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Capitolo I – Formazione in teoria
1.1 La formazione oggi
La formazione professionale oggigiorno è confrontata con problematiche di
grande rilievo che vale la pena affrontare in apertura di questo capitolo così da
poter ipotizzare a quale punto vista, fra i tanti presenti in letteratura, conviene
indirizzare una maggiore attenzione al fine di meglio chiarire le basi concettuali
su cui costruire un'esposizione il più possibile integrata, articolata e anche aperta
ad eventuali opportune integrazioni e/o rettifiche.
Possiamo provare a partire da due considerazioni:
la formazione è fondamentalmente definita come attività educativa, e, in
quanto tale, non può rivolgersi che ad individui;
negli ultimi decenni si è realizzato un profondo e ampio processo di
evoluzione nello scenario delle organizzazioni produttive, con un passaggio
sempre più marcato e veloce da una vision di stampo fordista
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ad una che
privilegia la rilevanza della funzione costruttivista
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. Le organizzazioni
costruiscono il proprio contesto, e con esso la conoscenza utile al loro sviluppo e
al loro adattamento al contesto stesso, oltre a costruire il mercato e il cliente con la
costruzione della qualità.
Su questa base, la formazione è rimasta un'azione rivolta ai singoli individui,
laddove invece la domanda formativa delle organizzazioni è collegabile a processi
di cambiamento che concernono l'insieme della funzionalità organizzativa: è in
1 La visione fordista, a sua volta riveniente da un'evoluzione di quella taylorista, prevede un
modello di organizzazione assunto come ”dato” indiscutibile, piuttosto che come modello
culturale specifico, quindi soggetto a cambiamenti.
2 Il socio-costruzionismo è un orientamento teorico-concettuale che vede la realtà sociale non
come data o esistente a prescindere dal soggetto che la considera, bensì come frutto delle
interazioni e delle interpretazioni condivise di un certo numero di soggetti che appartengono a
un medesimo contesto culturale, i quali appunto “co-costruiscono” aspetti più o meno rilevanti
della realtà sociale in questione, rendendo il costrutto passibile di significati dipendenti dal
contesto in cui è stato elaborato.
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questa contrapposizione tra individuo e organizzazione che risiede un problema
cruciale nel definire e pensare la formazione professionale odierna.
È interessante notare che il termine “individuo” è assolutizzante: esso non
prevede la presenza di un contesto organizzativo entro cui considerare l'individuo
stesso; la psicologia individuale, ad esempio, studia l'individuo nelle sue leggi
generali di funzionamento, come se queste leggi appartenessero all'individuo in sé,
riducendo il contesto alla sola funzione di stimolo o rappresentazione interna.
Altrettanto assolutizzante è il termine “organizzazione”: con questo costrutto
non viene considerata la funzione dei singoli o del rapporto tra le persone;
l'organizzazione ha la sua rilevanza in sé, riducendo l'individuo a componente
scontata e irrilevante dell'organizzazione stessa.
Le correnti di pensiero e i modelli che hanno generato i costrutti di “individuo”
e “organizzazione” appartengono ad universi simbolici differenti e, sembra,
irriducibili l'uno all'altro, rendendo così il “superamento” di questa barriera e di
questa irriducibilità un obiettivo molto sfidante sul piano teorico.
1.2 Teorie a confronto.
Il problema della “finalità organizzativa” della formazione quale attività
educativa è stato posto, in modo esplicito, dagli autori che hanno abbracciato
questa prospettiva, tra i cui esponenti più autorevoli, in Italia, si annovera
indubbiamente Quaglino, il quale sviluppa il tema sottolineando l’importanza
della relazione fra i due concetti di individuo e cambiamento organizzativo; egli
articola i due elementi e propone una relazione biunivoca tra le due dimensioni: in
particolare l'autore richiama la possibilità sempre presente di operare una seconda
scissione (oltre a quella ricordata più sopra tra individuo e organizzazione) e cioè
quella tra i due termini di apprendimento individuale e cambiamento
organizzativo, scissione che metterebbe a rischio l’efficacia dell’azione educativa.
Il rischio consisterebbe nel pensare che i soggetti imparano e le organizzazioni
cambiano; e che tutto questo è per opera della formazione; e che in ultima analisi
la formazione è un’attività organizzativa: “troppo semplice” dice il nostro autore,
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e continuando afferma che, fatto salvo il legame circolare fra apprendimento e
cambiamento, occorrerebbe quantomeno precisare che i soggetti cambiano in
quanto apprendono, mentre le organizzazioni apprendono in quanto cambiano; e
che il vero problema per i soggetti è di essere disposti a cambiare, mentre per le
organizzazioni di essere disposte ad apprendere; e che per i soggetti il legame
apprendimento e cambiamento è fattuale, mentre per le organizzazioni è solo
possibile (Quaglino, 2005, p.11).
Ma vediamo come procede il discorso:
Dunque la formazione è attività educativa rivolta al sapere dei soggetti che può
diventare momento per il cambiamento organizzativo solo a certe condizioni e non in
virtù di alcun automatismo di legame tra apprendimento individuale e cambiamento
organizzativo che, come si è potuto appena accennare, ha ben altro livello di complessità
(ibid., pp. 11-12).
Le condizioni ipotizzate dall'autore consistono nel riconoscere che:
a) la formazione deve essere pensata e realizzata in termini di processo: il
riferimento è al classico schema in quattro tappe costituite dall'analisi dei bisogni,
dalla progettazione, dall'azione formativa e dalla valutazione dei risultati;
b) la formazione condivide un significato e un orientamento strategico: di
contro a una posizione e a un compito meramente gestionali, e questo per poter
rispondere alle sfide rappresentate dal tenere testa ai continui capovolgimenti di
scenario che vanno avvicendandosi in questi ultimi decenni, nonché auspicando
un nuovo modello culturale centrato sulla persona;
c) la formazione richiede tecnologia ed espressione di valori: laddove per
tecnologia si intende soprattutto attrezzatura teorica, e per valori,
sostanzialmente, un importante recupero del soggetto del progetto educativo, che
a seguito delle recenti tendenze alla razionalizzazione spinta dell'attività educativa
è andato smarrendosi in mezzo a un dominio assoluto di contenuti come
espressione unica dell'azione finalizzata all'apprendimento.
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Queste condizioni rappresenterebbero il vincolo per ogni attività formativa al
raggiungimento delle finalità individuate dal legame tra apprendimento
individuale e cambiamento organizzativo, rappresentando anche ciò di cui la
formazione avrebbe bisogno per confrontarsi con la configurazione di crescente
complessità attuale (e futura).
Un'ulteriore condizione ricordata dall'autore riguarda i tempi da dedicare
all'apprendimento individuale e al cambiamento organizzativo, che non possono
che essere di lungo periodo, scoraggiando ogni illusione su di una formazione che
voglia ottenere risultati immediati e che voglia “cambiare rapidamente le cose”.
Questo è in prima battuta il contributo teorico di Quaglino (2005).
Ora è interessante segnalare un contributo che si dissocia in parte da tale
impostazione teorica, considerando piuttosto prioritario il riferimento alla
relazione individuo-contesto: gli autori in questione (Carli, Paniccia, 1999)
vedono la “formazione teoricamente intesa come attività educativa” come
mancante di una solida teoria sull'efficacia organizzativa della formazione stessa.
Inoltre, i nuovi modelli costruttivisti dell'organizzazione, pur offrendo interessanti
proposte sull'evoluzione della conoscenza organizzativa, sembrano non implicare
al loro interno una teoria della tecnica fondante l'azione formativa atta alla
realizzazione delle nuove proposte.
La formazione, secondo i predetti autori, sembra quindi navigare nelle incerte
acque che dividono individuo e organizzazione, senza approdare né all'una sponda
né all'altra. Non può approdare alla sponda dell'individuo, perché sarebbe un
incerto ritorno della formazione organizzativa alla pratica scolastica (dalle scuole
elementari all'università) e alla sua congenita scissione dalla società organizzata.
Non è ancora in grado di approdare alla sponda dell'organizzazione perché, a loro
modo di vedere, manca una teoria della relazione individuo-contesto
organizzativo.
Ecco quindi in estrema sintesi due prospettive teoriche a confronto, con le loro
differenti impostazioni di base, e verosimilmente implicanti modi altrettanto
differenti di interpretare la “formazione” e di delinearne possibili scenari di
sviluppo.
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Ora, se si dovesse indicare uno spartiacque fondamentale fra i due punti di
vista si potrebbe probabilmente far riferimento al tipo di approccio disciplinare,
ovvero laddove il punto di vista “educativo” si propone soprattutto come
approccio psico-pedagogico all’argomento formazione, il punto di vista
“relazionale” si propone come approccio psicosociale, in particolare in chiave
clinico-sociale.
Avremo modo di approfondire meglio nel prosieguo le base epistemologiche
dei due approcci indicati, posto che si tratta di punti di vista, certamente tra i più
autorevoli e ben argomentati, che fanno parte di un ben più vasto novero di
contributi in materia, che in questa sede non sarà possibile prendere in
considerazione per esigenze di spazio e di sintesi.
Occorre tuttavia certamente riconoscere a entrambe le prospettive un certo
grado di apertura al pluralismo teorico e metodologico, così come dimostrato da
affermazioni quali:
“La proposta di Teoria Generale della Formazione (TGF) sviluppata in questo libro è
un’ipotesi di lavoro […] [che] non necessariamente potrà o dovrà essere condivisa in tutto
(e nemmeno in parte). Ma sembra augurabile che, anche se non condivisa, possa
comunque contribuire ad […] aprire la strada , come dice Lorenz, a un’altra ipotesi che
riesca a spiegare di più. (Quaglino, 2005, p.169)”
oppure:
“È in atto un confronto serrato tra formazione rivolta agli individui e formazione come
leva di gestione di specifiche problematiche organizzative. Probabilmente continueranno
a convivere, per diverso tempo ancora, le due prospettive (Carli, Paniccia, 1999, p. 285).”
Resta comunque sempre sullo sfondo la possibilità di considerare la lettura in
positivo del predetto “plularismo teorico” anche per la sua connotazione più
umbratile, ovvero come “realtà incoerente, conflittuale e disgregata”, dove gli
attori principali si muovono senza condividere benché minimamente le assunzioni
di base a partire da cui guardare al fenomeno formativo. Tale evenienza è tuttavia
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mitigata dalla possibilità di guardare alle varie prospettive con un’ottica di
apertura pragmatica, contraddistinta da un atteggiamento critico benevolo, che
cerchi di contribuire al disegno di un quadro interpretativo il più possibile
coerente e integrato, con la consapevolezza che si tratta pur sempre di un lavoro in
itinere, fortunatamente aperto a nuove ipotesi, anche radicalmente divergenti,
purché accompagnate da una considerazione complessiva delle migliori riflessioni
presenti sul campo, e possibilmente suscettibili di dimostrazioni convincenti sia
sul piano prettamente empirico, sia su quello discorsivo o narrativo, questi ultimi
apparentemente meno pragmatici, tuttavia avvincenti e innovativi.
Tutto ciò premesso occorre senz’altro riconoscere la fondamentale, condivisa e
inderogabile necessità di provare a delineare un profilo teorico-concettuale, come
si diceva, coerente e integrato a cui ancorare la pratica formativa professionale,
estraendola dalla eccessiva confusione teorica in cui sembra attualmente versare;
ed è a questa necessità che proveremo a dedicare l’attenzione dei prossimi
paragrafi, a partire dalla descrizione delle due preannunciate prospettive,
completate dalla descrizione dello scenario organizzativo attuale.
1.3 Una prospettiva pedagogica.
Nel suo importante contributo del 1985, intitolato Fare formazione, l’autore
Quaglino definiva la formazione come “attività educativa […] il suo obiettivo è il
sapere: la promozione, la diffusione e l’aggiornamento del sapere. Nonché la
promozione, diffusione, aggiornamento dei modi di utilizzo di tale sapere
(Quaglino, 1985)”.
A distanza di una ventina di anni tale definizione viene da lui stesso
considerata non più pertinente, preferendo ad essa la seguente:
“la formazione è percorso educativo, il suo obiettivo è l’apprendimento: l’attivazione,
il sostegno, il consolidamento dell’apprendimento (Quaglino, 2006, p. 210)”.
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La modifica indicata ha indubbiamente a che fare con un importante
cambiamento di prospettiva attraverso cui guardare al fenomeno formazione,
ovvero si delinea un confine più ampio di risposta alla domanda, spesso
implicitamente, talvolta esplicitamente, rivolta dal contesto organizzativo alla
comunità degli operatori, e che si potrebbe riassumere come una mera domanda di
“alfabetizzazione” o “rialfabetizzazione” professionale, caratterizzando così
l'attività formativa più che altro come addestramento professionale, che, per
quanto importante e necessario, riassume in modo riduttivo le aspirazioni di fondo
della disciplina formativa.
Evidenziando l'importanza del concetto di apprendimento l'autore sposta così
la prospettiva pedagogica sulla formazione su una questione teorica più centrale
e trasversale al tempo stesso, nelle sue diverse articolazioni di apprendere a
cambiare, apprendere ad apprendere e apprendere da sé.
Si potrebbe sintetizzare la questione facendo riferimento ad uno slittamento
concettuale da una formazione sui contenuti ad una sui processi, ovvero da un
discorso su “cosa si apprende” a uno su “come si apprende”, prima che non su
“come far apprendere”.
La questione “apprendimento” acquisisce quindi una notevole rilevanza,
imponendo una iniziale ricognizione dello “stato dell’arte” sulla materia. Tale
ricognizione permette di prendere atto del fatto che le teorie classiche
dell’apprendimento sono inadeguate nel ragionare di e per la formazione, distanti
come sono da quei confini di adultità ed esperienza rispetto a cui la formazione
andrebbe auspicabilmente declinata.
Tale inadeguatezza permane tuttavia, a detta dell'autore, anche in approcci più
recenti, ispirati alla corrente del cognitivismo, sostanzialmente contraddistinti da
un “fondo” di pensiero deterministico alquanto sconsolante, che non aiuta ad
avvicinarsi alla reale complessità dell’esperienza soggettiva.
Altri approcci, viceversa ispirati ad una corrente di pensiero più propriamente
umanistica, ci consegnano conferme rispetto a un’idea di formazione più vicina a
come sopra auspicato: è il caso dei contributi di Kolb (1984) nel richiamare la
dimensione dell’esperienza nella ciclicità e sequenzialità del percorso di
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apprendimento, di Knowles (1973) nel circoscrivere la dimensione dell’adultità
come unità di misura del pensiero su ciò che è il “come si apprende” in
formazione, di Schön (1987) e Argyris con lui nel tentativo di afferrare la
dimensione della conoscenza tacita e della riflessività nell’apprendere, dando
primato all’interrogazione (con Revans, 1978).
Si impongono altresì riferimenti al realismo di Bateson (1979), quando afferma
“non c’è dubbio che la parola apprendimento denoti un cambiamento di qualche
tipo; dire quale tipo di cambiamento è una faccenda delicata”, e alla lungimiranza
di Morin (1999) quando ribadisce che: “tutto il nostro insegnamento tende al
programma, mentre la vita ci richiede strategia e se possibile anche serendipità e
arte. È proprio un ribaltamento di concezione che si dovrà attuare per prepararci ai
tempi dell’incertezza”.
Questo richiamo all’incertezza ci permetterà di descrivere lo scenario a partire
da cui Quaglino (1985, 2005) ritiene indispensabile rispettivamente costruire e
mantenere una teoria forte a cui ancorare la pratica della formazione, recuperando
il noto postulato lewiniano: “non c’è nulla di più pratico di una buona teoria”.
Riprenderemo il pensiero dell'autore nel paragrafo conclusivo del presente
capitolo quando delineeremo lo scenario formativo attuale, privilegiando
l'esposizione dell'ottica pedagogica proposta dall'autore stesso e i contenuti
presenti nel già citato testo Fare formazione (1985). Ora proseguiamo
presentando più compiutamente il pensiero degli altri autori, Carli e Paniccia
(1999), citati in apertura e indicati come rappresentanti di un approccio di tipo
psico-sociale.
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1.4 Una prospettiva psico-sociale
Nella postfazione della riedizione del 2005 del testo di Quaglino ricordato nel
precedente paragrafo, l'autore esponeva una lunga lista di definizioni sintetiche di
formazione, collezionate nell'arco di un ventennio (1985-2005) ad opera di vari
autori, con ciò provando a dare conto di quella sorta di andirivieni tra piani
temporali e riferimenti tematici che ha connotato lo sviluppo del dibattito sulla
formazione, evidenziando la fatica ad avanzare verso una più solida identità tra
differenti polarità e particolarismi, nonché tra forzature e aperture (Quaglino,
2005, p. 176).
Fra queste definizioni troviamo anche quella degli autori Carli e Paniccia, i
quali affermano che “la formazione [va concepita] quale risposta, pensata, alla
domanda organizzativa, nell'ipotesi di conferire alla formazione tempestività e
forza di leva gestionale entro i problemi che l'organizzazione affronta
quotidianamente (Carli, Paniccia, 1999, p. 17)”.
È questa una definizione che lascia intendere uno spostamento importante di
prospettiva, da un'ottica prettamente psico-pedagogica, incentrata sull'importanza
del soggetto, ad una più propriamente psicosociale, facente leva sull'importanza
della relazione tra individuo e contesto organizzativo.
Questo spostamento di prospettiva denuncia la supposta sterilità di una
contrapposizione teorico-concettuale tra individuo e organizzazione, preferendo
ricercare un qualche elemento di articolazione che permetta di connettere le due
dimensioni in un modo, al tempo stesso, innovativo sul piano teorico e produttivo
di efficacia sul piano pratico.
Gli autori ricorrono al concetto di analisi della domanda, di derivazione clinica,
per ipotizzare la necessità di costruire insieme alla committenza una corretta
impostazione di base nel rapporto di collaborazione; impostazione mirante a porsi
nella condizione di poter “pensare” le emozioni presenti nella relazione piuttosto
che “agirle” inconsapevolmente.
L'elemento concettuale da loro individuato come strumento principe per la
predetta analisi della domanda formativa, nonché come strumento per agevolare il
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cambiamento organizzativo, consiste nell'analisi della “cultura locale” delle
organizzazioni: la cultura locale rappresenterebbe il punto di snodo tra
l'apprendimento individuale e il cambiamento organizzativo più volte auspicato
nei precedenti paragrafi.
L'intervento formativo proposto dagli autori poggia su un impianto concettuale
sostanzialmente psicoanalitico, con alcune importanti specificazioni: la più
importante è quella che richiama la fattuale illusorietà di una presunta “olimpica
razionalità” degli individui e delle organizzazioni nell'avere a che fare gli uni con
gli altri, ed entrambi con il contesto socio-economico.
Il modo di essere inconscio della mente si presenterebbe in modo pervasivo e
continuativo, e pretenderebbe di contribuire sensibilmente a determinare le
premesse e gli esiti delle azioni degli attori sociali.
In quest'ottica gli autori coniano il concetto di collusione, definita come
“l'insieme di fantasie agite dal cliente nel rapporto di domanda con lo
psicologo/formatore e che dà origine al gioco delle parti che istituisce la
prevedibilità emozionale della relazione (ibid., p. 197)”.
È quando la collusione fallisce che si profila un'importante possibilità di
intervento modificativo.
La metodologia proposta si propone di trattare i problemi posti dall'utenza in
una prospettiva più orientata al “problema” posto che alla “tecnica” da applicare
in modo differenziato; e questo anche per affrancare lo psicologo clinico dalla
sola prospettiva professionale ancorata, acriticamente, alla “psicoterapia” (ibid., p.
104).
Si propone inoltre di mettere in discussione il “modello medico” applicato
anche alla formazione, secondo il quale la funzione formativa dovrebbe
“prescrivere” l'atto educativo come rimedio per “ridurre lo scarto” fra la
situazione attuale e quanto atteso dalla funzione committente.
La ricerca ha confermato che con la domanda di intervento l'utente riproduce,
con il formatore, “un rapporto collusivo che è fallito entro il contesto di
appartenenza”.