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volta in volta si avvicendavano sul palco reale, contribuendo al
fasto e all’apertura culturale che divennero le prerogative principali
della corte.
Meno di un secolo dopo, nel 1642, un editto puritano chiuse i
teatri, atto che segnò l’inizio di una parentesi rivoluzionaria che
avrebbe portato alla decapitazione di Carlo I e alla instaurazione
del regime puritano.
I venti anni che seguirono a questo evento furono ricchi di
stravolgimenti politici ma poveri dal punto di vista artistico, data
l’istanza che prevedeva la chiusura delle playhouses, con il
conseguente imprigionamento di chiunque avesse continuato a
mettere in scena qualsiasi tipo di dramma.
Molti attori presero un’altra strada, altri emigrarono all’estero per
continuare la propria professione senza restrizioni, tuttavia alcuni
teatranti non accettarono passivamente il diktat puritano,
opponendosi a tale sopruso con delle petizioni e tentando di
riorganizzare, in maniera latente, le compagnie.
L’anno 1660 sancì la fine di tale periodo di austerità, che aveva
danneggiato in maniera cospicua non solo la produzione teatrale,
ma anche l’approccio del pubblico verso il teatro stesso e l’inizio
di un nuovo modo di concepire quest’ultimo. Era la Restaurazione.
Carlo II sbarcò a Dover portando con sé la cultura francese e un
progetto di rinascita, che comprendeva tanto l’ambito socio-
politico quanto quello culturale.
Lo stesso sovrano prese in mano le redini del controllo teatrale e
creò due compagnie di recitazione, quella dei Duke of York’s Men
e quella dei King’s Men. La prima venne gestita da William
Davenant e la seconda da Thomas Killigrew, poiché entrambi
5
avevano dato dimostrazione di fedeltà al sovrano e si erano distinti
per qualità ammirevoli nell’allestimento di spettacoli teatrali.
Il re si riservò per altro il diritto di limitare la satira politica e
religiosa, mentre si dimostrò più liberale riguardo agli argomenti
erotici.
I teatranti si affannarono nel tentativo di allestire nuovi spettacoli,
scontrandosi, però, con una situazione profondamente cambiata.
L’atteggiamento della gente nei confronti del teatro si era infatti
trasformato durante gli anni di assenza dalle rappresentazioni. I
teatri, che un tempo traboccavano di un pubblico esigente, adesso
apparivano vuoti e la parte di popolazione che si riservò il piacere
di un dramma divenne quasi subito una classe borghese elitaria,
vicina alla corte e ai gusti artistici del sovrano.
I teatri stessi, d’altro canto, si erano ridotti notevolmente, poiché
inutilizzati e quindi divenuti inagibili. All’inizio le compagnie
trovarono come sedi adatte alle proprie rappresentazioni le sale da
tennis, le tennis courts, ma ben presto si rese necessario il
trasferimento in locali più adatti alla recitazione, per cui nel 1674
venne inaugurato il nuovo Theatre Royal, ad opera del più grande
architetto della Restaurazione, Christopher Wren.
Anche la struttura del teatro cambiò nettamente rispetto al
passato, sia a livello architettonico che formale.
A livello formale, il teatro si avvicinò sempre di più alle
caratteristiche continentali, che prevedevano un maggior distacco
tra pubblico e attori. Tale distacco veniva creato per mezzo di un
proscenio aggettante sulla platea per la lunghezza di circa cinque
metri e il sipario venne a costituire una sorta di quarta parete che
separava coloro che recitavano da coloro che assistevano.
6
Il proscenio così congegnato risultava di dimensioni ridotte
rispetto al proscenio elisabettiano ed era dotato di porte che si
aprivano per mostrare uno scenario decorato, in modo da poter
cambiare la scena senza che si abbassasse il telone e gran parte
dell’azione aveva luogo in quello spazio-ridotto ma sempre
importante-che si trova di fronte al proscenio. Nel teatro
elisabettiano, invece, la prospettiva era caleidoscopica, in quanto la
piattaforma si protendeva verso il pubblico quasi a volerlo
coinvolgere nell’azione. Tale effetto di partecipazione allo
spettacolo, nel teatro elisabettiano, veniva creato anche dalle scene
fisse, che nel teatro della Restaurazione vennero invece sostituite
da quelle mobili, che agevolavano la funzione del cambio
d’ambiente. La novità delle scene mobili, infatti, veniva incontro
alle nuove esigenze scenografiche dei teatranti, che volevano
stupire il pubblico con costumi esotici, effetti speciali, fondali che
mutavano continuamente e pannelli scorrevoli, in opposizione al
fondale neutro di elisabettiana memoria.
Ovviamente tutti i cambi d’ambiente avvenivano sotto gli occhi
complici del pubblico, cosa che però faceva perdere naturalezza e
realismo alla scena.
Ulteriore cambiamento, che implicò anche una maggiore apertura
alle influenze straniere, fu l’introduzione delle donne sullo stage.
Mentre nel teatro elisabettiano le parti femminili venivano
imprescindibilmente recitate dagli uomini, adesso le donne
cominciarono a ricoprire i ruoli che gli spettavano. Le prime donne
che salirono su un palco non brillavano per virtù e riservatezza, si
trattava piuttosto di popolane semianalfabete che vennero istruite
al comportamento sulla scena e alla recitazione per tale occasione
7
e che quindi non erano abituate a confrontarsi con un pubblico, ma
che riscossero un grande successo tra gli spettatori.
Questo vale per quanto riguarda il teatro come “apparire”. Anche
a livello concettuale, però, il teatro subì una metamorfosi piuttosto
rilevante. Nell’epoca elisabettiana, infatti, il teatro acquisisce una
importantissima funzione di integrazione socio-politica. A
differenza del teatro medievale, relegato ai chiostri medievali e
ridotto a rappresentazioni commemorative dei grandi eventi
liturgici, il teatro risultava, nella seconda metà del XVI secolo, in
una prerogativa urbana, in un’occasione e anche in un mezzo -
forse esclusivo- di espressione e comunicazione dei modi di
pensare e del modus vivendi dei borghesi che avevano in città il
fulcro dei propri affari.
Di fatto, il teatro elisabettiano si era convertito in un fenomeno
autonomo, non solo sociale, ma anche economico ed artistico. La
rappresentazione di un’opera smise di essere una realizzazione
occasionale per trasformarsi in un’attività permanentemente
organizzata da varie figure artistiche , dal regista all’attore, dal
macchinista all’impresario e- monopolio legale o di fatto- la
nobiltà cortigiana.
La messa in scena era un fenomeno sociale, che aveva il suo
background nel mondo mercantile. Si creò quella che oggi viene
chiamata “cultura dello spettacolo”, in cui il successo o il
fallimento davanti ad un pubblico venivano determinati dal
risultato economico dell’impresa.
Dai gusti e dai modi di sentire del pubblico derivavano quindi le
tendenze dell’attività teatrale in cui venivano implicate numerose
persone all’interno della compagnia.
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A Londra ogni giorno, nel pomeriggio, vi era un gran numero di
rappresentazioni, tra le quali vi era una competizione molto forte,
al fine di ottenere il maggior numero di spettatori.
La borghesia era altresì riuscita ad attuare una distinzione di
classe nell’entrata a teatro, il cui biglietto costava la cifra di un
pence per coloro che avessero voluto assistere in piedi alla
rappresentazione, per salire a due pences per coloro che avessero
voluto sedersi e a tre per coloro che avessero voluto un posto
d’onore con le comodità di cuscini e una posizione strategica sia
per vedere che per essere visto.
L’arte drammatica invece, nel periodo elisabettiano, era stata
convertita nella più sociale delle arti. Da una parte quella di più
alta estrazione sociale e maggiore impatto e, contemporaneamente,
di maggiore sensibilità ai modi e alle mode di tutta una trama
sociale che la sosteneva. L’artista andava acquisendo un nuovo ed
un distinto ruolo sociale, grazie al trionfo e la fama che gli
conferivano anche successo economico ed elevata capacità di
relazione sociale.
Il teatro, quindi, risentiva di una rinnovata identità, che veniva ad
unire fortemente realtà del palcoscenico con realtà esterna.
Il teatro elisabettiano credeva nell’equazione MONDO =
TEATRO (e viceversa). Questo voleva dire che il teatro
rappresentava la vita; gli attori, una volta entrati nel personaggio,
mettevano in scena situazioni in cui gli spettatori si identificavano
totalmente, in quanto venivano coinvolti in maniera completa nelle
azioni e nei sentimenti rappresentati. Il pubblico, non essendo
separato fisicamente dalla rappresentazione, in quanto non vi erano
quarte pareti o sipari, non assisteva a quest’ultima, bensì vi
9
partecipava attivamente. A questo proposito si può citare la
famosa strofa che Jaques, il personaggio di As you like it, di
William Shakespeare, pronuncia a riguardo:
“All the world's a stage,
And all the men and women merely players:
They have their exits and their entrances;”( da As you like it, Atto
II, scena VII, The forest)
2
Il teatro della Restaurazione, invece, modificò i propri canoni
cambiando l’equazione in MONDO come TEATRO (e viceversa).
Il teatro, in questa nuova accezione, non aveva adesso lo scopo di
rappresentare il mondo nella sua realtà, ma attraverso dei canoni di
verosimiglianza, di imitazione.
Il significato di un tale cambiamento sta nella differente
concezione che i teatranti attribuivano alla scena, ovvero quella di
un luogo in cui si rappresentava un’idea astratta del mondo
concreto, il quale veniva caricato di simboli e convogliato in
stereotipi fissi. Il pubblico, dunque, non arrivava ad identificarsi
con i personaggi che venivano rappresentati sul palco, ma piuttosto
poteva vedere in essi una caricatura dei propri vizi e delle proprie
virtù e dunque apriva gli occhi su se stesso e sui lati positivi e
negativi della società della Restaurazione.
Tra le figure teatrali più rappresentative della commedia della
Restaurazione possiamo annoverare i “gulls”, che erano
personaggi caricaturali della società borghese neoclassica ed i
“wits”, che invece rappresentavano personaggi normali.
2
William Shakespeare, As You Like it (1599), London, Oxford University Press, 1914.
10
Sicuramente anche il tono recitativo venne coinvolto in tale
visione parodiata della società borghese, tanto che più volte si
parla dell’esagerazione nei gesti e nella voce, nella caricatura che
spesso risultavano magniloquenti e solenni, fino al limite del
ridicolo.
L’eroico divenne insomma il modo migliore per fare ironia
calcando sull’incredibilità delle situazioni e l’heroic tragedy
divenne il genere prediletto dei drammaturghi.
Come ci spiega Cesare Molinari, nella sua opera Storia del
Teatro
3
, potremmo definire il teatro elisabettiano come un teatro in
movimento, in quanto gli attori erano comuni mortali e il pubblico
poteva facilmente riscontrarvi i propri vizi e le proprie virtù.
Quello che caratterizza invece il teatro della Restaurazione è la
stasi, determinata dalla solennità dei gesti e dalla magniloquenza
delle parole utilizzate; inoltre la parodia della classe borghese (che
era poi quella che assisteva agli spettacoli) era latente, implicita.
Le tipologie di drammi e le opere rappresentate in questo periodo,
che godettero di un maggior seguito tra il pubblico, si incanalarono
principalmente nei filoni della heroic tragedy e della comedy of
manners.
Entrambi i generi si focalizzarono sulla società della
Restaurazione, ma la tragedia ebbe maggiore fortuna rispetto alla
commedia, in quanto essa tese a rappresentare le vicende di casate
nobiliari che si affannavano per la difesa della propria virtù sullo
sfondo di scenari quasi sempre esotici.
Importante, a proposito, fu l’introduzione del distico eroico, che,
secondo molti tragediografi del tempo, conferiva un valore più
3
Molinari, Cesare, Storia del Teatro, Laterza, Venezia, 1996, pag. 166 e segg.
11
aulico alla materia trattata, che era piuttosto elevata e, soprattutto,
rinnovava il modo di far tragedia, nei confronti del più naturale
blank verse elisabettiano.
Per quanto riguarda lo sviluppo della commedia, invece, i
drammaturghi furono meno prolifici, anche se il genere della
comedy of manners risultò trionfante sui palchi londinesi .
Anche nella comedy of manners i personaggi risultavano dei tipi
standardizzati, che incarnavano le caratteristiche dei borghesi nella
loro veste più convenzionale, ovvero l’eccesso, l’affettazione e
l’amore per l’apparenza. L’eroe di queste commedie era insomma
il borghese medio che si distingueva per l’eleganza e l’ingegno,
ma sicuramente non per la moralità.
Tra i generi minori che si svilupparono durante la Restaurazione
possiamo ricordare anche la farsa e l’opera. Vari furono gli autori
che si cimentarono in entrambe e tra questi possiamo ricordare lo
stesso Davenant, il quale musicò varie commedie, trasformandole
in opere liriche a tutti gli effetti e Thomas Shadwell, il quale
musicò The Tempest di Davenant e Dryden, che peraltro
rappresenta il fulcro della nostra trattazione.
Per quanto riguarda la farsa, invece, gli autori di questo periodo
cercarono di riadattare opere straniere, di autori come Molière e
Racine, inserendovi il classico gioco di inganni, agnizioni e
travestimenti tipici del genere.
Per concludere il quadro generale del teatro della Restaurazione
si può brevemente riassumere quelle che furono le caratteristiche
del teatro elisabettiano e confrontarle, in uno schema, con le
caratteristiche del teatro della Restaurazione.
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TEATRO ELISABETTIANO TEATRO DELLA RESTAURAZIONE
Numerosi teatri presenti a
Londra.
Due teatri, gestiti da Thomas
Killigrew e William
Davenant, ripettivamente il
Drury Lane e il Cockpit.
Il teatro è per tutti, è una
forma di spettacolo universale.
Il teatro si rivolge ad una èlite
borghese.
Donne bandite dal mondo
teatrale, gli uomini recitano le
parti femminili.
Le donne recitano i propri
ruoli.
Piattaforma protesa verso il
pubblico in maniera estesa;
prospettiva multidirezionale.
Piattaforma che si estende per
soli 5 metri; quarta parete;
prospettiva frontale.
Scene fisse, che permettono
allo spettatore di partecipare e
sentirsi coinvolto nella scena.
Scene mobili, che permettono
il cambio d’ambiente ma
isolano lo scenario dal
coinvolgimento del pubblico.
Teatro in movimento, gli attori
sono mortali poiché il Fato
gestisce e regola il loro
destino.
Teatro statico, solenne, gli
attori sono magniloquenti e
artefici del proprio destino.
Mondo = Teatro ( e
viceversa), il teatro esprime
identità per tutto il tempo della
rappresentazione.
Mondo come Teatro (e
viceversa), il teatro esprime
verosimiglianza.
Teatro simbolico, aperto alle Teatro rappresentativo, chiuso
13
interpretazioni del pubblico. alle possibili chiavi di lettura,
tutto è già spiegato.
I.2. Teatro della tradizione e Teatro della innovazione.
Nel paragrafo precedente ci siamo soffermati a tracciare le linee
generali di un periodo piuttosto complesso della storia teatrale
inglese.
Ci sembra ora opportuno dedicare un paragrafo ad un processo
fondamentale del teatro inglese della Restaurazione, ovvero
l’adattamento.
L’adattamento, secondo la definizione che Loretta Innocenti da
nella sua opera La scena trasformata: adattamenti neoclassici di
Shakespeare
4
, è la trasformazione di un’opera teatrale precedente
in un nuovo testo, secondo i nuovi parametri letterari del periodo
storico in cui viene riscritta. Ecco le parole che Innocenti usa per
definire l’adattamento neoclassico nei confronti di Shakespeare:
L’adattamento neoclassico di Shakespeare non è, però, una
transmodalizzazione, non trasforma l’opera per un diverso
medium, ma ne altera la forma e il senso per il teatro; adattare
significa allora “make fit”, rendere adatto a fattori esterni che
sono mutati, cioè il gusto, il pubblico, la morale, lo spazio teatrale
4
Innocenti Loretta, La scena trasformata: adattamenti neoclassici di Shakespeare, Firenze,
Sansoni, 1985.
14
stesso come possibilità tecniche…….Adattare, come tradurre e
imitare, è pur sempre riscrivere.
Ci troviamo infatti di fronte ad un periodo di grande
rinnovamento della storia socio-politica anglosassone e la rinascita
del teatro simboleggia il momento di ripresa di una società in
evoluzione. Le problematiche che avevano colpito la Gran
Bretagna durante il secolo XVII vennero esorcizzate attraverso
l’arte, un’arte che però non volle chiudere i battenti con la
tradizione, ma rinnovarsi attraverso essa.
Il teatro della Restaurazione si distinse soprattutto per un
rinnovato amore per i classici latini e greci e la loro conseguente
imitazione.
Vari autori sperimentarono con la tradizione, portando in scena
drammi del passato, ma conferendovi significati del tutto nuovi,
“adattandoli” , appunto, alle nuove esigenze che il periodo in
questione presentava, quindi aggiustandole secondo i nuovi gusti
degli spettatori e della corte. I drammaturghi, infatti, cercavano di
mantenere intatti i messaggi positivi dei drammi originali, ovvero
quei messaggi che potessero rivelarsi costruttivi o didattici nei
confronti del pubblico, mentre si cercava di attualizzare tutto ciò
che appariva obsoleto ed in particolare il linguaggio che avrebbe
potuto risultare ostico per il pubblico contemporaneo.
Lo stesso sovrano, d’altronde, si era proposto come amante della
tradizione teatrale francese, in quanto era giunto in Inghilterra
imbevuto delle opere francesi e seguace del filone che in Francia si
andava sempre più sviluppando, grazie ad autori come Racine e
Molière.
15
Questi ultimi due autori divennero quindi un punto di riferimento
per i drammaturghi inglesi, i quali però cercarono di scavare
soprattutto nella propria tradizione teatrale, in cui il nome che
capeggiava era ovviamente quello di William Shakespeare, che
aveva dominato la scena teatrale e rappresentava un termine di
paragone imprescindibile.
Fu proprio in questo periodo, dunque, che gli autori decisero di
mettersi sui passi del Bardo e riprenderne le opere, proponendone
una messa in scena che seguisse i gusti dei contemporanei.
L’idea che gli autori della Restaurazione avevano era che i vecchi
drammi appartenessero alle compagnie teatrali più di quanto non
fossero appartenute ai legittimi autori e drammi come quelli di
Jonson, Fletcher e Shakespeare furono quasi sempre considerati
degli esperimenti, con i quali molti scrittori vollero mettersi in
gioco, portandoli avanti, al fine di renderli più validi per la
rappresentazione.
Non che gli autori della Restaurazione ritenessero le opere cui si
ispiravano inferiori rispetto al proprio riadattamento, ma
sicuramente i drammi, così restaurati, brillavano di una luce
diversa, tanto che gli spettatori spesso credettero di assistere a
drammi del tutto nuovi.
Gli adattamenti andarono dalle opere più note degli autori più
importanti del periodo elisabettiano, come Shakespeare e Milton, a
quelle considerate “minori”, e trattarono una varietà di tematiche
piuttosto estesa, dal politico al letterario. Le opere meno
conosciute, tra l’altro, permettevano agli autori di calcare la mano
sui commenti politici, mimetizzando i riferimenti alla
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contemporaneità attraverso ambientazioni passate e situazioni
apparentemente lontane.
Dryden e il suo compagno, infatti, appoggiati dalla licenza di
“reform and make fit” i drammi, diedero origine alla moda di
adattamenti shakespeariani. Gli adattatori consideravano l’opera
come materiale grezzo che poteva essere alterato ed edito in ogni
maniera che potesse accattivarsi il pubblico.
L’adattamento, inoltre, permise anche lo sviluppo della semi-
opera, ovvero uno spettacolo teatrale accompagnato dalla musica,
in quanto le modifiche che alcuni autori vollero attuare si
focalizzarono spesso sulla musica; ricordiamo, ad esempio, The
Profetess, di Thomas Betterton, musicata da Purcell.
Simbolicamente, il riprendere vecchi drammi per riproporne la
fortuna, attraverso un riadattamento, sembrerebbe voler sanare
quella frattura tra l’Inghilterra del periodo pre-Commonwealth e
quella di Carlo II. Potrebbe essere insomma visto come un
tentativo di colmare quella lacuna culturale che si era venuta a
creare durante i vent’anni di regime puritano.
La stessa monarchia che si era venuta a istaurare con Carlo II era
un tentativo di ricucire quella brusca spaccatura causata dai
puritani e la nostalgia per un passato culturale glorioso portava con
sé un’innovazione; l’adattamento fu visto come un “divenire nel
permanere”.
Come abbiamo detto precedentemente, le compagnie patentate
che il re aveva formato, delegandone la gestione a Killigrew e
Davenant, erano quelle dei King’s Men e dei Duke of York’s Men,
le quali ebbero l’esclusiva per quanto riguardava le
rappresentazioni.
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I due drammaturghi, però, seguirono strade e tendenze diverse, in
quanto Killigrew (che poi ebbe la meglio sul collega) adottò un
approccio molto più conservatore, mettendo in scena drammi che
rimasero inalterati per tutto il settecento.
Davenant, all’opposto, preferì il concetto di riformismo estetico
come idea-guida della sua compagnia e si attenne alle
caratteristiche dei drammi continentali.
Come ci spiega Loretta Innocenti, l’adattamento non era un
processo di facile attuazione, in quanto bisognava considerare vari
fattori, quali il contesto in cui l’opera originale era stata concepita,
che necessariamente ne faceva un atto unico ed irripetibile, il
linguaggio che, per ovvie ragioni, aveva subito numerose
modifiche e le ideologie che guidavano l’opera nel momento in cui
fu scritta,le quali non trovavano più riscontro nell’epoca della sua
riproposizione.
Per questo motivo le trasformazioni effettuate dagli autori erano
numerose, in particolare, la riduzione, ovvero la cernita delle parti
ritenute più importanti e la sottrazione di quelle meno pertinenti al
fine di una rilettura; oppure l’amplificazione, mediante la quale
l’autore poteva decidere di aggiungere parti da lui ritenute
probanti.
La prima è un’operazione di sottrazione, che viene fatta al testo,
di tutti quegli elementi che vengono ritenuti superflui o non
necessariamente fondamentali nel testo che viene adattato. Tali
tagli sono finalizzati ad esaltare un aspetto piuttosto che un altro
del dramma.