5
Introduzione
L’aggressività
Con il termine aggressività ci si riferisce ai fattori motivazionali che
predispongono all’azione, i quali influenzano quindi la predisposizione di
un individuo ad emettere un’aggressione. L’aggressività non è un’entità
misurabile, ma piuttosto un concetto etologico indispensabile nella
descrizione delle cause prossime, neurochimiche e fisiologiche che, in
relazione a determinati stimoli ambientali, attivano o inibiscono la
motivazione ad aggredire un conspecifico o un animale appartenente ad
un’altra specie. Con il termine aggressione invece, ci si riferisce alle
manifestazioni di minaccia, rabbia ed eventualmente attacco verso un altro
individuo. L’unica misura effettiva e scientificamente accettabile del livello
di aggressività può essere data solo dalle azioni aggressive manifestate da
un determinato organismo; l’aggressività infatti non sfocia sempre in
comportamenti aggressivi. L’aggressione, ad ogni modo, pur essendo
l’espressione comportamentale piø eclatante, non è altro che una parte di
una serie di comportamenti caratterizzati da una finalità comune; per
questo motivo l’insieme dei moduli comportamentali della minaccia,
dell’aggressione, del combattimento, della dominanza, della sottomissione,
della pacificazione e della fuga viene spesso incluso nello stesso concetto
di comportamento agonistico (Scott et al., 1951).
Vi sono numerose definizioni di aggressività. ¨ stata tradizionalmente
definita come un atto evidente e intenzionale di infliggere un danno fisico
verso un altro individuo. (Moyer, 1971). Kummer (1973) e Eibesfeldt
(1999) parlano di aggressività ogni qualvolta vi sia un impiego massiccio di
6
forza fisica contro un conspecifico con lo scopo di allontanarlo, includendo
comportamenti di minaccia ed intimidazione, che rappresentano attacchi
ritualizzati. Parmigiani (1982) si riferisce al comportamento aggressivo
come ad un istinto reattivo, che pur avendo una sua pre-programmazione
biologica (riguardo le strutture nervose sottocorticali e neurovegetative
implicate nell’espressione delle emozioni), si esprime in risposta a
determinati stimoli. Un comportamento aggressivo è definito da alcune
specifiche caratteristiche: 1) deve provocare un effettivo o potenziale danno
(fisico o psicologico) ad un altro individuo; 2) deve essere intenzionale.
Ogni qualvolta si verifichi un conflitto d’interessi tra individui,
l’aggressività costituisce una delle risposte comportamentali piø probabili
(Archer, 1981); ad ogni modo, sono state identificate diverse forme di
aggressività, tra cui l’aggressività predatoria, quella legata alla paura,
quella tra maschi, irritativa, territoriale, materna, strumentale, legata al
sesso (Moyer, 1968). Al fine di classificare le varie forme di aggressività
risulta utile distinguere i comportamenti aggressivi che si esprimono
all’interno della specie (intraspecifici), da quelli che si esprimono nei
confronti di altre specie (interspecifici).
Fatta questa premessa, considereremo le due principali categorie di
aggressività, entro cui possono essere riunite tutte le forme di aggressione:
l’aggressività difensiva o protettiva e l’aggressività competitiva o
agonistica.
Le ricerche condotte negli anni ’70 da Blanchard e collaboratori, infatti,
hanno dimostrato, nei ratti e nei topi, l’esistenza di una chiara distinzione,
sia in termini motivazionali che comportamentali, tra la forma offensiva e
quella difensiva di attacco (Blanchard e Blanchard, 1981).
7
L’aggressività difensiva è caratterizzata a livello motivazionale dalla
presenza dei segni della paura e dalla tendenza alla fuga. L’animale attacca
perchØ minacciato da un potenziale pericolo; dal punto di vista funzionale
questo comportamento serve per difendere se stessi e gli altri da un
potenziale pericolo, in particolar modo i piccoli da un danno potenziale.
L’aggressività competitiva è caratterizzata invece dalla motivazione ad
attaccare e combattere, con l’obiettivo di acquisire e mantenere delle
risorse (Blanchard e Blanchard, 1980).
L’aggressività intraspecifica è quindi funzionalmente legata alla
competizione per le risorse, le quali comprendono, tra l’altro, i partner
sociali e quelli sessuali. In molte specie sociali ad organizzazione
gerarchica, gli animali di alto rango (che vincono la maggior parte delle
interazioni aggressive e competitive) possono ottenere un successo
riproduttivo piø elevato dei subordinati (Jack e Fedigan, 2006), per quanto
la relazione tra rango sociale e fitness sia assai complessa e vari a seconda
della specie, della struttura sociale, del sistema nuziale (Say et al., 1999;
Wroblewsky et al., 2009).Le asimmetrie nella fitness possono essere una
conseguenza del fatto che gli individui di alto rango impediscono
fisicamente ai subordinati di accoppiarsi (Derix et al., 1993), oppure dello
stress sociale associato con la subordinazione che può deprimere la
produzione di ormoni sessuali (Arnold e Dittami, 1997). In natura, quindi,
l’interazione sociale stabilisce quale animale possa accedere alla risorsa
contestata (Nelson et al., 2006). In molti casi, la classica postura o
gestualità di sottomissione da parte di un individuo impedisce la necessità
di un reale combattimento; gli animali, spesso, assumono displays di
minaccia o prendono parte a combattimenti ritualizzati in cui è determinato
lo status di dominanza senza che venga inflitto alcun danno fisico (Moyer,
1971).
8
Il testosterone
L’aggressività è un comportamento ancestrale che accomuna tutte le specie
animali e i suoi meccanismi neurofisiologici sono presenti nella maggior
parte delle specie di vertebrati in cui i giovani maschi adulti mostrano
elevati livelli di aggressione fisica verso i membri dello stesso sesso
(Archer, 2004). In merito a ciò, è importante considerare che gli ormoni,
particolarmente gli ormoni sessuali (Wilson, 1975; Brain, 1979), sono
parte di un sistema fisiologico integrato che influenza sia il comportamento
aggressivo che quello riproduttivo.
Tra uccelli e mammiferi, un meccanismo diffuso che aumenta la prontezza
dei maschi a combattere durante le fasi della vita in cui le opportunità
riproduttive sono maggiori, è l’azione del testosterone sulle aree del
cervello che controllano il comportamento aggressivo.
L’azione del testosterone nel controllo dell’aggressività tra maschi assicura
l’incremento di quest’ormone durante la competizione per femmine
recettive o per risorse necessarie per attrarre tali femmine, durante la
stagione riproduttiva o dopo la maturità sessuale. L’implicazione del
testosterone nel controllo dell’aggressività è stata mostrata in molte specie,
dai pesci ai mammiferi, ma con una sostanziale variabilità tra specie
(Archer, 1988).
La “challenge hypothesis” è stata originalmente proposta per spiegare
l’associazione tra aggressività e testosterone in uccelli con un sistema
riproduttivo monogamo (Wingfield et al., 1990). Essa prevede che vi siano
specifici incrementi contesto-dipendenti nella concentrazione di
testosterone, e che questi siano associati all’aggressività. I livelli di
9
testosterone aumentano all’inizio della stagione riproduttiva e tali livelli
supportano la fisiologia e il comportamento riproduttivo. Durante le “sfide”
tra maschi in contesti rilevanti dal punto di vista riproduttivo i livelli di
testosterone aumentano ulteriormente; questo, a sua volta, facilita
comportamenti aggressivi in un contesto di costituzione del territorio,
determinazione dello status sociale, sorveglianza del partner; nel momento
in cui i maschi devono occuparsi della prole, invece, i livelli dell’ormone
decrescono. La challenge hypothesis si riferisce ad una varietà di specie
monogame di uccelli o comunque a quelle specie caratterizzate da cure
parentali maschili. Nelle specie poligine i maschi mostrano elevate
concentrazioni di testosterone durante l’intera stagione riproduttiva.
Nonostante quest’ipotesi si basi sulle specie di uccelli, diversi studi
indicano come si estenda ampiamente ad altri gruppi di vertebrati, compresi
i mammiferi (Archer, 2004). Lo studio di Muller e Wrangham (2004) su
scimpanzè selvatici è particolarmente significativo: gli scimpanzè, infatti,
non sono nØ riproduttori stagionali nØ una specie monogama; quindi,
essendo l’accesso a femmine riproduttive relativamente difficile, in caso di
“disputa” essi avrebbero dovuto mostrare elevata aggressività. In merito, i
ricercatori osservarono che in presenza di femmine in estro si riscontrava
un significativo picco nei livelli dell’ormone e un relativo incremento
nell’aggressività competitiva; i maschi rispondevano alla competizione
mantenendo elevati livelli di testosterone, associati particolarmente allo
status di dominanza e necessari per l’attività riproduttiva dell’intero anno.
Alcuni studi mettono in evidenza che il testosterone non è correlato
all’aggressività mediante un rapporto causale diretto, ma piuttosto ai
comportamenti di dominanza, mirati a mantenere o conquistare uno status a
discapito di un altro individuo. Questo, ad esempio, spiega perchØ nei ratti
10
il testosterone è associato all’aggressività legata alla dominanza, ma non
all’aggressività predatoria (Conner, 1972).
Giammanco et al. (2005) si concentrano sul comportamento aggressivo in
roditori, nei primati e nell’uomo. Essi sottolineano come nelle specie
considerate, la condizione di dominanza o subordinazione sia influenzata
dal testosterone. Nei primati il testosterone è legato ad aggressività e
dominanza e, durante la stagione riproduttiva si osserva un aumento nei
livelli di tale ormone e nell’aggressività competitiva. Negli uomini, elevati
livelli di testosterone si sono riscontrati in fautori di crimini violenti, in
uomini facenti parte dell’esercito caratterizzati da comportamenti anti-
sociali, in soggetti con comportamenti impulsivi, in atleti utilizzanti
steroidi, e durante le competizioni. Aggressività e dominanza sono due
comportamenti distinti; il testosterone influenza entrambi, anche se l’uomo
è solitamente incline ad affermare il proprio potere senza causare un danno
fisico. ¨ importante distinguere i comportamenti aggressivi dai
comportamenti di dominanza, in quanto un individuo agisce in maniera
aggressiva quando cerca di infliggere oltraggio o veri e propri danni a un
membro della stessa specie, mentre si può affermare utilizzi comportamenti
di dominanza quando cerca di conseguire o mantenere il suo status – che
può essere rappresentato dall’influenza sociale su altri conspecifici (Mazur,
1973).
Anche Mazur e Booth (1998) hanno argomentato che il testosterone è
principalmente legato alla dominanza; vi è una considerevole associazione
tra livelli di testosterone e attributi relativi al comando, al potere personale,
alla dominanza aggressiva. La concentrazione di testosterone nel sangue
influenza il modo in cui le persone valutano minacce fisiche e psicologiche
11
al proprio status sociale ed è correlato al bisogno personale di dominare
(Schultheiss et al., 1999).
Stress sociale e depressione
In tutte le specie animali che si organizzano in gruppi, le relazioni di
dominanza sono stabilite e mantenute attraverso comportamenti agonistici;
i dominanti mostrano un comportamento prevalentemente aggressivo,
mentre i subordinati presentano posture difensive e di sottomissione
(Blanchard, 1993); i soggetti sono costantemente esposti a relazioni sociali
di dominanza e subordinazione, le relazioni sociali acquisiscono un
significato biologico estremamente importante, essendo alla base di
marcate differenze nell’accesso alle risorse, generando quindi una gran
quantità di stimoli sociali che possono provocare diverse risposte di stress
(Arregi et al., 2006). Questi stimoli sono importanti sia per la
sopravvivenza degli individui che per l’evoluzione delle specie; controllano
infatti un’ampia varietà di comportamenti adattativi come la competizione
sessuale, i comportamenti materno e filiale, l’apprendimento, il
riconoscimento sociale (Valencia-Alfonso et al., 2004). Questa varietà di
possibili fattori di stress è particolarmente importante, in quanto ciascun
soggetto viene esposto ad essi durante il corso della propria vita e nella
maggior parte delle specie lo status sociale influenza il modo in cui un
individuo è in grado di affrontare stressors fisici e sociali (Sapolsky, 2005).
Diversi individui appartenenti a numerose specie di mammiferi che vivono
in gruppi sociali spesso subiscono minacce provenienti da alcuni dei loro
conspecifici. Queste minacce costituiscono una caratteristica comune e
duratura della loro esistenza giornaliera; analisi delle concentrazioni di
corticosteroidi e catecolamine mettono in evidenza la perdita del controllo
12
sociale e la sconfitta sociale come uno dei piø potenti stressors del mondo
animale. Individui subordinati all’interno di gruppi caratterizzati da rigide
gerarchie di dominazione possono essere soggetti a continue e costanti
minacce da parte di conspecifici, associate ad una reale possibilità di
attacco fisico; questi animali vivono cambiamenti profondi nei propri
meccanismi fisiologici e comportamentali (Blanchard et al., 1995). Gli
effetti dello stress sociale sono stati messi in relazione a processi cognitivi
attraverso le strutture del sistema limbico, ovvero l’ippocampo, l’amigdala
e la corteccia prefrontale che hanno una notevole influenza sulla
regolazione del comportamento emotivo. La plasticità di queste strutture
influisce sulla capacità di ciascun individuo di adattarsi ai cambiamenti
ambientali (Arregi et al., 2006).
Nella società umana le relazioni interpersonali costituiscono la fonte
principale di stress; lo stress sociale generato in queste relazioni è
considerato uno dei principali fattori di sviluppo di vari disordini emotivi,
inclusa la depressione (Kessler, 1997).
Situazioni di conflitto sociale cronico che generano stress inevitabile
costituiscono quindi un fattore determinante nello sviluppo di disordini
come la depressione o l’ansia; in particolare, come specifica Koolhaas
(1997), lo stress sociale nei roditori è considerato un valido modello
etologico per lo studio di disordini emotivi nell’uomo. Nel dettaglio, è stato
osservato che ripetute esperienze di sconfitta sociale o subordinazione sono
un fattore psicologico che provoca alterazioni fisiologiche e
comportamentali nei roditori che sono connesse ai cambiamenti
neuroendocrini associati ad uno stato emotivo negativo, tipico dei sintomi
da ansia e depressione negli uomini.