi,
sono anch’esse un fenomeno recente e peculiare degli Stati Uniti, che è andato
incontro ad un sorprendente boom numerico: nei primi anni ’80 solo il 36% delle
nuove prigioni veniva edificato in aree rurali.
Gated communities e prison towns mi paiono evidenti riflessi, in termini di
organizzazione territoriale-spaziale e di scelte individuali, di una società che ha
6
Low S., Behind the Gates, Routledge, New York 2003, cit., p. 10.
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