2
che gli elementi inconciliabili della cultura, l’arte e lo svago, vengono ridotti, attraverso
la loro comune subordinazione allo scopo, a un solo falso denominatore: la totalità
dell’industria culturale» (Horkheimer, Adorno 1997, 144). Ogni pretesa dichiarata di
diffondere la “buona musica” era ideologica in quanto faceva leva sull’incapacità degli
ascoltatori odierni di riconoscere soggettivamente la validità estetica delle opere tramite
un’esperienza diretta, lunga e meditata con esse (ascolto strutturale). Al contrario gli
ascoltatori basavano ed accettavano il valore delle opere musicali sulla base di criteri
esterni come il prestigio sociale e la notorietà o le indicazioni dei presentatori delle
trasmissioni radiofoniche (Adorno 2006). Ed era proprio il mezzo radio, mezzo di
comunicazione di massa al servizio dell’industria capitalistica, ad essere, in quanto luogo
di profittto economico, il principale responsabile dell’alienazione estetica delle opere, del
presente e del passato. Trasmessa alla radio, e presentata in forma spezzata, la “buona”
musica seria diventava così incapace di critica alle contraddizioni del sistema sociale
esistente e all’inautenticità dei rapporti di potere presenti nella società capitalistica.
Nonostante la profondità, la complessità e l’attualità degli assunti adorniani riguardo al
ruolo e alle funzioni della musica, soprattutto popular, nella vita moderna, il sociologo
tedesco sembra tuttavia aver conferito troppo peso al versante della produzione
(industriale) musicale, derivando per determinismo anche quella del consumo e della
ricezione. Appare chiaro, da quanto riassunto fino ad ora, come questa intepretazione
lasci poco margine di libertà all’ascoltatore e poca fiducia nella sua capacità di costruire
la significatività dell’esperienza estetica, anche utilizzando mezzi di riproduzione sonora
e indipendentemente dall’oggetto culturale di cui dispone. Questa prospettiva ha impedito
ad Adorno di riconoscere nei decenni anche solo la remota possibilità che forme musicali
di massa come il jazz e il rock potessero assumere uno spessore culturale o un’autentica
funzione sociale. Ancora negli anni Sessanta egli considerava finta la pretesa del jazz di
presentarsi come musica d’arte e vedeva nella musica rock solo un riflesso della
macchinazione dell’industria discografica che abbassava il livello critico degli ascoltatori
e, aggiungeremo noi, dei performers che si improvvisano musicisti attraverso
l’autodidattismo.
Per questo gli studi sulle sottoculture musicali hanno avuto il merito di rilevare ed
analizzare, in alcuni gruppi sociali giovanili, residui e interstizi di opposizione e
3
resistenza alla società dei consumi, proprio attraverso un utilizzo alternativo e opposto
delle forme culturali e dei sistemi simbolici prodotti dall’ industria culturale (Hedbidge
1970; Frith 1982; Middleton 2007, pp. 220-235). Il loro merito è stato quello di aver
riconosciuto alla musica (popular in primis) un valore identitario, soprattutto nel caso di
alcuni gruppi devianti, riscattandola così dalla concezione di strumento di manipolazione
delle coscienze tradizionalmente attribuitole dalla critica di massa adorniana. Oltre ai
pregi, le teorie sottoculturali contengono però alcuni grossi limiti. In primo luogo, esse si
sono focalizzate su casi molto specifici, come le culture spettacolari dei punk o dei mod,
e sullo studio della musica come simbolo di costruzione identitaria da parte di questi
gruppi devianti. Perciò non prendono in considerazione altre funzioni e condizioni di
utilizzo della musica e non ci dicono nulla su come la musica venga “pensata”, esperita
ed utilizzata dalla maggior parte delle persone “non devianti” nelle varie situazioni della
vita quotidiana. Un altro grosso limite è quello di aver condiderato troppo spesso la
musica come testo o pratica che rispecchiava valori, significati e posizioni di certi gruppi
sociali, senza tuttavia precisare ed informare circa i modi in cui la musica stessa
contribuiva a determinare e costruire quei valori e quei significati. Dunque molto spesso
le conclusioni di tali teorie hanno mostrato un’eccessiva generalizzazione, poiché erano
più interessate a rispondere e risvolvere sul piano teorico una presunta omologia tra
scelte stilistiche e condizione sociale deviante da un lato, e la loro posizione subalterna
nella struttura sociale dall’altro, piuttosto che a presentare e studiare empiricamente
l’interazione gruppi-musica.
Il corrente lavoro utilizza, creando un punto di convergenza, i due estremi della “grande
sociologia” adorniana da una parte, con i suoi preziosi spunti metodologici e teorici, e
quello ristretto e localizzato delle “piccole” ricerche etnografiche della nuova sociologia
dall’altra (De Nora 2000 e 2003), passando per i suggerimenti ricavati dagli studi delle
teorie sottoculturali. Secondo i termini proposti dalla sociologa americana Tia Denora si
possono individuare infatti « ... una “grande tradizione” di sociologia dell’arte ... basata
sulla decodifica di significati sociali a partire dalla lettura stessa, interna, delle opere
artistiche, e una “piccola tradizione”, che opera su scala micro con ricerche empiriche
dettagliate e sul campo indagando i processi di produzione e consumo artistico» (Santoro
4
2004a, 40). Le definizioni “grande” e “piccola” tradizione si riferiscono dunque ad un
diverso modo di fare ricerca.
Lo scopo della mia ricerca è stato quello di far dialogare le due tradizioni della “grande”
e della “piccola” sociologia della musica, usando concetti, categorie e suggestioni della
prima per cercare di catturare quello che succedeva su scala micro in un preciso contesto
socio-musicale. Compiendo questa operazione ho potuto valutare quanto la grande
tradizione possa essere utile per porre interrogativi e risolvere apparenti contraddizioni
dalle testimonianze racccolte o dalle situazioni osservate. Nello stesso tempo però essa
non è sufficiente a rendere conto della complessità della vita musicale in un territorio
come quello da me studiato. Infine con la mia ricerca ho messo alla prova una serie di
metodi e strumenti ripresi dalla più recente sociologia della musica di impostazione
etnografica, quella che DeNora appunto chiama la “piccola” tradizione della sociologia
dell’arte (Hennion 2000; De Nora 2003).
In particolare l’intento del mio lavoro era quello di rilevare e analizzare le idee, i punti di
vista e le testimonianze dei musicisti di un contesto locale in merito ad alcuni argomenti
come il rapporto con la musica suonata e spesso anche composta, quello col pubblico, o
meglio coi pubblici, e infine con il mondo dell’industria discografica e delle istituzioni
pubbliche e private.
La località scelta per questo studio di caso è stata Imola, cittadina della provincia
bolognese che ho potuto conoscere durante l’attività di Servizio Civile Nazionale, svolta
nell’anno accademico 2006/2007 presso l’Ufficio Progetto Giovani e il centro musicale
Ca’Vaina.
I metodi utilizzati nella ricerca sono sostanzialmente tre: interviste qualitative; raccolta e
analisi di documenti (dell’Ufficio Progetto Giovani del Comune, del centro Ca’Vaina, dei
gruppi musicali e dei vari operatori culturali della città); infine la mia stessa esperienza ai
tempi del Servizio Civile, in particolare i due mesi passati all’interno di Ca’Vaina, che mi
hanno permesso di avvalermi almeno in parte di quello che antropologi e sociologi
chiamano “osservazione partecipante”.
Gli intervistati sono musicisti, residenti a Imola e dintorni, che suonano in gruppi, scelti
sia dal mondo della musica popular e/o rock, sia da quello della musica colta e jazz. In
5
particolare questi due ultimi generi sono stati accorpati in un unico capitolo (cfr. cap.5)
poiché nel contesto locale studiato i musicisti jazz incontrati risultano più avvicinabili al
mondo della musica colta che non a quella popular (cfr. cap. 3).
Il concetto di mondi musicali di Howard Becker (1982 trad. it. 2004a, 17-84), e le sue
successive applicazioni pratiche a contesti socio-geografici specifici da parte di
H.S.Bennett (1980), R. Finnegan (1989) e S. Cohen (1991)
1
mi ha permesso di conferire
legittimità di esistenza a tutti i mondi musicali operanti nel territorio preso in esame,
partendo dalla considerazione che il concetto di musica e far musica che ognuno di essi
esprime, non è da intendersi in senso assoluto, ma come qualcosa di culturalmente
costruito, quindi come modi diversi di vivere, organizzare ed intendere la musica.
2
L’analisi comparata tra i gruppi di musica rock, le formazioni di musica colta e le jazz
band non ha voluto sottovalutare le molteplici differenze esistenti tra i rispettivi mondi di
appartenenza. Questa operazione inoltre non ha permesso di avere una percezione
completa ed eterogenea dell’universo-musica nella costellazione delle attività sociali
della città presa in esame. Molti mondi e molti soggetti ed istituizioni musicali della città
imolese sono stati infatti del tutto ignorati.
In particolare mi interessava scoprire se la considerazione di Adorno, ovvero che la
divisione convenzionale tra una musica “alta” ed una “bassa” feticizza il loro essere
entrambe prodotti mercificati, fosse o meno dimostrabile nel contesto culturale
considerato. I musicisti dei due collettivi confermano in generale alcune tendenze
mistificatorie già rilevate in tutt’altra sede e con tutt’altro respiro da Adorno. Durante il
corso di questo lavoro vedremo, per ognuno dei rispettivi campi, in che modo queste
considerazioni emergono e in quali occasioni vengono “tradite” e smentite (descrizione
della storia del gruppo musicale, organizzazione delle scalette dei concerti etc.). Le
testimonianze degli intervistati sono state considerate sintomi di tendenze sociali
1
Cohen in realtà utilizza il concetto di “scena”. La scena prevede, all’interno di un contesto urbano
specifico, che diversi soggetti si radunino e si sentano in qualche modo legati tra loro da simili visioni
culturali, che sono frutto di pratiche di codifica dello spazio in cui i soggetti vivono e che si esternano con
la produzione di attività culturali. Per approfondimenti sul concetto di scena e alcuni esempi di
applicazione pratica cfr. Straw 1991; Cohen 1991, pp. 9-20 e 1999; Bennet e Peterson 2004.
2
I contrasti e le differenze del music-making collettivo all’interno dei vari mondi musicali presenti in un
territorio non considerano solo la musica praticata, ma anche e soprattutto le diverse convenzioni sociali
che regolano in ognuno il modo di imparare, comporre, suonare, strutturare, concepire, valorizzare e
diffondere il music-making (Finnegan 1989).
6
dominanti o di implicazioni ideologiche da svelare attraverso il “metodo del sospetto”
(cfr. cap. 1) adottato da Adorno nell’ambito di quella che Serravezza ha definito
“sociologia della funzione” (Serravezza 1976, 87-105). Per ognuno dei mondi analizzati
ci si è anche avvalsi del contributo di una letteratura che ci ha fornito gli schemi
concettuali per comprendere e contestualizzare meglio tali dichiarazioni.
3
Il metodo del
sospetto permette di demistificare l’inautentico (Serravezza 1976, 94-95), ovvero, nel
nostro caso, di cogliere le contraddizioni più o meno sottili nei discorsi dei musicisti. Si
abbandonerà tuttavia l’intepretazione apocalittica adorniana, considerando
semplicemente queste contraddizioni come il risultato di una rinegoziazione continua tra
le aspirazioni e i bisogni economici e culturali del singolo musicista o del singolo gruppo
e l’insieme delle opportunità materiali e ideali che regolano il fare e il concepire la
musica all’interno del particolare mondo musicale di riferimento. In particolare il
concetto di “campo” del sociologo francese Pierre Bourdieu (2001, 233-267) è stato lo
strumento che mi ha permesso di considerare sia le opportunità sia i limiti che stanno alla
base di ogni azione o giudizio musicale espresso dai miei intervistati. Per Bourdieu infatti
la società è costituita da un numero imprecisato di campi e ognuno di essi è un
microcosmo sociale relativamente autonomo, caratterizzato da proprie regole del gioco,
modelli di percezione e valutazione, tecniche, gerarchie di legittimità, istituzione etc. A
seconda della quantità di capitale economico, sociale e culturale posseduto da ogni attore
o gruppo sociale, il campo rappresenta dunque uno spazio di possibilità materiali e
simboliche dentro cui definire le proprie azioni, le proprie scelte, i propri valori e le
proprie percezioni. Attraverso lo strumento concettuale del “campo” Bourdieu cerca di
conciliare realtà oggettiva e percezioni soggettive, considerandole entrambe costitutive
della struttura e dei rapporti di forza che caratterizzano un particolare campo di
riferimento.
3
In particolare per quanto riguarda il mondo rock è stato utilissimo il concetto di “ideologia folk nel rock”
analizzata e descritta dal sociologo inglese Simon Frith (1981a e 1982). “L’ideologia folk nel rock” è nata
negli anni Sessanta per conferire al genere uno status politico e artistico maggiore e per trasformarlo in una
forma di espressione antitetica ad una generica musica pop e commerciale. Il rock come musica folk non si
riferisce quindi al modo di produzione musicale, ma assume il significato di way of life, di insieme di valori
che una comunità di ascoltatori condivide. L’ideale folk, che descrive valori come la partecipazione attiva,
la condivisione collettiva e l’onestà, rischia tuttavia di non tenere conto del fatto che l’industria musicale si
è mossa fin da subito per controllare e corrompere i risultati del rock come musica della controcultura
(Frith, 1982, p. 196).
7
Il risultato dello studio sui musicisti locali è stato duplice: da una parte ha permesso di
rilevare le novità, le differenze e le eccezioni rispetto alla rigidità dei paradigmi e dei
modelli interpretativi adorniani; dall’altro ho potuto spiegarle e collegarle alle peculiarità
del contesto socio-culturale.
Due metà di una stessa totalità, significa infatti comprendere anche la posizione che
ciascun mondo, scena o collettivo musicale considerato occupa all’interno della vita
sociale imolese. L’attività dei musicisti dei diversi mondi locali poteva far emergere
come quest’ultima rifletteva non solo le tendenze sociali dominanti della società generale,
ma anche quelle più specifiche e territorialmente radicate del luogo in cui si sono formati
come musicisti e cittadini (Cohen 1999; Finnegan 1989).
4
Nonostante questo intento
iniziale è stato però piuttosto difficile riuscire a rilevare corrispondenze o rapporti di
reciproca determinazione e influenza tra musica e contesto locale. La maggior parte delle
formazioni di musica “colta” e jazz, così come alcuni gruppi e/o musicisti popular
semiprofessionisti e professionisti, raramente sono composti da membri provenienti tutti
dalla stessa città, o almeno da zone limitrofe, e la loro attività concertistica solitamente è
più prolifica altrove, fuori provincia o fuori regione. L’analisi del binomio
musica/contesto locale è risultato più facile nel caso dei gruppi musicali rock di base, la
cui attività risulta più ancorata al territorio imolese. Per questo motivo il paragrafo
dedicato alla scena rock sarà l’occasione per approfondire alcuni temi e problematiche
locali (cfr. par. 4. cap. 4).
Ci sono alcune domande che hanno accompagnato la mia ricerca: cosa vuol dire essere un
musicista di musica “colta” a Imola al giorno d’oggi? E di musica jazz? E cosa vuol dire
essere musicista rock invece? Cosa impedisce che la musica “colta” o jazz sia largamente
diffusa e praticata anche dagli amatori e cosa, al contrario, impedisce che la musica rock
diventi il pretesto della crescita musicale per molti aspiranti musicisti? Quali sono le
condizioni e i limiti materiali, economici, formativi che determinano queste differenze? E
in che modo sono collegate al modo di concepire, giudicare e organizzare queste diverse
realtà musicali?
4
La musica locale infatti non è solo il prodotto di soli individui, bensì appare strutturata in base ad una
serie di convenzioni culturali e di pratiche organizzate in cui sia la comunità sia le scelte e le percezioni dei
singoli individui, in qualità di musicisti, giocano una parte (Finnegan 1989).
8
Amatore e professionista, così come il fatto che la prima condizione sia più diffusa nel
mondo rock mentre la seconda sia imperante in quello della musica classica, indicano una
differenza non solo di aspirazioni e esigenze, ma anche di capacità e di possibilità di
coltivarle. A loro volta però sono sintomatiche dei diversi modi in cui la musica nella sua
totalità è suddivisa e gerarchizzata, considerata e studiata, vissuta e praticata dentro la
realtà, concretissima, delle istituzioni, delle scuole, dei programmi scolastici e delle
manifestazioni culturali della città analizzata.
9
CAPITOLO UNO
Adorno, la teoria critica della società, la popular music,
l’industria culturale.
1.1. Adorno e la Scuola di Francoforte
La maggior parte dell’attività intellettuale di Theodor Wiesengrund Adorno (1903 –
1969) si inscrive all’interno delle coordinate di ricerca sociale della Scuola di
Francoforte.
1
Con questo termine ci si riferisce ad un gruppo di intellettuali tedeschi
costituitosi a partire dall’inizio degli anni Trenta, il cui scopo era di studiare i fenomeni
sociali attraverso l’adozione di un nuovo modello di analisi definito sociologia critica
(detta anche teoria critica della società).
La teoria critica della società, come critica militante, si proponeva di operare «una
diagnosi delle patologie di una deteminata forma di organizzazione sociale» (Donaggio
2005, XV) attraverso l’applicazione delle categorie dell’idealismo hegeliano e del
materialismo storico, coniugandoli con quelle della psicoanalisi freudiana e con i risultati
empirici delle nuove ricerche sociali. Rispetto al marxismo ortodosso, il movimento era
caratterizzato dallo spostamento dell’interesse « ... dalla storia del movimento operaio ad
una teoria interdisciplinare della società in cui la costruzione filosofica non fosse
dissociata dalla ricerca empirica» (Donaggio 2005, XXII).
I suoi esponenti infatti non credevano più che la razionalità, scaturita dalle forze
produttive capitalistiche, fosse espressa dalla classe operaia. Nato per dimostrare la
necessità del socialismo, il materialismo storico doveva ora spiegarne il mancato avvento
1
Per informazioni più approfondite sulla Scuola di Francoforte rimando al testo
E. Donaggio (introduzione e cura di), La scuola di Francoforte. La storia e i testi. Einaudi, Torino, 2005.
Nella sezione finale è possibile trovare una bibliografia ragionata sulle pubblicazioni italiane e straniere più
accreditare riguardanti la Scuola di Francoforte in generale e più nello specifico ogni suo singolo
esponente, con relative opere.
10
e la crescente integrazione della classe operaia nel sistema capitalistico monopolistico
che ne aveva affievolito la coscienza rivoluzionaria.
La teoria critica della società cercava perciò di investigare i meccanismi psicologici
attraverso i quali si mantenevano latenti le tensioni fra le classi, che invece, nella
situazione economica atttuale, si sarebbero dovute trasformare in conflitti sociali. Per
comprendere come avveniva questo accomodamento della classe operaia rispetto al
sistema capitalistico, si ritenne necessario uno spostamento di interesse dalla struttura
produttiva alla cultura, intesa marxianamente come sfera sovrastrutturale e variabile
dipendente dalla prima.
Uno dei principali terreni di indagine che mossero il lavoro della Scuola di Francoforte
per tutto il decennio degli anni Trenta fu quello dell’analisi degli effetti della cultura di
massa sulle coscienze, attraverso lo studio dei nuovi mezzi di comunicazione (radio e
cinema), dei loro effetti sulle caratteristiche formali e sulla fruizione di prodotti diffusi
(popular music) e in generale attraverso lo studio dei meccanismi di funzionamento
dell’industria culturale. Il bisogno di studiare la cultura nelle sue diverse manifestazioni
era reso necessario dal fatto che i nuovi mezzi di comunicazione di massa erano al
servizio e di proprietà di poche e potenti agenzie ed erano stati tra le principali cause
dell’avvento e del consolidarsi dei regimi totalitari.
Principale esponente di questa linea di ricerca fu Theodor Wiesengrund Adorno, filosofo,
musicista e sociologo
2
che trovò nella musica il terreno di ricerca privilegiato per studiare
gli effetti che la società capitalistica totalitaria e omologante otteneva sulla forma e la
funzione dell’opera musicale.
Nello stesso tempo lo studio della musica, nelle sue caratteristiche formali e nelle sue
modalità di produzione, distribuzione e ricezione, avrebbe permesso di ricostruire i giochi
di forza e i rapporti sociali dominanti della società in cui essa nasceva. La musica
diventava così una «cifra socio-culturale, spia visibile di una realtà sociale in sé
invisibile» (Santoro 2004a, 15).
Secondo Adorno la musica come artefatto culturale aveva un ruolo fondamentale nel
contribuire da una parte, nel caso della “buona” musica seria, al cambiamento e al
2
Come sottolinea Marco Santoro «Adorno si è considerato a lungo un filosofo e un musicista, non uno
scienziato sociale» (Santoro 2004a: 13) anche se al suo arrivo negli Stati Uniti la sua fama era legata di
fatto ai primi studi dedicati all’analisi sociale critica della musica nella società moderna.
11
progresso, o dall’altra, nel caso della musica popular “non buona”, a incatenare l’uomo
nella sua condizione sociale, alienata e infelice.
Negli anni successivi ai disastri provocati dai regimi totalitari e dalla seconda guerra
mondiale, il movimento Francofortese fu caratterizzato da un atteggiamento più
pessimistico nei confronti della possibilità di un’emancipazione individuale che avrebbe
permesso di liberarsi per sempre dal capitalismo monopolistico. Adorno, esponente
principale di questa nuova fase della teoria critica, e profondamente segnato dal nazismo
e dal conseguente esilio negli Stati Uniti, abbandonò la concezione di progresso tipica del
materialismo storico e nella Dialettica dell’Illuminismo (1997), redatta insieme al
collega, nonché leader del movimento francofortese Max Horkheimer, interpreta i
totalitarismi come il risultato del processo di civilizzazione e di progressiva
razionalizzazione.
In questa prospettiva i totalitarismi, di pari passo con il capitalismo monopolistico e
l’industria culturale al loro servizio, erano in realtà lo stadio finale di una sorta di logica
della rovina connaturata all’esistenza umana stessa, visibile nel bisogno dell’uomo di
soggiogare la natura. Il culmine di questo processo, rapppresentato dal dominio
dell’uomo sull’uomo, si era raggiunto con i totalitarismi e con la follia dell’olocausto.
Forse è proprio considerando questo percorso esistenziale e filosofico che si può
comprendere meglio la critica costante che Adorno ha mosso sia alla popular music, in
quanto prodotto culturale dell’industria del divertimento ad alta concentrazione di
capitale, sia ai moderni mezzi di comunicazione di massa che la diffondono. Adorno,
musicista e musicologo legato alla tradizione culturale dell’idealismo hegeliano e a quella
musicale del sinfonismo tedesco, ha il merito innegabile di essere stato l’iniziatore dello
studio della popular music e tra i primi (insieme all’amico e collega Walter Benjamin) a
costruire una teoria (critica) del funzionamento e degli effetti sociali della radio e del
cinema.
Tuttavia colpisce il fatto che egli non abbia mai rivisto le sue posizioni critiche (con la
parziale eccezione del cinema)
3
, neanche dopo i cambiamenti avvenuti negli anni sia
3
A differenza dell’amico e collega Walter Benjamin che aveva intravisto nei nuovi media la possibilità di
sviluppare nuovi linguaggi e nuove espressioni artistiche, Adorno era convinto che una forma culturale
come il cinema « ... era imperfetta proprio perchè priva di qualsiasi traccia significativa di una tecnica
artistica individuale » (Jay 1984, 135). Successivamente però egli « ... si rivolse proprio al cinema durante
12
all’interno di quelle stesse forme culturali (si pensi al jazz), sia nell’atteggiamento di
studio nei loro confronti
4
.
1.2. Adorno: la vita e le opere
Theodor Wiesengrund Adorno nasce a Francoforte nel 1903 da un commerciante ebreo e
da una madre di origini genovesi, che gli trasmise la passione per la musica. Nel 1924 si
laurea in filosofia con una tesi sulla fenomenologia di Husserl e nel 1931 è libero docente
all’Università di Francoforte. Studia musica a Vienna, sotto la guida di Steuermann e di
Alban Berg. L’anno successivo entra in contatto con l’Istituto di Ricerca Sociale; nel
1933, l’ascesa del nazismo al potere lo priva dell’insegnamento e lo costringe all’esilio.
La sua prima tappa sarà Parigi, dove nel 1936 co-dirigerà l’Istituto, che nel frattempo si
era trasferito lì. Nel 1938, dopo un breve soggiorno a Oxford si trasferisce a New York.
Nel 1947 pubblica, insieme con Horkheimer, Dialettica dell’Illuminismo; nel 1950
coordina la pubblicazione della ricerca La personalità autoritaria; nello stesso anno
rientra in Germania e riprende le attività all’interno dell’Istituto. L’anno successivo
pubblica Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, osservazioni sulla vita
inautentica suggeritagli dall’incontro con la realtà americana, alle quali aveva cominciato
a lavorare fin dal suo arrivo a New York. Nel 1966 pubblica Dialettica negativa e nel
1969 muore in Svizzera di attacco cardiaco.
Tra i suoi principali scritti musicologici ricordiamo, in ordine cronologico di
pubblicazione: Filosofia della musica moderna (1949); Dissonanze (1956); Mahler. Una
fisiognomica musicale (1960); Introduzione alla sociologia della musica (1962); Il fido
maestro sostituto (1963); Momenti musicali (1964); Beethoven. Filosofia della Musica
(1993).
l’ultimo periodo della sua vita per trovarvi sollievo dagli effetti inesorabilmente soffocanti dell’industria
culturale » (Jay 1984, 136).
4
Ne è riprova il fatto che il saggio Sul carattere di feticcio in musica e il regresso dell’ascolto scritto
originariamente nel 1938, viene ripubblicato vent’anni dopo senza cambiamenti sostanziali all’interno della
raccolta Dissonanze (1990). Il lavoro Sul Jazz (1936) viene ripubblicato con pochissimi cambiamenti nel
1964; e infine che il capitolo sulla Musica Leggera nell’opera Introduzione alla sociologia della musica del
1962, contiene le stesse tesi di fondo, ampliate e integrate, del saggio On popular Music del 1941.
13
Tra i più importanti lavori dedicati alla popular music e all’industria culturale si hanno
invece, sempre in ordine cronologico di pubblicazione: Sul Jazz (1937)
5
; Sul carattere di
feticcio in musica e la regressione dell’ascolto (1938)
6
; L’industria culturale. Quando
l’illuminismo diventa mistificazione di massa (1944)
7
; Current of music (2006). In
quest’ultimo sono contenuti, tra gli altri, due lavori di capitale importanza e già da
decenni in circolazione come testi autonomi: On Popular Music e A Social Critique of
Radio Music.
Innanzi tutto cercheremo di ricostruire le idee fondamentali della teoria critica adorniana
alla cultura di massa e alla popular music, così come si presentano nei quattro saggi citati
sopra: Sul carattere di feticcio in musica e la regressione dell’ascolto, On Popular
Music, A social critique of Radio Music, l’Industria culturale.
Più avanti ci soffermeremo su alcune considerazioni riguardanti più nello specifico la
differenza tra il tipo di ricerca critica adorniana e la ricerca di tipo amministrativo e altre,
ancora più importanti per il nostro studio, sulla differenza tra musica seria e popular
music per Adorno.
5
Si tratta di un saggio, pubblicato nella Zeitschrift fur Sozialforschung con lo pseudonimo di Hektor
Rottweiler, dedicato appunto al jazz e di cui però, è bene ricordare, Adorno aveva una conoscenza parziale
e in gran parte mediata dalla situazione musicale della Germania Weimeriana degli anni Venti (Santoro
2004a, 15). Il saggio è importante perché rappresenta la prima analisi di Adorno dedicata ad una forma
musicale non colta. Verrà ripubblicato con leggere variazioni nel 1964. Le tesi principali di Adorno erano
che il jazz, intesa all’epoca come musica da ballo, era una forma culturale le cui radici erano da ritrovare
nella musica di intrattenimento da sala e nelle marce militari. Nonostante si richiamasse alla musica nera,
essa era in realtà una merce standardizzata, mascherata dalle improvvisazioni solistiche e da altri elementi
apparantemente estemporanei e spontanei. Per approfondimenti sui rapporti tra Adorno e il jazz cfr. anche
Witkin (1998, 160-180).
6
È il saggio che inaugura, dal punto di vista delle pubblicazioni, il soggiorno americano di Adorno.
Pubblicato nella Zeitschrift fur Sozialforschung, è stato poi ripubblicato in Adorno, Dissonanzen (1957)
[Trad. it. T.W.Adorno, Dissonanze, Einaudi, Torino, 1997].
7
Il lavoro costituisce la terza sezione dell’opera M. Horkheimer, T.W.Adorno, Dialettica dell’Illuminismo,
Einaudi, Torino, 1997 [orig. Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente, Social Studies Ass. inc.,
New York, 1944].
14
1.3. Adorno, il carattere di feticcio della musica moderna e la
regressione dell’ascolto.
Pur non essendo il primo lavoro di Adorno sull’argomento Sul carattere di feticcio in
musica e la regressione dell’ascolto (1938)
8
anticipa alcune delle idee che verrano poi
riprese nei saggi successivi, in particolare in On Popular Music. L’articolo fu scritto in
risposta allo studio dell’amico e collega Walter Benjamin L’opera d’arte nell’epoca della
sua riproducibilità tecnica (1936 trad.it.2000).
Nel saggio viene ripreso il concetto di reificazione elaborato da Lukács a partire dalla
categoria marxiana di feticcio della merce, e coniugato col concetto psicoanalitico di
regressione.
9
(esplicito, già nel titolo è il riferimento al paragrafo del Capitale di Marx
Carattere di feticcio della merce e suo arcano).
Il saggio è suddiviso in due parti, corrispondenti alle due sfere interrelate della
produzione, che Adorno descrive appunto in termini di feticismo della vita musicale
moderna, e dell’ascolto, caratterizzato dalla regressione, ovvero dal ritorno ad uno stadio
di sviluppo infantile, o meglio infantilistico. La merce-musica provoca dunque anche un
decadimento delle capacità fruitive degli ascoltatori e il paradigma della fruizione estetica
moderna è rappresentata dall’ascolto distratto (Serravezza 1976, 118-119). Il sociologo
vuole estendere al campo culturale ed artistico, appannaggio della categoria del gusto e
della libera scelta, un metodo di indagine derivato dall’analisi marxiana, solitamente
applicato allo studio di fenomeni di base della società come quello economico. In questo
modo pone una frattura con la critica idealistica di tradizione kantiana e hegeliana.
Questo metodo è necessario secondo Adorno perché ormai è « ... la violenza dei rapporti
sociali che condiziona oggettivamente ... il giudizio espresso dal singolo» (Manzoni
8
Il saggio è stato ripubblicato all’interno della raccolta Dissonanzen solo con piccole variazioni. Come lo
stesso autore sottolinea nella prefazione all’opera, l’articolo, nato dalla consapevolezza di « ... certe
modificazioni antropologiche ...» è stato riedito a distanza di anni dalla sua prima uscita, solo
modificandone particolari trascurabili, con la spiegazione che « ... l’attualità di un pensiero resta valida
anche se non reca elementi di novità informativa» (Adorno 1990: 2).
9
Il termine reificazione vuol dire letteralmente “diventare una cosa” e all’interno della filosofia marxista
descrive il processo attraverso il quale l’uomo si astrae da se stesso per divenire semplice cosa tra le cose,
in questo modo soggiacendo alle stesse leggi di mercato alle quali rispondono gli oggetti che egli produce
con il suo lavoro. In senso generale quindi riguarda quel processo di progressiva oggettivizzazione e
materializzazione di un concetto astratto, misurabile in termini di valori di mercato.
15
1990, VIII). Nella situazione sociale attuale il diritto alla libertà di una scelta è
empiricamente impossibile (Adorno 1990, 9) e quando, come nel caso di un ballabile di
successo, la sua popolarità prende il posto del valore che gli viene riconosciuto e i giudizi
di gusto tendono a tenere in considerazione questa popolarità, viene il sospetto che
piacere e non piacere siano concetti inadeguati al dato reale (Adorno 1990, 10). Inoltre,
se il successo musicale, anche quello di un Toscanini, si ricava dalla reificazione del
valore di scambio della musica, divenuto il vero oggetto di godimento al posto della
musica stessa, allora non ha più senso parlare di una differenza tra una cultura/musica
alta e una “bassa”.
Per Adorno « ... è illusoria l’idea di separarle statisticamente come fanno
occasionalmente codesti custodi della cultura ... » (Adorno 1990, 15).
Adorno in questo lavoro critica il potenziale democratico della musica riprodotta e
trasmessa dai moderni mezzi di comunicazione di massa (Santoro 2004a, 17) e denuncia
lo stato di mercificazione di tutta la vita musicale all’epoca del capitalismo industriale
avanzato. In realtà, come fa notare Serravezza (1976) la critica di Adorno non era tanto
rivolta alla mercificazione della musica in sé: non necessariamente infatti il carattere di
merce della musica implica la sua degenerazione feticistica (Ivi, p.108-109). Il problema
per Adorno si poneva là dove la merce-musica occultava e si dichiarava lontana e avulsa
da ogni scopo di profitto economico. La musica infatti, insieme a tutti gli altri beni
culturali e a differenza degli altri beni “normali”, è una merce atipica in quanto è
considerata rilevante non a partire dalla quantità di valore di scambio che possiede ma
proprio per la sua apparente assenza. Di conseguenza secondo Adorno più la musica si
presenta “pura” dagli intenti commerciali e distante dal mondo del denaro, più al
contrario occulta il suo carattere di merce (Serravezza 1976, 116)
10
.
10
Rimando al lavoro di Serravezza (1976, pp. 106-119) per un approfondimento riguardo alle convergenze
e alle differenze che caratterizzano l’analisi economica di Marx e Lukács sul feticcio della merce a quella
socio-musicologica del carattere di feticcio della musica proposta da Adorno.