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Introduzione
Il presente lavoro analizza un periodo della letteratura giapponese per molto
tempo scarsamente apprezzato. Il periodo di Edo, che va dal 1600 al 1868,
abbracciando quindi un’ampia fetta di storia, è stato rivalutato solo di recente. A
lungo è stato considerato un periodo che ha prodotto soltanto opere volgari edite per
la massa, di poco spessore artistico, lontane quindi dalla ricercatezza dei testi
realizzati nel passato. Il Giappone Tokugawa appariva a storici e studiosi un paese
arretrato, poco interessante, un’eredità da cancellare per far spazio alla modernità e
alle tendenze importate dall’Occidente.
È stato invece molto bello per me poter curare questo periodo che mi è
apparso sin da subito denso di espressioni culturali tutt’altro che banali.
Inizialmente fornirò una visione d’insieme del periodo focalizzandomi
successivamente sui punti salienti del mio studio.
Il filo conduttore di tutta la tesi è, come recita il titolo, il piacere. La ricerca
del piacere e la sua soddisfazione caratterizzano la vita urbana della popolazione,
influenzando le opere artistiche e letterarie. In certi casi ne sono presupposto per la
loro nascita. Il piacere era un aspetto della vita che non andava trascurato, e lo si
viveva abbastanza liberamente.
Il primo capitolo si apre con una breve cornice storica che fa da sfondo alle
maggiori tendenze del tempo. Il corpus della mia analisi si focalizzerà
successivamente sull’aspetto istituzionale, sociale, architettonico e culturale alla base
dello sviluppo urbano della città di Edo. Inoltre, un breve accenno sui maggiori
luoghi di divertimento della città sarà fornito già in questo capitolo, ripreso e
approfondito nei successivi.
Nel secondo capitolo tratterò il tema dell’omoerotismo. Dopo aver chiarito
alcuni aspetti terminologici differenti tra Europa e Giappone, svolgerò un’analisi
dettagliata che includerà un approfondimento storico e letterario, correlato negli
ultimi paragrafi da un attento esame giuridico e religioso alla base delle maggiori
differenze concettuali tra Giappone e Occidente, successivo a un più generale esame
che evidenzierà le rispettive sfere d’influenza tra Giappone, Cina, India e Europa.
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Nel terzo capitolo punterò l’attenzione sul quartiere di piacere di Yoshiwara,
l’unico quartiere legalizzato con sede a Edo, e tra i più influenti e celebri di tutto il
Giappone. In questo capitolo cercherò di sottolineare l’importanza di Yoshiwara non
solo come luogo dove si faceva mero commercio di sesso, ma come luogo di cultura.
Potremmo dire che l’amore che si faceva in questi luoghi, almeno fino al XVIII
secolo, era un tipo di amore raffinato. Le dettagliate norme di comportamento, i
mutamenti storici, il grande fascino delle cortigiane verranno tutti inclusi in un esame
che cercherà il più possibile di seguire un ordine cronologico attraverso il quale
assisteremo al sorgere e al lento morire di uno dei luoghi più affascinanti mai
prodotti nel paese del sol levante.
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I: Il Giappone nei secoli XVII, XVIII e XIX
1.1 La nascita del governo Tokugawa: struttura e organizzazione
Dopo la morte di Toyotomi Hideyoshi (1536-1598), generale di umili origini,
passato alla storia per aver portato a termine l’unificazione del Giappone, prese il
potere con la forza nel 1600 Tokugawa Ieyasu (1543-1616) con la famosa battaglia
di Sekigahara, investendosi del titolo di shōgun e dando inizio a quel lungo periodo
della storia giapponese che va dal 1600 fino al 1867, spesso criticato e solo
ultimamente rivalutato, che è il periodo Tokugawa (o periodo di Edo, dal nome della
capitale).
Durante il periodo Tokugawa si instaurò un sistema feudale che perdurò sino
al 1867, anno della Restaurazione Meiji, che segnò l’entrata del Giappone sulla scena
internazionale e che ha cambiato per sempre la sua storia. Al vertice del sistema
persisteva la figura dell’imperatore, divino e intoccabile, ma privato di fatto di
effettivi poteri decisionali. Il vero detentore del potere divenne Tokugawa Ieyasu,
che grazie a un astuto sistema di controllo costituito da innumerevoli funzioni di
vassallaggio, assicurò un lungo periodo di pace e prosperità.
Si instaurò un sofisticato sistema amministrativo, si assistette a un enorme
sviluppo economico e a un’imponente crescita demografica, e infine si sviluppò un
grande proliferare in ambito culturale. Edo, un tempo semplice villaggio di pescatori,
divenne la capitale politica e culturale del paese, destituendo l’antica città di Kyōto, a
lungo considerata la miyako
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dell’intero Giappone.
Con la vittoria di Sekigahara, Ieyasu stabilizzò la sua residenza nel grande
castello di Edo, costruito nel 1400 da Ota Dōkan (1432-1486) e dallo shōgun
ereditato. La città di Edo sorgeva sull’altopiano di Musashino e il castello era posto
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Miyako viene generalmente tradotto col termine “capitale”, ma il concetto di miyako e di
capitale non coincidono perfettamente. Il termine definisce inizialmente una città
contemporaneamente sede del governo, sede dell’imperatore e importante centro urbano.
Col tempo il discriminante principale diventa la presenza o meno di un centro urbano
sviluppato. Fino al tardo periodo Edo non c’era una miyako assoluta. Ci si riferiva ad Edo
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in posizione strategica, circondato dai fiumi Sumida e Kanda che lo proteggevano da
attacchi esterni.
Fu in questo periodo che il Giappone sperimentò quel processo di
urbanizzazione che sarà poi ampiamente ultimato nella successiva epoca Meiji
(1868-1912). Tale processo prese avvio dall’istituzione di Edo quale capitale
amministrativa e portò a un boom demografico fino ad allora mai registrato. Si stima
che nel XVIII secolo vivessero a Edo 350.000-400.000 samurai e circa 500.000 tra
mercanti, artigiani, servi e operai, portando la popolazione a una cifra esorbitante: un
milione di abitanti.
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Inoltre, la crescita della produzione agricola portò a un’espansione
dell’economia e ad un miglioramento delle condizioni di vita.
L’intero territorio di Edo venne suddiviso dal bakufu in feudi, ognuno dei
quali amministrato da un daimyō.
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Lo shōgun non riponeva fiducia assoluta in essi,
tant’è vero che nel 1635 rese obbligatorio quello che inizialmente era nato come atto
di omaggio e conosciuto col nome di sankin kotai, cioè “presenza alternata” dei
daimyō a Edo, con l’obbligo di lasciare le famiglie nella città quando questi si
trovavano altrove. Si trattava di un astuto sistema di controllo e rendeva le famiglie
dei daimyō quasi ostaggi nelle mani del governo.
Al centro del potere amministrativo c’erano anche due consigli superiori,
denominati “consiglio degli anziani” e “consiglio dei meno anziani”, che si
occupavano di questioni legate al regno shōgunale. Incarichi amministrativi minori
erano ricoperti dagli hatamono (vassalli diretti dello shōgun) e dai gokenin (anch’essi
vassalli diretti dello shōgun, ai quali, però, era proibito incontrare lo shōgun),
controllati dai wakadoshiyori
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.
quale tōto (capitale dell’est) e a Kyōto quale saito (capitale dell’ovest). La capitale assoluta
divenne in seguito Edo (Tōkyo).
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Andrè Sorensen, The making of urban Japan. Cities and planning from Edo to the twenty-
first century, Routledge, 2004, p.17.
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I daimyō erano divisi in due grandi categorie: i fudai daimyō e i tozama daimyō. I primi
erano considerati i più fedeli in quanto alleati dello shōgun anche prima della battaglia
vittoriosa, e infatti assumevano le cariche più prestigiose. I secondi si erano alleati in
seguito all’esito vittorioso della battaglia di Sekigahara.
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James L.Mc Clain, John M.Merriman, Ugawa Kaoru, Edo and Paris, Urban Life and the
State in the Early Modern Era, Cornell University Press, 1997, p.47
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Come si può vedere, il sistema amministrativo Tokugawa funzionava a mo’
di scatole cinesi, con un funzionario contemporaneamente controllore e controllato.
Infine, ai ranghi più bassi si trovavano i machi bugyō, amministratori dei
quartieri residenziali dei mercanti e degli artigiani, e i machidoshiyori, mercanti e
artigiani della città stessa ai quali i machi bugyō delegavano dei compiti.
È proprio a causa del grande sviluppo della Edo di quegli anni che nacque
l’esigenza di diversificare il territorio e di dare vita ai quartieri.
Ogni quartiere era amministrato dai suoi stessi abitanti, organizzati in
associazioni chiamate goningumi, composte da gruppi di cinque famiglie. Tali
associazioni si occupavano di tutte le questioni riguardanti la vita del quartiere, dalle
preparazioni per un’imminente festività, al riparo dei canali. Ogni quartiere aveva
inoltre un “capo”, che si situava a metà strada tra l’alta burocrazia e le esigenze
locali.
Il Giappone di questi secoli ci appare molto diverso dal Giappone di oggi. Era
una nazione relativamente chiusa
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, i contatti con l’estero molto radi, eccezion fatta
per quella grande finestra sul mondo costituita dalla permanenza autorizzata degli
olandesi a Nagasaki. Una finestra particolarmente importante perché permise ai
giapponesi di entrare in contatto con le maggiori scoperte scientifiche del mondo, dal
megafono al telescopio, le maggiori innovazioni in ambito culturale e infine permise
loro di confrontarsi con abitudini di vita differenti, come l’utilizzo della sedia, le
posate per mangiare, le scarpe col tacco.
1.2 Stratificazione sociale e vita nella capitale
La società giapponese era divisa in quattro grandi classi: i samurai, i
contadini, gli artigiani e i mercanti. Il Giappone del periodo di Edo era una società la
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Sakoku viene chiamata in giapponese la politica di isolamento inaugurata dal terzo shōgun
Iemitsu nel 1641 e conclusa nel 1853 per opera del commodoro statunitense Matthew Perry.
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cui struttura sociale non accettava scosse:
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ogni classe era distante dall’altra, sia
spazialmente che ideologicamente.
Non era infatti un caso che le case dei daimyō fossero collocate distanti dalle
case dei contadini e che ai samurai fossero concessi privilegi non condivisi dai
mercanti.
Al centro della città si trovava l’imponente castello, intorno ad esso
sorgevano le abitazioni dei daimyō e dei samurai, mentre, più distanti, le case dei
mercanti e degli artigiani.
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Oltre a una differente localizzazione, ogni classe godeva di speciali privilegi.
I samurai, ad esempio, avevano il diritto di portare due spade e un cognome, mentre i
mercanti erano noti con il nome del negozio, e i contadini possedevano solo il
proprio nome. I privilegi riguardavano soprattutto lo stile di vita: i samurai
indossavano abiti dal tessuto più raffinato, molto spesso abiti di seta, mentre i
mercanti abiti in cotone. Addirittura, vi era una differenziazione nelle abitudini
alimentari. Il bakufu promulgò diverse leggi per regolare la consumazione e la
vendita del cibo. Ad esempio, nel 1642 preparare e vendere sakè nei villaggi venne
proibito. Inoltre, ai contadini venne vietata l’eccessiva consumazione di riso e la
produzione e vendita di soba, udon, sōmen e manjū.
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I samurai erano gli unici a poter accedere a cariche politiche e
amministrative, mentre era loro bandito intraprendere attività commerciali.
I contadini costituivano il cuore produttivo del paese, ma le loro condizioni di
vita erano spesso pessime. A ciò contribuivano le pesanti tassazioni cui erano
soggetti. La classe contadina era infatti una classe che viveva nel malcontento, e non
di rado tale sentimento sfociava in vere e proprie ribellioni organizzate.
Anche gli artigiani vivevano in condizioni talvolta deplorevoli, ma godevano
di un’alta considerazione, che perdura sino ad oggi, quali esperti in arti raffinate
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Per dover di cronaca è opportuno ricordare che, seppure rari, ci furono dei casi in cui alcuni
mercanti ascesero al grado di samurai e dei casi in cui dei samurai decisero di divenire
mercanti.
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È importante ricordare che la città cambiava spesso aspetto a causa dei frequenti incendi e
delle ordinanze di trasferimento emanate dallo shōgun nei confronti dei daimyō.
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Nishiyama Matsunosuke, EDO CULTURE Daily life in Diversions in Urban Japan, 1600-
1868, University of Hawaii Press, 1997, p.159
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come, ad esempio, l’arte della fabbricazione della katana, la famosa spada del
samurai, frutto di un accurato lavoro.
Nella parte più bassa della piramide si trovavano i mercanti, considerati
secondo le norme del confucianesimo dei parassiti, ma in realtà protagonisti dello
sviluppo economico del paese in questo periodo, principali frequentatori dei
maggiori luoghi di divertimento, dal teatro kabuki ai quartieri di piacere.
Artigiani e mercanti sono spesso unificati sotto il nome di chōnin, un termine
difficile da rendere in italiano e che potremmo tradurre come “borghesia” o
“borghesia mercantile”, e che include anche i samurai impoveriti, e i nobili
decaduti.
La popolazione di Edo per lo più proveniva da altre parti del paese, pochi
erano gli autoctoni. Questa caratteristica divenne ben presto motivo di vanto, tant’è
vero che a partire dalla seconda metà del diciottesimo secolo il chōnin nativo di Edo
assunse un nome particolare: Edokko, “figlio di Edo”. In linea di principio, l’Edokko
possedeva inoltre forza di carattere, era colto e vantava un ruolo economico non
indifferente.
Tale distinzione fu prerogativa della sola città di Edo, mai si avvertì esigenza
di creare un simile appellativo in altre città, come Ōsaka e Kyōto, dove
evidentemente le caratteristiche della popolazione erano ben diverse.
Le distinzioni sociali erano ben identificabili già a una prima occhiata. Tali
differenze venivano evidenziate dai diversi colori e materiali impiegati per le vesti
dei vassalli, dai diversi materiali impiegati per costruire le loro residenze. A ragione
si parla spesso di cultura prevalentemente visiva, per definire il tipo di cultura che
predominò in questo periodo. A riprova di quanto detto potrei citare come esempio il
tatami del castello di Edo, differente nel colore se a posarci i piedi era un vassallo
importante o meno
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.
L’ultimo gradino della scala sociale era occupato da persone escluse dalla
società e disprezzate, suddivise in hinin ed eta.
Il termine eta era scritto con un carattere cinese che significava letteralmente
“sporco” e infatti era una categoria che racchiudeva tutte le persone aventi a che fare
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Nishiyama Matsunosuke, EDO CULTURE Daily life in Diversions in Urban Japan, 1600-
1868, University of Hawaii Press, 1997, p. 31.
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con lavori contaminanti, come ad esempio i macellai, i becchini, i conciatori, e più in
generale chi lavorava con esseri morti, sia animali che umani.
Sulle origini degli eta molte sono le opinioni. C’è chi avanza l’eventualità di
una possibile discendenza dal popolo filippino, chi intravede una possibilità nel
popolo coreano, chi ancora pensa alle tribù scomparse degli ebrei o a una tribù hindu
chiamata Weda
10
. Dovunque stia la verità, è indubbio che gli eta fossero un gruppo
esistente già da molto tempo. In epoca medievale essi venivano indicati col nome di
kawaramono o kawara no mono (letteralmente: “coloro i quali vivevano lungo il
letto del fiume”). Le prime attestazioni di un possibile cambiamento di nome
risalgono al periodo di Edo. È ad esempio datato 1657 un editto di legge emanato dal
bakufu nei loro confronti in cui compare il termine eta
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.
L’altra fetta dei burakumin era occupata dagli hinin. Il termine significa
letteralmente “esseri non umani”. Secondo una credenza popolare tutti gli outcast
provenivano da una razza animalesca. Molti appellativi, tra cui yotsu (quadrupede),
ningai (all’infuori della stirpe umana), sottolineano questo aspetto.
Hinin erano generalmente considerati i criminali, i disabili, le persone
abbandonate dalle loro famiglie, gli intrattenitori, le prostitute e soprattutto i
mendicanti. Fu nel tardo diciottesimo secolo che gli hinin vennero formalmente
definiti fuoricasta. In epoca medievale le due categorie andavano spesso
confondendosi, ma già a partire da Hideyoshi, e in misura maggiore sotto i
Tokugawa, le due categorie furono definite formalmente e gli editti emanati per
regolare la loro permanenza nella città abbondavano.
In primo luogo il bakufu cercò di fare un censimento e di registrare la loro
presenza per poterli meglio controllare; in secondo luogo la maggior parte di loro
venne impiegata nei lavori considerati più umili. Era un po’ un circolo vizioso: molti
di loro erano denominati burakumin per il lavoro che svolgevano e il lavoro svolto
diventava “sporco” perché da loro effettuato. Gli editti promulgati dal bakufu
miravano sempre a controllarli e talvolta a ghettizzarli. Nel 1723, ad esempio, venne
chiesto a tutti i burakumin di radersi i capelli, alle loro donne di non radersi le
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George A.De Vos, Hiroshi Wagatsuma, Japan’s invisible race: caste in culture and
personality, ed.riveduta, University of California Press, 1972, p.20