Economia
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Italia
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Sommario
Nel secondo dopoguerra l’Italia si avviò su un sentiero di sviluppo sostenuto
e lo percorse per più di un quarto di secolo. Venne recuperata una parte cospicua
del ritardo nei confronti dei paesi con più elevati livelli di benessere economico. Lo
sviluppo beneficiò di diversi fattori, interni ed esterni, che consentirono di
conseguire fortissimi guadagni di produttività. La crescita dell’economia, di durata
e intensità senza precedenti nel nostro paese, fu accompagnata da un
innalzamento progressivo del livello di istruzione della popolazione, che seppe
combinarsi efficacemente con lo stato delle conoscenze tecnologiche.
Dagli anni novanta l’irruzione delle economie emergenti sui mercati
internazionali e l’avvento di nuove tecnologie, mutano radicalmente le
caratteristiche dello sviluppo economico a livello globale. Hanno disegnato nuove
gerarchie, rivoluzionato i processi produttivi, modificato in modo sostanziale,
soprattutto nei paesi avanzati, le caratteristiche dell’input di lavoro domandato
dalle imprese.
Ha preso nuova forza quell’ampio filone della letteratura economica che da
tempo è volto a riflettere sul nesso fra istruzione e sviluppo.
Secondo Hanushek e Woessman [2007], “istruzione e formazione sono
un’arma per competere nel nuovo mondo globale dei saperi ed in quello della
concorrenza mondiale, perciò fanno parte delle dotazioni strutturali di un paese, di
un’economia e di una società”. Esse rappresentano anche un decisivo livello per
l’integrazione delle nuove generazioni in una società multietnica. L’istruzione può
accrescere i redditi individuali e il livello di sviluppo di un’economia soprattutto
attraverso l’accelerazione impressa al progresso tecnologico. In ogni caso, non vi
è dubbio che la qualità dell’istruzione (e quindi della forza lavoro) è solo uno dei
fattori che rientrano nella determinazione della crescita. Innalzare il livello di
qualità della scuola può avere effetti trascurabili nel supportare il funzionamento di
una moderna economia, se mancano politiche che rafforzino, tra gli altri, i
meccanismi di mercato e le istituzioni pubbliche e legali.
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Se la bassa crescita della nostra economia ha coinciso con l’emergere di
questi grandi cambiamenti di fondo del sistema in cui viviamo, occorre essere
attenti a trarne semplicistiche conclusioni. In effetti, molti paesi, avanzati ed
emergenti, stanno ampiamente beneficiando della globalizzazione, cogliendo con
successo le opportunità da essa offerte.
Per quanto riguarda il nostro Paese, molte rigidità hanno impedito, e ancora
impediscono, un’adeguata risposta al cambiamento. È difficile affrontare
l’evoluzione economica in corso, senza intervenire sul livello di capitale umano.
Le scuole e le università sono le istituzioni deputate alla sua formazione; a
ciò adempiono direttamente, dotando i giovani di un adeguato bagaglio culturale e
trasmettendo lo stock di conoscenze ereditato dalle precedenti generazioni;
indirettamente, stimolando la capacità dei giovani di apprendere, educandone i
comportamenti, dirigendone le motivazioni verso obiettivi socialmente condivisi.
Certo, il capitale umano di cui oggi si dispone in Italia è ben più alto di quello
di qualche decennio fa. Ma occorre confrontarsi con il resto del mondo: l’Italia in
generale è in ritardo, come livello e come tendenza.
Il presente lavoro si articola in quattro capitoli.
Partirò dall’analisi dell’attuale situazione italiana per quanto concerne la
mobilità sociale ed il capitale umano di cui disponiamo, in rapporto con altri paesi
Ocse. Si presterà attenzione a valutare sia il livello medio di titolo di studio
posseduto, sia l’effettivo livello di preparazione dei nostri studenti (usando i test
esterni predisposti da INVALSI, OCSE, IEA).
Affioreranno rilevanti differenze regionali ed un sostanziale ritardo del nostro
Paese nel confronto Internazionale, a cui cercherò di dare delle spiegazioni nei
capitoli successivi.
Dapprima rivolgerò l’attenzione ai rendimenti dell’istruzione in Italia. Lo
studio, che riguarderà i rendimenti “privati”, “sociali” e “fiscali” legati all’incremento
del livello del capitale umano nazionale, farà spiccare indubbi benefici che
dovrebbero spingere, almeno in linea teorica, sia le famiglie, che le istituzioni
pubbliche, ad investire in questa direzione.
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I motivi dello scarso livello di istruzione nazionale e dalla permanenza di uno
zoccolo duro che non riesce neppure a completare l’obbligo scolastico, sono
quindi da ricercare altrove.
Nel terzo capitolo inquadrerò il sistema scolastico italiano sotto i profili di
eguaglianza ed equità, valutando se l’azione pubblica sia tale da annullare le
differenze tra regioni, tra famiglie e tra status sociali, favorendo così una crescita
unificata dei livelli di conoscenza. Vedremo che questo non accade a causa di
risorse pubbliche mal investite; investimenti privati quasi nulli; sistema di scelta
della scuola secondaria superiore troppo precoce ed influenzato più dell’effetto del
background familiare, che dalle reali attitudini dello studente; rilevanza dei peer
group effects nella scelta di prosecuzione degli studi.
Il quarto capitolo disamina l’effetto che ha la struttura del mercato del lavoro
italiano, sulla scelta di acquisire o meno istruzione di base e/o supplementare. Si
profila il fenomeno del cosiddetto educational mismach, di importanza rilevante
soprattutto per la classe d’età che va dai 15 ai 29 anni, in cui risulterebbe un 20
per cento di overeducated. Questo disallineamento tra titolo posseduto e titolo
richiesto per una determinata mansione, potrebbe convincere molti giovani a
cercare prematuramente un’occupazione, rinunciando ad acquisire istruzione
aggiuntiva. Il sistema produttivo italiano sembra prestarsi particolarmente a questo
genere di problemi, a causa della sua bassa dinamicità e reattività, tipici delle
produzioni a basso contenuto tecnologico.
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“Il popolo più felice
è quello che ha istruito meglio i suoi bambini”
José Martí
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1- L’imbuto della scuola italiana: mobilità sociale e nei titoli
di studio
Quanto è mobile oggi la società italiana?
È difficile rispondere a questa domanda, perché non esiste una misura
univoca per catturare il livello di mobilità sociale di un paese. La mobilità sociale
ha molti aspetti e dimensioni. Molto spesso viene intesa (e misurata) come la
possibilità per una generazione di raggiungere posizioni sociali e occupazionali
migliori rispetto a quella precedente. Quindi, ad esempio, la possibilità che i figli
degli operai italiani degli anni Cinquanta potessero divenire, negli anni Settanta e
Ottanta, impiegati o addirittura medici e avvocati. Si tratta di quella che
tecnicamente si chiama “mobilità intergenerazionale”. Una mobilità che è stata
fortissima per tutti i paesi occidentali nella prima metà del Novecento, con il pieno
dispiegarsi dell'era industriale e il diffondersi dell'istruzione presso i ceti più
popolari, ma che ha inevitabilmente iniziato a rallentare ovunque a partire dagli
anni Settanta.
La mobilità intergenerazionale in Italia non è rallentata più che in altri paesi.
Eppure la percezione di un peggioramento complessivo della mobilità è molto
forte, soprattutto tra le generazioni più giovani.
Un sondaggio condotto nel 2008 da SWG mostra un quadro veramente
sconfortante. Se circa il 41% degli ultra cinquantenni dichiarava di avere uno stato
sociale migliore di quello della famiglia di origine, solo il 6% dei ventenni aveva la
stessa percezione. Addirittura, il 20% dei ventenni, sosteneva di trovarsi in uno
stato sociale inferiore a quello della famiglia di origine.
Questo dato è molto rilevante, proprio per quella dimensione “psicologica”
della mobilità sociale, per il suo potere di motivazione e stimolo sugli individui. Se
le persone non percepiscono la possibilità di avere accesso a determinate
opportunità di crescita e realizzazione, il loro impegno nel perseguirle sarà
inferiore a quello che impiegherebbero se le vedessero più raggiungibili.
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Tavola 1.1: Confronto tra lo stato sociale della famiglia di origine e quello attuale
Fonte: SWG 2008
Ma perché la percezione delle persone è così negativa anche se i dati
sull'evoluzione delle “classi sociali” non sembrano così terribili? Esistono dati ed
elementi oggettivi in grado di spiegare questo fenomeno?
Sì, esistono. Perché la mobilità sociale ha molteplici aspetti e dimensioni, che
non possono essere sintetizzate dal tasso di trasformazione delle classi sociali o
della struttura occupazionale.
Innanzitutto passare ad una classe sociale o occupazionale ritenuta migliore
non necessariamente corrisponde ad un effettivo miglioramento dello stile di vita,
anche perché nel frattempo tutta la società si evolve e il tenore medio di vita
cresce di pari passo. Per esempio: il figlio di un operaio che riesca a divenire
maestro o impiegato rappresenta, sulla carta, un segnale di mobilità sociale. Ma il
tenore di vita che molti maestri e impiegati riescono ad avere oggi non è
significativamente migliore di quello che aveva un operaio specializzato vent'anni
fa.
In secondo luogo l'appartenenza ad una stessa classe sociale può
nascondere comunque forti variazioni e disparità nelle condizioni di vita, oggi più
di una volta. Per esempio, all'interno della stessa categoria di avvocati o farmacisti
vi sono alcuni che per anni restano inchiodati a redditi bassissimi o sono costretti a
fare lavori sotto qualificati, e altri che in breve tempo raggiungono livelli retributivi
altissimi.