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Quando nel 1988 affrontò il tema della nazione divisa, non
ebbe timore di usare accenti consueti alla destra nazionalista,
accusando i tedeschi di aver perso ogni orgoglio patriottico e
gli alleati di continuare ad agitare lo spauracchio hitleriano pur
di impedire la riunificazione del paese. Questo atteggiamento
suscitò grande scalpore, provenendo da un autore che aveva
sempre irriso il conservatorismo di Bonn e l’ottusa opulenza
della società occidentale e aveva simpatizzato con le proteste
studentesche e con la DKP. In realtà, Walser riteneva
intollerabile che la storia tedesca non procedesse oltre,
tentando di sanare quella ferita. Di qui l’esortazione a non
riconoscere né la DDR né la BRD, di qui il rifiuto a considerare
chiusa la questione tedesca. Ecco che allora l’intervento
trascende le categorie tradizionali di “destra” e di “sinistra” per
affrontare un tema che è a tuttoggi assai problematico: quello
dell’identità individuale in rapporto alla storia nazionale.
Alla luce degli avvenimenti successivi, si deve oggi
riconoscere che Walser fu tra i primi a infrangere uno schema
– non solo generazionale – nel quale si riconoscevano gli
intellettuali delle due Germanie, reintroducendo nel dibattito
letterario il tema della nazione.
Contrapposta alla posizione di Walzer è quella di Jurek
Becker, ebreo vittima della storia tedesca, che in seguito al
caso Biermann si era trasferito a Berlino Ovest.
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Nell’intersezione tra storia tedesca e coscienza individuale si
riaprono le ferite inferte dal nazismo: sulla spinta delle tragiche
memorie familiari, egli stigmatizza “l’impeto riunificatorio” di
Walzer accusandolo al contempo di presentare il pathos
nazionale come un “fenomeno inarrestabile della natura”,
sottratto pertanto a qualsiasi controllo razionale.
Le metafore del declino socialista
Nella Germania Orientale, essendo l’esistenza stessa della
DDR un prodotto dei blocchi contrapposti, è ovvio che a livello
ufficiale, tanto più a partire dalle modifiche costituzionali del
1974, l’ipotesi di una riunificazione non trovi spazio. Lo stesso
termine “patria” è percepito come indicativo di un lessico
inquinato dalla retorica nazista e quindi espunto fin
dall’infanzia dal vocabolario dei cittadini DDR. Questo nel
linguaggio pubblico. Ma la letteratura della DDR, soprattutto
dopo l’espulsione di Biermann, diventa sempre più
espressione di un disagio intellettuale, di una insofferenza nei
confronti delle forme repressive di un apparato ormai
sclerotizzato.
In una poesia del 1971 di Eva Strittmatter, che appartiene alla
stessa generazione di Walser, la posizione ideologica appare
per molti versi affine a quella dello scrittore occidentale. Ma la
riflessione degli intellettuali tedeschi sull’identità non è
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riconducibile solo a un dato generazionale. Anche i giovani
autori della DDR, che si radunavano nel Prenzlauerberg - un
quartiere di Berlino Est - dando origine ad una corrente
almeno nelle intenzioni radicalmente alternativa, si interrogano
sul senso dei cieli divisi. Michael Wustefeld, nato a Dresda nel
1951, in un suo sonetto, enuncia un’appartenenza etnica e
culturale alla Germania, una paternità tedesca che confligge
con una normativa ideologica mirata a cancellare l’identità
nazionale nell’adolescente, determinando una sorta di intima
lacerazione. Il tema ricorrente in questi giovani autori non è
però sempre quello della ricongiunzione con l’altra Germania,
quanto piuttosto la ricerca di un altrove, di una terra di
nessuno, uno spazio utopico “tra i cieli” che trascenda i confini
istituzionali: una ricerca che – come vedremo – non si
esaurisce con la riunificazione tedesca.
E’ opportuno d’altra parte ricordare che lungo gli anni Ottanta i
rapporti tra gli intellettuali delle due Germanie si intensificano.
Oltre al passaggio di molti autori in occidente, e al loro
progressivo inserimento nelle istituzioni culturali, bisogna tener
conto di altri elementi che determinano una sorta di osmosi nel
paesaggio intellettuale tedesco, quali il moltiplicarsi delle
licenze editoriali, la fortuna del teatro di Heiner Muller e la
ricezione accademica della “DDR-Literatur”.
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C’è poi un altro tema, indicato dall’opera di Christa Wolf, che
va analizzato: la vecchia generazione, benché provata dalla
guerra, si rivela complessivamente più solida, più dignitosa di
quelle successive che si dimostrano più precarie, espropriate
delle proprie radici storiche e quindi incapaci di lasciare una
traccia nel presente. La Wolf esprime la denuncia nei confronti
di un sistema che assoggetta l’individuo “recidendone il
cordone ombelicale con il passato”: è una valutazione inedita
nella letteratura della DDR, solitamente proiettata sul presente
socialista e del tutto ignara, se non in funzione di una vibrata
critica antinazista, della generazione dei nonni, storicamente
compromessa.
Ormai sessantenne, la scrittrice sembre mettere in dubbio la
stessa consistenza storica del cosiddetto socialismo reale: il
paese è fatto di cittadini “senza un presente”, cui altro non
resta che “aspettare l’età della pensione per incominciare
davvero a vivere”, per ottenere cioè il sospirato visto per un
viaggio in occidente.
L’album di famiglia dell’identità socialista è ormai
compromesso da un apparato sempre più irrigidito. La foto di
gruppo degli intellettuali dell’est appare sfuocata. Lontano è il
tempo in cui “uno slogan, una formula, una fede” univano i
singoli in un progetto comune.
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L’esodo dell’estate 1989
Il collasso della DDR ha inizio nel maggio del 1989, quando il
governo ungherese decide di aprire un varco lungo la frontiera
con l’Austria. E’ la prima, vistosa crepa nella cortina di ferro.
Ripresi dalle telecamere occidentali, centinaia di cittadini DDR
tentano la fuga attraverso l’Ungheria. Non sono solo
intellettuali dissenzienti ad andarsene, come nel 1977, dopo
l’espulsione di Biermann. Ora sono famiglie intere che migrano
verso ovest. Altri si riversano a Praga e a Budapest,
rifugiandosi nelle ambasciate tedesco-federali con l’intento di
forzare la mano ai politici di Bonn per ottenere l’espatrio. La
tensione tra le due Germanie aumenta fino a che, in agosto,
Bonn decide di chiudere al pubblico la sede diplomatica di
Berlino Est e le ambasciate di Praga e Budapest. Nel
settembre i Vopos orientali caricano la folla di dimostranti.
Inutilmente l’apparato politico di Honecker tenta un rimpasto
per far fronte alla crisi. E’ il contesto internazionale che è
mutato: la politica di distensione inaugurata da Gorbaciov ha
ormai rimesso in moto la storia determinando un
sommovimento di portata europea. All’inizio di ottobre il
governo consente l’espatrio in treno ai rifugiati asserragliati
nelle ambasciate. In quindicimila raggiungono la BRD. Le
immagini sono drammatiche: i convogli diretti in occidente in
transito attraverso la DDR vengono presi d’assalto da altri
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cittadini che vogliono abbandonare il paese. In alcuni
intellettuali serpeggia la speranza che sia finalmente venuto il
momento della pubblica resa dei conti con quella
gerontocrazia che, incurante dei nuovi segnali provenienti
dall’Unione Sovietica, si era arroccata su posizioni di rigido
immobilismo.
Di fronte a questi fatti, Volker Braun, uno dei poeti più
rappresentativi della scena culturale dell’Est, guarda con
preoccupazione alle fughe verso ovest: paragona il passaggio
dei tedeschi orientali in occidente a un suicidio collettivo in un
testo che, rivendicando implicitamente un’evoluzione politica
interna alla DDR e pertanto autonoma da Bonn, diverge dal
pathos nazionale diffusosi in occidente con la politica della
riunificazione promossa da Kohl.
Il poeta invita gli intellettuali dell’Est alla pubblica discussione
su questi eventi: la situazione è difficile, ma proprio per questo
deve “incoraggiare altri movimenti”. Il dibattito degli intellettuali
orientali non ha trovato però risonanza sulla stampa
occidentale che, ghiotta di inediti dell’est – solitamente
dissidenti - negli anni precedenti, concede ormai spazio
soltanto agli intellettuali che parlano a favore della scomparsa
della DDR dalla scena politica.
Dai materiali letterari di quei mesi di discussione affiorano
speranza e amarezza, euforia e sconcerto: la decisione non si
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pone più nei termini degli anni Cinquanta – pro o contro il
socialismo – quanto in quelli del congedo o della permanenza
nella DDR.
Spostiamo ora lo sguardo sull’altra Germania. Negli autori
occidentali, l’esodo suscita piuttosto una commozione
trattenuta, quasi un pudore ad entrare nel merito di una
valutazione. A Berlino e a Lipsia i cortei di protesta si
susseguono scandendo slogan dapprima antigovernativi,
successivamente tesi a ribadire l’appartenenza a un’unica
nazione tedesca. Il lessico nazionalista rievoca in molti
intellettuali lo spettro nazista. In realtà la svolta tedesca fu
incruenta. Resta comunque la tensione di quei mesi,
amplificata dalla repressione della polizia che intervenne di
nuovo nei primi giorni d’ottobre sia a Lipsia sia a Berlino
caricando i dimostranti, e la percezione del difficile rapporto
dei tedeschi con il proprio passato nazionale. Un passato che
non passa, dunque, nemmeno per i più giovani, e che anzi
riemerge con più evidenza sul crinale di una svolta epocale.
Al di là dell’orizzonte tedesco, il 1989 è un anno denso di
avvenimenti di ampia portata, dalla repressione di Tien An
Men allo sfaldamento del blocco sovietico.
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Appelli intellettuali
Costretto dagli eventi, il 18 ottobre Honecker si dimette. Il
governo, presieduto da Egon Krenz, tenta di fronteggiare la
situazione ma la protesta dilaga. Il timore di un intervento
armato è percepibile anche nelle prese di posizione degli
intellettuali. Si cerca una strategia che si contrapponga alle
strutture politiche esistenti.
Vengono ora al pettine i nodi della DDR, ossia di uno “stato”
collocato dalla Storia all’interno di una “nazione” e quindi
destinato fin dalla sua costituzione a un continuo travaso di
dissidenti nello stato confinante, la BRD appunto. A differenza
dei profughi delle altre repubbliche socialiste, una volta
trasferiti in occidente i transfughi dalla DDR non vivevano nella
BDR la condizione giuridica dell’esiliato, in quanto venivano
immediatamente integrati a pieno diritto come cittadini della
Germania federale.
Christa Wolf, a chi le fa notare che l’esodo dei ventenni verso
occidente non conferma che una tendenza generalizzata verso
il capitalismo, risponde: ”E’ comprensibile che persone che
non vivono bene migrino verso condizioni materiali migliori….
Io sono convinta che nella DDR ci siano condizioni e strutture
meritevoli di essere conservate, e che si tratti ora di portare
alla luce, rendendole attive, quelle forze produttive che sono
insite anche nel nostro tipo di società”.
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Se prima la letteratura, con suo sapore cospirativo, aveva la
funzione di portavoce, col dilagare delle proteste popolari, la
gente si sente direttamente protagonista e interviene in prima
persona scendendo in piazza. In questa nuova situazione
l’abitudine alla lettura – diffusissima nella DDR – viene meno.
D’altra parte nelle scuole, nei teatri, nelle accademie il dibattito
politico si fa pubblico. Anche sulla stampa locale, i lettori
intervengono su un ampio arco di problemi, dalla scuola
all’occupazione, dall’economia all’identità nazionale.
Tra le incertezze di una riforma interna ed il miraggio di una
immediata equiparazione agli standard di vita occidentale,
molti tra i giovani più qualificati si orientano verso la seconda
ipotesi. Nel mutato quadro internazionale, a fronte della
disgregazione del blocco sovietico, i valori della solidarietà
socialista non fanno più presa sui giovani. In assenza di
un’elaborazione politica innestata nel presente, gli unici
strumenti disponibili per leggere la realtà risultano essere
quelli analogici del passato. Ma l’immagine che ne risulta è
obsoleta, come ricalcata da un vecchio copione: lo stesso
lessico socialista appare non solo inquinato dai riflessi
provenienti dai corrotti modelli rumeni e sovietici, ma
soprattutto anacronistico rispetto al nuovo corso avviato da
Gorbaciov. Le soluzioni pratiche non fanno i conti con la
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percezione psicologica della massa, attratta dalle promesse di
un ampio sostegno finanziario da parte di Kohl.
La caduta del muro
Il 9 Novembre il governo, nel tentativo di arginare l’esodo
lungo il confine ungherese, abroga il divieto d’espatrio, un
provvedimento che determina la sera stessa, tra il tripudio
della folla, l’apertura di un primo varco nel muro di Berlino. La
svolta si è dunque realizzata in modo incruento e l’euforia nelle
due Germanie è alle stelle.
Fiorisce in questi mesi una rielaborazione letteraria degli
avvenimenti che predilige la forma breve. Sono appunti in versi
di taglio quasi diaristico, di registro mutevole, che di nuovo
lascia trasparire la cifra generazionale. Se nei poeti orientali
più giovani, disincantati, cresciuti ormai ai margini delle
precettistica marxista, il novembre berlinese alimenta lo
sberleffo nei confronti della burocrazia di partito, nella
generazione più matura la caduta del muro viene
rappresentata con un pathos che ritrova la declinazione da
tempo dimenticata del pronome plurale, di un wir sentito ora
come l’addizione di individualità molteplici.
Martin Walzer commenta gli avvenimenti con righe esultanti
che aprono con il sollievo di chi constata come “per la prima
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volta in questo secolo la storia tedesca” abbia avuto un lieto
fine.
Diversa è la posizione di Gunter Kunert, figura di spicco della
poesia contemporanea tedesca. Perseguitato dai nazisti per la
sua origine ebraica, si era formato nella DDR operando fin
dall’esordio una demistificazione del rimbombante linguaggio
ufficiale della Sed. Nel 1978 si era trasferito in occidente. Ora,
di fronte all’entusiasmo generale, riaffiorano dalla storia
tedesca analogie inquietanti: la marcia tecnologica verso il
futuro non fa che riprodurre il passo strascicato dei detenuti
del lager. Nefasta cesura della storia, il nazismo getta un cono
d’ombra anche sul presente.
A Est, invece, gli intellettuali si confrontano sui progetti di
rinnovamento: o si rinnova rapidamente la struttura politica
della DDR o l’annessione da parte della BRD sarà inevitabile.
Nella speranza di poter optare per la prima ipotesi, si intuisce
l’aspettativa di un appoggio europeo al mantenimento di una
Germania divisa.
Ma la speranza di poter contare sull’appoggio degli altri stati
europei si rivela infondata. All’euforia iniziale segue una
meditazione dolente: lo sfolgorio dei quartieri occidentali di
Berlino richiamano la prepotente invasione dell’economia di
mercato.
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Dopo il crollo del muro
Stefan Heym ci offre una sintesi efficace e di grande forza
figurativa dello scenario tedesco dopo il crollo del muro.
Perseguitato dai nazisti per la sua origine ebraica, Heym, dopo
l’esilio negli Stati Uniti, si era trasferito nel 1953 nella DDR
dove aveva goduto di notevole prestigio, fino all’aperto
dissenso con l’apparato culturale successivo alla crisi del
1976. Nel tardo novembre 1989 Heym avverte con
preoccupazione che “il grandioso momento della sollevazione“
sta tramontando e che urge dare profilo istituzionale a un
movimento popolare che minaccia altrimenti di degenerare
nell’anarchia travolgendo quel che resta della DDR. Heym
contrappone l’ebbrezza festosa dei primi cortei di massa alla
smania consumistica che dilaga col primo varco nel muro,
esprimendo una critica sferzante al digiuno di proposte
politiche che l’autore avverte dopo lo slancio rivoluzionario,
quando la folla accorre a ovest riversandosi nei supermercati
di rango inferiore: quello stesso popolo - che dopo decenni di
servilismo e di fughe si era risollevato prendendo in mano il
proprio destino, e che appena ieri sembrava marciare a fronte
alta verso un promettente futuro -, si è trasformato in un’orda
di persone rabbiose che sgomitano affollando Hertie e Bilka a
caccia di luccicante ciarpame.
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Distratta dall’abile politica di Kohl ma anche frastornata dalle
frettolose dimissioni dei politici che si avvicendavano alle
vacillanti istituzioni, la DDR è sull’orlo del collasso definitivo.
Tra le soluzioni possibili – riunificazione, confederazione di
due stati tedeschi, conservazione della DDR come unità
statale separata – Heym sceglie la terza ipotesi, sostenuto da
Gunter Grass, il più acceso oppositore occidentale dell’unità
tedesca.
Riaffiora la speranza di poter finalmente realizzare “un vero
socialismo su suolo tedesco”, accanto all’illusione che un
paese di questo tipo alletterebbe non solo i tecnici della
politica ma anche il mondo dell’economia. Ma Heym teme che
sia già troppo tardi. In effetti, il tempismo di Kohl è
encomiabile. Il 28 novembre il cancelliere annuncia a sorpresa
il suo programma in dieci punti per la riunificazione tedesca.
Dalle reti televisive occidentali piovono a raffica dati
catastrofici sull’economia socialista e sullo stato
d’inquinamento delle zone industriali. Abili reporter perlustrano
la capitale a caccia di quelle immagini che verranno poi riprese
dai media internazionali, dando così il via alla liquidazione
virtuale della DDR.
D’altra parte non si può dire che le strutture politiche della
DDR restino immobili. Viene costituita una “tavola rotonda” alla
quale siedono i cinque vecchi partiti accanto a sette gruppi
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d’opposizione. Tra le prime delibere vi è lo scioglimento dei
servizi nazionali di sicurezza, la famigerata Stasi. Commissioni
d’inchiesta vengono nominate per fare chiarezza sul
comportamento dei Vopos. Nel frattempo la Sed assume il
nome di Pds (Partito Socialista Democratico) ed elegge a
segretario Gregos Gysi. Questi esordisce presentando “al
popolo le scuse del partito che con la gestione precedente ha
condotto il paese in una crisi che minaccia di comprometterne
l’esistenza”. Si sente nel complesso un bisogno di “far pulizia”,
preferibilmente senza interferenze esterne.
Ma già in dicembre, lo sgretolamento della DDR inizia dalla
scuola. Si richiede a gran voce un’immediata riforma
scolastica: soprattutto si tratta di abolire da subito il marxismo-
leninismo, materia obbligatoria in tutte le scuole; inoltre, la
gioventù DDR non vuole più studiare il russo e preferisce
l’inglese. Come effetto immediato, un migliaio di insegnanti di
russo vengono licenziati dalle scuole berlinesi e diventano i
primi disoccupati della nuova storia tedesca.
Contemporaneamente nelle case editrici vengono sospese,
oltre alle pubblicazioni d’impianto politico, storico e filosofico,
le collane di letterature est-europee, ivi compresa quella
prestigiosa dei classici russi, lasciando senza lavoro il
gigantesco stuolo di traduttori e redattori addetti alle relazioni
culturali con l’Europa dell’Est.