4
possibile uscire più agevolmente dalle diverse fasi recessive. Per
le ragioni sopra esposte, le pagine che seguiranno tenteranno di
ripercorrere, per grandi linee, le tappe evolutive dell'originale
"modello italiano" di sviluppo industriale, i cui risultati hanno
suscitato in passato grande attenzione da parte degli osservatori
economici, non solo nazionali, ed i cui traguardi continuano
tuttora a destare enorme interesse. La descrizione dell'evoluzione
delle piccole e medie imprese industriali nel corso degli anni '70,
secondo le linee di sviluppo di tale "modello", prende le mosse
dal fenomeno dell'industrializzazione "sommersa". A
quest'ultima, in particolare, si attribuisce il merito di aver
favorito la diffusione territoriale di un elevato numero di piccole
imprese, la cui iniziale esistenza ed attività sfuggiva alle
rilevazioni delle statistiche ufficiali ed i cui risultati economici
non apparivano nelle valutazioni del prodotto interno lordo. Ciò
che si intende comunque sottolineare in questa sede è che, in
5
molti casi, il processo di sviluppo industriale, avviatosi nella
forma dell'industrializzazione sommersa, ha condotto al
fenomeno dei "distretti industriali", detti anche aree-sistema, che
del suddetto percorso di sviluppo costituiscono, sotto certi
aspetti, il punto di arrivo più elevato ed originale. Si osservi, a
tal proposito, che con l'espressione di "distretto industriale" si
suole indicare, com'è noto, l'insieme di più imprese di piccole e
medie dimensioni, specializzate in un certo tipo di prodotto che,
grazie alla loro vicinanza territoriale ed al comune ambiente
socio-culturale, realizzano reciprocamente una serie di
integrazioni orizzontali e verticali, conseguendo risultati che,
non solo esse non potrebbero ottenere separatamente, ma che
superano spesso quelli ottenibili da un'unica grande impresa,
verticalmente integrata. Per tale ragione, quindi, la seconda
parte di questo lavoro sarà dedicata alla descrizione delle
principali caratteristiche del modello distrettuale di
6
organizzazione produttiva, avvalendosi, in particolare, di
puntuali riferimenti all'esperienza di alcuni distretti industriali
italiani. Dopo avere esaminato le principali strategie di
adattamento dei distretti ai notevoli mutamenti intervenuti nel
corso della seconda metà degli anni '80, per effetto della
"globalizzazione dei mercati", della pressione competitiva da
parte di nuovi concorrenti, della pervasività dell'innovazione
tecnologica, la parte immediatamente conclusiva della presente
dissertazione sarà riservata, invece, al problema della possibile
"esportabilità", del suddetto modello di sviluppo, in aree
caratterizzate da bassa tradizione industriale.
7
Capitolo primo
Il modello italiano dello sviluppo industriale
1.1 Il mito del "modello italiano"
Traendo spunto dagli atti di un convegno sulla economia
marchigiana, tenutosi ad Ancona nel giugno 1982, Giorgio Fuà
scriveva: "Finché concepiamo lo sviluppo come rincorsa
abbiamo la deprimente sensazione di essere sempre indietro
rispetto ai nostri modelli. Se invece lo concepiamo come la scelta
di percorsi originali, non è più chiaro chi sia avanti e chi sia
dietro."
1
1
Dagli atti del convegno "L'economia marchigiana: crescita ed adattamento negli anni della
crisi. (Ancona, 19 giugno 1982), riportati in "Economia Marche" 1982 n. 2, pp. 242-243
Vedi anche: Giorgio Fuà - Industrializzazione senza fratture - Il Mulino (1983), pag. 43
8
La scelta di uno di tali percorsi sta verosimilmente alla base della
crescita, tendenzialmente continua ed a tratti sostenuta, che
l'industria italiana ha sperimentato dalla seconda metà degli anni
'70 fino agli inizi del decennio in corso.
Produzione e produttività italiane sono infatti cresciute a tassi fra
i più elevati del mondo. In particolare, nel periodo a cui si fa
riferimento, il tasso di incremento della produttività, è stato pari a
circa il 3%, mentre la produzione industriale, dopo i tassi negativi
registrati nel '92 e '93, ha ripreso il suo trend di crescita nel 1994,
anno in cui la produzione industriale ha registrato il tasso di
incremento più elevato d'Europa (10,2%). A prescindere dalle
cifre, comunque, il dato incontrovertibile è che lo sviluppo
industriale ha trasformato intere regioni come il Veneto, l'Emilia,
la Toscana, le Marche ed il Sud lungo la cosiddetta "direttrice
adriatica", interessando anche alcune zone assolutamente prive
della benché minima tradizione o vocazione industriale.
9
Ciò che più sorprende, tuttavia, è come una tale crescita si sia
potuta produrre in seno ad un contesto generale che appare,
almeno in prevalenza, sfavorevole. L'arco temporale a cui si fa
riferimento è stato infatti caratterizzato da tutta una serie di
condizioni decisamente contrarie allo sviluppo industriale: crisi
energetica, conflittualità sindacale, inflazione, crisi valutarie,
debito estero crescente, per non parlare della costante instabilità
politica, della inaffidabilità della pubblica amministrazione,
perennemente afflitta dalle diffuse pratiche clientelari,
dell'inefficienza del sistema bancario e dell'inadeguatezza dei
sistemi di trasporto e telecomunicazione.
L'originalità del percorso di sviluppo del nostro paese, che ha nel
sistema delle piccole e medie imprese il suo punto di forza, ha
suscitato e continua peraltro a suscitare enorme interesse. Il mito
del modello italiano si è inserito, infatti, nel più ampio dibattito
10
sulla esistenza e validità di vie alternative dello sviluppo
industriale.
A tal proposito, nel capitolo introduttivo di un interessante lavoro
di due economisti americani, Michael J. Piore e Charles F. Sabel,
sulla contrapposizione fra il sistema di produzione di massa e
quello della produzione flessibile, Arnaldo Bagnasco scriveva
che una sorta di nuovo spartiacque industriale si presentava al
cospetto delle maggiori economie occidentali.
2
Se la grande
ondata storica dello sviluppo industriale si era basata infatti, nel
suo percorso ormai secolare, su una tendenza alla produzione di
massa, ottenuta dalle grandi imprese con l'uso di macchine
speciali per prodotti standardizzati, la crisi generalizzata delle
economie capitaliste e lo sviluppo di nuove tecnologie
consentivano finalmente la ripresa di un sistema di produzione
2
Vedi: Michael J. Piore e Charles F. Sabel - Le due vie dello sviluppo industriale.
Produzione di massa e produzione flessibile. ISEDI (1987), prefazione di Arnaldo
Bagnasco, pag.17-25
11
alternativo, fondato principalmente sulla produzione di piccola
serie e sull'uso di lavoro altamente specializzato ed orientato su
obiettivi prevalentemente qualitativi. Di tale sistema di
produzione alternativo, molte imprese italiane sembravano offrire
l'esempio più significativo e proprio per tale ragione i due autori
statunitensi, già citati, hanno dedicato ampio spazio alla
descrizione delle caratteristiche dello sviluppo industriale del
nostro paese. In particolare, si può affermare che la caratteristica
che più di ogni altra ha consentito al sistema italiano di
raggiungere un elevato livello di sviluppo industriale è la grande
flessibilità della struttura produttiva, flessibilità generata dalla
natura composita del sistema industriale e dal modo in cui molte
piccole imprese sono sorte e si sono diffuse sul territorio
italiano
3
. Per quanto riguarda la natura composita del sistema
industriale, ci si vuol riferire ai diversi tipi di imprese che ne
3
Vedi: Andrea Saba - Il modello italiano - Franco Angeli (1995), pag. 31 e ss.
12
fanno parte. Trascurando gli aspetti meramente dimensionali e
alla luce dei risultati conseguiti dal nostro paese, la compresenza
sulla scena produttiva della grande impresa privata, del sistema
delle imprese a Partecipazione Statale, delle imprese assistite,
delle piccole imprese organizzate in forma cooperativa o
collegate in forma di "distretti", è incontestabilmente considerata,
infatti, come positivo fattore di elasticità.
In relazione, invece, al modo in cui gran parte delle piccole
imprese sono nate e si sono quindi diffuse su quasi tutto il
territorio italiano, il riferimento va fatto alla industrializzazione
sommersa, principale artefice dell'esistenza di una realtà
economica la cui attività sfuggiva alle rilevazioni delle statistiche
ufficiali della produzione industriale ed il cui reddito non veniva
misurato nelle valutazioni del prodotto interno lordo.
A questo proposito, tra la fine degli anni '60 e l'inizio degli anni
'70, diffuse ricerche relative al lavoro a domicilio e all'economia
13
sommersa, portate avanti da Frey e da diversi altri autori,
avevano mostrato come vi fosse in Italia un numero consistente
di lavoratori non rilevati dalle statistiche ufficiali.
4
In realtà
forme di lavoro nero o di lavoro a domicilio, che alimentavano
quelle a cui, attraverso l'uso di ricche invenzioni verbali, veniva
dato il nome di economia sommersa, informale o parallela, erano
sempre esistite nel nostro paese ed avevano sempre avuto un peso
rilevante in agricoltura e nei settori tradizionali come il tessile,
l'abbigliamento, il calzaturiero etc. Oltre che nell'artigianato, esse
erano generalmente più presenti, nelle piccole imprese, piuttosto
che nelle grandi, dove il controllo sindacale e dell'ispettorato del
lavoro poteva risultare più efficace. Tuttavia, la novità
registratasi in quel periodo era rappresentata, non tanto dalla
maggiore diffusione del ricorso a tali forme di lavoro nei settori
4
Frey L., Il lavoro a domicilio in Lombardia , Giunta regionale lombarda, Assessorato al
lavoro, Milano, 1972
Frey L., Lavoro a domicilio e decentramento dell'attività produttiva nei settori tessili e
dell'abbigliamento, Milano, Angeli, 1975.
14
già tradizionalmente interessati dal fenomeno in oggetto, quanto
dalla sua estensione a settori relativamente nuovi come il
meccanico o l'elettronica. Questa tendenza era strettamente
associata, d'altra parte, al processo di decentramento produttivo
sperimentato in quegli anni dalle grandi imprese nel tentativo di
contrastare da una parte l'esasperata conflittualità sindacale e
dall'altra la crescente instabilità della domanda attraverso la
ricerca di una maggiore flessibilità della struttura produttiva.
Sarebbe tuttavia oltre modo schematico ridurre lo sviluppo della
piccola impresa, in generale, ed il fenomeno della
industrializzazione sommersa, in particolare, ad una semplice
conseguenza prodotta dai rimedi che le grandi imprese furono
costrette ad imporre in seguito alle turbolenti tensioni sindacali
della fine degli anni '60. Come meglio si vedrà in seguito, infatti,
l'esistenza della micro-imprenditorialità, così come il ricorso al
lavoro domestico, preesistevano, sebbene in misura ridotta, agli
15
eventi legati al cosiddetto "autunno caldo" ed al conseguente
ricorso al decentramento produttivo.
Allo stesso modo apparirebbe oltre misura riduttivo rilevare
esclusivamente gli aspetti negativi di tali fenomeni, come la
diffusione del lavoro nero, l'inosservanza delle norme in materia
di contratti collettivi, l'evasione fiscale, lo sfruttamento intensivo
della manodopera. Ciò che occorre sottolineare, piuttosto, è come
nel fenomeno dell'industrializzazione sommersa e nello sviluppo
delle piccole imprese possano rilevarsi, anche se ad uno stadio
primigenio, una serie di fattori positivi, quali l'esistenza di un
forte spirito di iniziativa e di autonomia imprenditoriale, la
tendenza alla specializzazione, il maggior grado di adattamento e
di flessibilità della struttura produttiva, fattori positivi che,
sebbene congiuntamente ad altri, hanno contribuito alla nascita e
allo sviluppo dei "distretti industriali". Alcuni esempi a questo
punto possono supportare la validità del collegamento, che si è
16
appena ipotizzato, tra attività sommerse, piccole imprese e
distretti industriali.
Nella zona di Mantova, in particolare, il fenomeno
dell'industrializzazione "sommersa", nel corso degli anni '70, in
gran parte originato dalla evoluzione di attività artigianali
preesistenti, ha costituito il presupposto per la nascita e lo
sviluppo di due distretti industriali di un certo rilievo, il primo
specializzato nella produzione di scope, spazzole e pennelli
(quello di Viadana-Casalmaggiore costituito da circa 120
aziende, che conta circa 1300 addetti), il secondo, più importante,
specializzato invece nella fabbricazione di calze da donna (quello
di Castelgoffredo costituito da oltre 400 aziende, che conta circa
7500 addetti e a cui si deve, in particolare, il 50% della
produzione mondiale di tale prodotto).
Un altro esempio in tal senso viene offerto dall'esperienza di
sviluppo del distretto tessile di Prato, costituito da circa 11850
17
aziende e con un numero di addetti pari a circa 48000 unità. Nel
caso di tale distretto, in particolare, un ruolo di primo piano nello
sviluppo delle piccole imprese "di fase" è stato rivestito dal
decentramento produttivo posto in essere dai lanifici a ciclo
completo, la cui disintegrazione in senso verticale ha assunto,
secondo alcuni autori, i connotati di una vera e propria
"smobilitazione". Sempre a proposito di Prato occorre precisare,
poi, che la nascita e lo sviluppo del modello "distrettuale" di
organizzazione economica e sociale ha anticipato
cronologicamente quella di altri distretti industriali italiani.
Per una serie di ragioni che vedremo meglio in seguito, ad un
certo punto, però, l'industria sommersa si evolve, cessa di
ricoprire esclusivamente quella funzione iniziale di
"ammortizzatore sociale" e, discostandosi progressivamente da
una condizione di marginalità, inizia, la sua marcia di
affrancamento istituzionale. L'evoluzione è stata diversa nelle