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si riscontrassero, invece, meccanismi discriminatori basati su criteri
ascrittivi che sono la negazione di quegli stessi principi. Infine, dato che
quella delle donne che si indirizzano verso una professione alta come la
docenza accademica è una scelta lavorativa forte e invasiva, volevamo
vedere se dalla loro esperienza e dal loro percorso poteva emergere un
approccio al lavoro e alla carriera diverso da quello maschile finora
dominante.
Nel primo capitolo, dunque, partiamo dal considerare il mercato del
lavoro in generale ed evidenziamo i cambiamenti verificatisi negli ultimi
decenni nella quantità e qualità dell’offerta di lavoro femminile nei paesi
europei, mostrando alcuni dei fattori che hanno esercitato la loro influenza
sia dal lato della domanda che dell’offerta di lavoro: si nota, così, tra
l’altro, il forte intreccio tra vita privata e professionale delle donne dovuto
alla perdurante ineguale distribuzione del lavoro di cura tra i generi. Ciò
che emerge è soprattutto la necessità di adottare un’impostazione analitica
di tipo relazionale per poter cogliere, appunto, le interrelazioni tra lavoro
remunerato e non remunerato, tra pubblico e privato, tra oneri familiari e
impegni lavorativi, e questo non soltanto per comprendere le forme di
partecipazione femminile al mercato del lavoro, ma anche il tipo di
partecipazione maschile predominante.
Si affronta, poi, anche attraverso dati e informazioni di tipo
quantitativo, il problema della segregazione orizzontale e verticale del
lavoro delle donne. Per il primo aspetto risultano fondamentali motivazioni
e fattori di tipo culturale insieme a pregiudizi e stereotipi su ciò che è
ritenuto più o meno adatto e consono alle donne piuttosto che agli uomini,
fattori questi che affondano le loro radici nel più lontano passato ma che
continuano ancora oggi ad esercitare fortemente la loro influenza, come
traspare, ad esempio, dalle diverse e opposte scelte educative compiute da
7
ragazze e ragazzi. Per il secondo aspetto, invece, si prendono in
considerazione alcuni meccanismi fondamentali per la progressione di
carriera all’interno delle organizzazioni di lavoro, mostrando lo svantaggio
femminile derivante principalmente dal fatto di appartenere ad un gruppo
rimasto per un periodo di tempo secolare al di fuori dei giochi di potere, un
gruppo, inoltre, ancora minoritario all’interno delle organizzazioni stesse e
non omofilo con chi occupa le posizioni di vertice sia all’interno sia
all’esterno dell’ambiente lavorativo.
Nel secondo capitolo si passa a descrivere la situazione della
presenza lavorativa femminile nelle Università, iniziando dai paesi
anglosassoni, in cui la produzione di studi e ricerche sull’argomento è stata,
finora, più ampia, per toccare poi altri paesi, sia europei sia del continente
africano e asiatico, e concludendo infine, in modo più approfondito, con il
caso italiano. Nonostante le diversità culturali e strutturali di questi paesi e
dei rispettivi sistemi educativi ed universitari, i dati raccolti risultano
omogenei ed uniformi nell’evidenziare la bassa presenza accademica
femminile e la sua duplice segregazione. Inoltre, i percorsi di carriera delle
donne, a parità di altre condizioni, risultano più lenti e vischiosi di quelli
maschili, e questa è una delle prove che l’evidente svantaggio femminile
non deriva semplicemente dal tardivo inserimento delle donne
nell’Università.
È, però, soprattutto nel terzo capitolo, che si mettono a confronto i
dati relativi alle carriere maschili e femminili, dai quali emerge, appunto, la
migliore progressione delle carriere maschili. Presentiamo, allora, un
modello teorico interpretativo dei meccanismi di riproduzione delle
disuguaglianze all’interno delle organizzazioni di lavoro, applicandolo al
caso specifico dell’ambiente accademico.
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Emerge, così, uno svantaggio femminile iniziale generalmente
presente fin dall’accesso alla carriera universitaria, dovuto a pregiudizi e
stereotipi culturali che comportano, da un lato, una distorsione delle
preferenze già riscontrabile negli orientamenti educativi dei giovani nella
scuola secondaria, dall’altro, una scarsità di incoraggiamenti e di sostegni a
proseguire o iniziare l’iter accademico sia da parte di insegnanti e docenti
sia da parte del nucleo familiare.
Una volta intrapresa la carriera accademica, si nota poi che, ai fini
dell’avanzamento in essa, gioca un ruolo non indifferente tutta una serie di
fattori che esercitano la loro influenza anche in altre organizzazioni
lavorative e che spesso hanno poco a che vedere con le capacità e, in questo
caso specifico, con i meriti scientifici delle persone. Rilevanti risultano, a
questo proposito, le caratteristiche personali di tipo ascrittivo che
assicurano una certa affinità ed omofilia con i selezionatori e i detentori del
potere e delle risorse accademiche: così, accanto alle norme concorsuali
assumono particolare rilievo meccanismi di tipo cooptativo che
penalizzano, appunto, coloro che non godono di quel determinato status
ascritto. Notevole importanza è rivestita, inoltre, da un buon inserimento
nelle reti di relazioni informali e nei networks di potere, sia interni sia
esterni all’Università. Infine si evidenzia il diverso effetto esercitato dalla
famiglia sulla carriera di uomini e donne, soprattutto in relazione all’uso e
alla disponibilità di tempo, risorsa fondamentale questa non solo per il
lavoro di approfondimento scientifico, ma anche per l’instaurazione di tutti
quei legami e quelle relazioni utili per la propria visibilità e il buon
inserimento nell’ambito accademico.
Nel quarto ed ultimo capitolo si presenta, infine, uno studio di caso,
fondato sull’analisi di nove interviste somministrate a docenti dell’Ateneo
fiorentino, scelte in base al settore disciplinare di appartenenza e al rango
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accademico ricoperto. Scopo delle interviste era valutare se quanto emerso
nel corso dell’analisi condotta trovasse rispondenza nell’esperienza e nel
vissuto familiare e professionale delle protagoniste.
Così, dopo aver constatato anche per l’Università di Firenze un
andamento della distribuzione della docenza femminile analogo a quello
nazionale ed internazionale, caratterizzato cioè da una bassa presenza di
accademiche ai vertici della scala gerarchica e da una loro maggiore
presenza nelle discipline e nei settori considerati tradizionalmente
femminili e con minor grado di professionalizzazione, si mostrano poi i
risultati emersi dalle interviste, cercando di evidenziare somiglianze e
differenze nelle opinioni espresse e nelle esperienze vissute a seconda del
rango accademico e del settore di appartenenza delle intervistate.
Oltre ad alcune valutazioni sulla mobilità geografica e sociale di
queste docenti, così come sulla formazione della propria identità lavorativa
e sul rapporto tra scienza e genere, ci si sofferma sui percorsi di carriera e
sulla gestione dell’organizzazione familiare affrontando, appunto, il
problema della ricerca di un equilibrio tra questi due aspetti. Si parla inoltre
dei meccanismi di carriera e concorsuali, dell’inserimento nei networks e
della gestione del potere accademico.
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CAPITOLO PRIMO
Mondo del lavoro, scelte educative e
disuguaglianza di genere
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1.1 Donne e mercato del lavoro: crescita della partecipazione
femminile.
Uno dei fenomeni più rilevanti degli ultimi quarant’anni, che ha
investito il mondo del lavoro in tutti i paesi occidentali, è stata la vistosa
crescita della partecipazione femminile al lavoro extradomestico e
retribuito (Reyneri 1996, cap. IV).
Che le donne abbiano sempre lavorato, all’interno e all’esterno della
sfera domestica, è un dato ormai acquisito dalla storiografia così come
dall’antropologia, “anche se della presenza femminile nel mondo
produttivo del passato non si hanno certezze numeriche, e spesso neanche
approssimazioni attendibili” (Groppi 1996, Introduzione, p.VI). Questa
indeterminatezza quantitativa, che riguarda tutto il mondo del lavoro
preindustriale, è molto più forte quando si tratta di analizzare la
partecipazione femminile rispetto a quella maschile.
Infatti, l’identità sociale femminile, è stata definita quasi
esclusivamente in relazione allo stato civile e alla posizione della donna
all’interno della famiglia, e non in relazione al lavoro, come per gli uomini.
Questo ha portato ad una invisibilizzazione del lavoro femminile, in tutti i
suoi aspetti, invisibilizzazione che ancor oggi stenta a morire.
Perciò, il più delle volte, consultando le fonti dell’epoca, ci si trova
di fronte ad una totale omissione della presenza lavorativa delle donne,
1
sia
nei mestieri tipicamente femminili, sia, e ancor più, in quelli considerati
maschili.
“D’altra parte anche nel pieno dell’epoca statistica i dati non sempre
sono attendibili” (Groppi 1996, p.VII). Come i sociologi ben sanno, gli
1
Presenza che può emergere invece dall’analisi di documenti e fonti diversi dai registri
fiscali ufficiali e parrocchiali.
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stessi metodi di classificazione, raccolta e analisi dei dati possono
distorcere e alterare in modo arbitrario la realtà della situazione lavorativa
studiata. Inoltre, il carattere spesso ancora intermittente e informale di
molta parte del lavoro femminile, porta a sottostimare la presenza delle
donne nel mercato, e ad ingrossare le fila di coloro che vengono stimate, o
che si autodefiniscono, casalinghe.
2
L’aumento della partecipazione femminile nel mercato del lavoro è
comunque un dato inequivocabile, ed ha riguardato, anche se in tempi
diversi, tutti i paesi del mondo occidentale. Alcuni di essi, come i Paesi
Scandinavi e la Danimarca, insieme agli Stati Uniti e al Canada, hanno
anticipato, negli anni Sessanta, questo trend, seguiti a ruota dalla
maggioranza dei paesi europei.
Dato che le tendenze dei diversi paesi sono state comuni, anche se
possono aver investito periodi di tempo diversi, la gerarchia relativa ai tassi
di occupazione dei vari paesi rimane praticamente invariata dagli anni
Settanta ad oggi. La conferma viene anche da recenti dati Eurostat relativi,
appunto, al tasso di occupazione femminile nel 1997 (Eurostat 1998, pp.4-
5). Si nota, qui, che i livelli di occupazione più alti rimangono quelli
nordici, con una punta massima del 76,3% in Islanda, il 70% circa in
Danimarca, il 66,8% in Svezia, e ancora, valori intorno al 60% interessano
Gran Bretagna, Finlandia e Austria. Superano quota 50%, in ordine
2
A questo proposito è interessante il dato emerso da una ricerca condotta nel ferrarese,
alla fine degli anni Ottanta. Ad un campione di donne in età lavorativa, era stato chiesto
di descrivere la propria collocazione nel mercato del lavoro, secondo la percezione che
avevano di essa anche in rapporto alla loro condizione non professionale. Ebbene, tra
coloro che si definivano “casalinghe”, ben il 64% aveva svolto un’attività lavorativa
nell’anno di riferimento (metà era stata impegnata in lavori autonomi e a domicilio,
l’altra metà come impiegata ed operaia). Inoltre, tra le “disoccupate in cerca di lavoro”,
più della metà preferiva definirsi “casalinga”; definizione, questa, non gradita alle più
giovani “in cerca di prima occupazione”, che preferivano autodefinirsi “studentesse” o
“disoccupate” (Gruppo Onda 1991).
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crescente, Francia (52%), Germania, Portogallo, e Olanda (con il 57%). La
media Europea è del 50,4%, gli altri paesi si attestano tutti al di sotto di
questa cifra, e l’Italia con il suo 36,2% supera soltanto, e di poco, la
Spagna.
Il nostro paese, dunque, ha visto aumentare i tassi di attività
femminili nella seconda metà degli anni Settanta, ma in venti anni è
riuscito a ridurre di poco la distanza che lo separa dagli altri paesi della
Comunità. Insieme ai tassi di attività sono aumentati quelli di occupazione,
e spesso anche quelli di disoccupazione femminile, dato che questa offerta
di lavoro, non si traduce sempre in impiego.
3
Ma ciò che più ci interessa, oltre all’evidenza del dato quantitativo
relativo all’accresciuta partecipazione lavorativa femminile, è il
cambiamento nella qualità di questa partecipazione, cioè il cambiamento
nei modi e nella sostanza della presenza femminile sul mercato del lavoro.
Il dato più rilevante è, infatti, che il nuovo modello di partecipazione
femminile che si è andato affermando dagli anni Ottanta in poi, è del tutto
simile a quello maschile, nei tempi e nei modi di permanenza nel mercato,
ed è molto meno influenzato, rispetto al passato, dal ciclo di vita familiare.
Sappiamo, come nota la Groppi, che “la partecipazione ai processi
produttivi è per tutti, uomini e donne, il risultato di una interazione tra
3
La “teoria del lavoratore scoraggiato” può, in parte, spiegare gli andamenti paralleli
dei tassi di occupazione e di disoccupazione, che aumentano e diminuiscono insieme.
Essa suggerisce che ci sia una minore propensione, da parte dei soggetti, a porsi sul
mercato del lavoro quando la situazione economica è depressa (“effetto di
scoraggiamento”), per cui questi individui, al diminuire del livello di occupazione,
invece di ingrossare le fila dei disoccupati, si ritirano tra gli “inattivi”. Questa relazione
vale anche in senso inverso, perciò, quando la domanda di lavoro è forte, gli inattivi
(cioè principalmente la componente “secondaria” dell’offerta, costituita da giovani,
donne e anziani) incoraggiati dalla congiuntura economica favorevole, si ripresentano
sul mercato. Di qui l’aumento, insieme, di occupazione e di disoccupazione, dato che
domanda e offerta non sono indipendenti, ma si influenzano a vicenda (Reyneri 1996,
cap.III).
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strategie domestiche e mondo del lavoro” (Groppi 1996, p.XV). Per le
donne, però, data la loro posizione subordinata all’interno della famiglia, il
carico domestico ha rappresentato, e rappresenta tuttora, un vincolo molto
maggiore, che le influenza pesantemente nelle scelte lavorative.
Così mentre “l’estensione temporale delle carriere maschili è
indipendente (o quasi) da ogni altra variabile che non sia lo stato
dell’economia e del mercato del lavoro”, non si può dire lo stesso per la
situazione femminile (Bison, Pisati, Schizzerotto 1996, p.268).
Mediamente, infatti, le carriere lavorative delle donne sono più brevi
rispetto a quelle degli uomini; sono, come vedremo, maggiormente
influenzate dal titolo di studio; risultano, inoltre, condizionate dal
matrimonio, e ancor più dalla maternità, che hanno l’effetto di ostacolarle e
abbreviarle.
Fino agli anni Settanta, la partecipazione delle donne al mercato del
lavoro è stata molto influenzata da questi fattori. Attraverso l’analisi delle
curve dei tassi di attività per età, si possono così individuare due modelli
principali di presenza delle donne nel mercato del lavoro, corrispondenti a
due aree socioculturali e geopolitiche diverse; due modelli che mostrano,
rispettivamente, una diversa incidenza del ciclo di vita familiare
sull’attività lavorativa delle donne.
Infatti, fino ai primi anni Ottanta, la curva dei tassi di attività
dell’Europa centro-settentrionale presentava una caratteristica forma “a
M”: ciò indicava una partecipazione delle donne molto elevata fino ai
venticinque anni di età, cui seguiva un periodo di ritiro dal mercato del
lavoro al momento del matrimonio e soprattutto alla nascita del primo
figlio, e, successivamente, intorno ai trentacinque anni, un rientro nel
mercato poiché i figli erano cresciuti e gli oneri familiari meno gravosi.
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L’Europa meridionale, invece, con il suo scarso e poco efficiente
Welfare State, e con una tradizione socio culturale diversa dalla maggior
parte dei paesi del nord Europa, oltre a presentare un tasso di attività
femminile inferiore, mostrava anche una permanenza lavorativa delle
donne di minore durata, con una curva dalla caratteristica forma “a L
rovesciata”. Fino ai venticinque anni di età i tassi di attività femminili
erano appena inferiori a quelli dell’Europa settentrionale, ma l’uscita dal
mercato del lavoro era più netta e il rientro quasi inesistente.
Dagli anni Ottanta, però, comincia ad affermarsi un modello di
partecipazione diversa, simile a quella maschile, rappresentato dalla
cosiddetta curva a forma di campana “con un tetto molto lungo”, che indica
una presenza femminile, nel mondo del lavoro, non più temporanea, ma
stabile, che inizia intorno ai 25 fino agli oltre 50 anni, per poi cominciare a
declinare (Reyneri 1996, p.93). Questo modello caratterizza la
partecipazione femminile nei Paesi Scandinavi e in Danimarca, ma sta
sostituendo la cosiddetta curva ad M anche in Francia, Germania e Gran
Bretagna, e lo stesso cambiamento si verifica nei paesi dell’Europa
meridionale, anche se in diversa misura per Italia, Grecia e Portogallo,
mentre la Spagna rimane caratterizzata dal modello a L rovesciata.
In Italia sono soprattutto le regioni centrosettentrionali a presentare
questa nuova curva a campana, con in testa l’Emilia-Romagna, che detiene
anche il più alto tasso di attività femminile del nostro paese, nonché il più
basso tasso di natalità del mondo, e la Lombardia (Reyneri 1996, cap. IV).
Gli incrementi della partecipazione lavorativa femminile in Italia,
nell’ultimo trentennio, sono stati veramente notevoli, e lo sono ancor più se
si pensa che sono stati raggiunti senza un significativo aumento del part
time, che è invece molto diffuso nel nord Europa, Gran Bretagna in testa, e
senza un’incisiva riorganizzazione della società e degli oneri familiari.
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La crescita della forza lavoro femminile verificatasi nei paesi
occidentali, è avvenuta grazie a diversi fattori concomitanti, sia strutturali
sia socioculturali.
Dal lato della domanda, ad esempio, è stato decisivo l’esteso
ampliamento del terziario, settore che si va sempre più femminilizzando:
all’inizio di questo decennio il 40% delle donne era occupata nel terziario,
e in Francia e in Gran Bretagna la quota ha già superato da tempo il 50%.
Questo settore, inoltre, comprende, per lo più, attività tradizionalmente
demandate alle donne: dall’assistenza ad anziani e malati, all’educazione
dei giovani. Attività che un tempo le donne svolgevano all’interno delle
mura domestiche, e che adesso si sono professionalizzate.
Il lavoro nel terziario è poi generalmente caratterizzato da un orario
ridotto e più flessibile, e viene dunque incontro alle esigenze di gestione
della famiglia da parte delle donne, alla cosiddetta “doppia presenza”, di
cui parleremo più avanti. Inoltre, al pubblico impiego si accede per
concorso su titoli ed esami, quindi attraverso “meccanismi di selezione
all’ingresso molto formalizzati e indifferenti agli attributi di genere”, perciò
non penalizzanti per le donne, come, invece, lo sono quei meccanismi in
cui discrezionalità e cooptazione sono alte (Reyneri 1996, p.119).
Anche dal lato dell’offerta di lavoro, quella femminile, si è molto
modificata: le donne sono sempre più scolarizzate, e il possesso di un
elevato titolo di studio allunga la loro permanenza tra le forze lavorative;
4
il lavoro, inoltre, non è più visto come una parentesi temporanea in attesa
del matrimonio, ma è considerato uno degli elementi centrali del progetto
di vita. I movimenti femminili e femministi, negli anni Settanta, hanno
contribuito alla formazione di una nuova identità e coscienza femminile.
4
Come indica la già citata ricerca di Bison, Pisati e Schizzerotto, 1996.
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Sono cambiati i valori e soprattutto gli stili di vita di uomini e donne.
La separazione tra sessualità e procreazione ha dato alle donne la
possibilità di gestire e organizzare, diversamente dal passato, la propria
vita; il tasso di matrimonio si è abbassato, e l’evento stesso si è posticipato;
anche il tasso di fecondità è diminuito e la nascita del primo figlio avviene
in età più avanzata.
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L’intrecciarsi ed influenzarsi di questi ed altri fattori insieme, ha
condizionato positivamente l’ingresso, la presenza e la permanenza delle
donne nel mercato del lavoro. Però, nonostante il miglioramento delle
condizioni e opportunità lavorative femminili, le disuguaglianze di genere
nella partecipazione al lavoro permangono in maniera più meno vistosa, per
profonde cause strutturali e culturali.
Le donne continuano, infatti, ad entrare nel mondo del lavoro come
agenti sociali subordinati, poiché la loro posizione subordinata all’interno
della famiglia e della società nel suo complesso, precede quella lavorativa.
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Le lavoratrici partono, fin dall’inizio, da una situazione svantaggiata, e si
trovano a competere ad armi impari con i colleghi, che godono di più
tempo a disposizione e, generalmente, non sono vincolati, né fisicamente
né psicologicamente dalle responsabilità nella cura quotidiana della
famiglia.
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Va notato, però, che la posticipazione della nascita dei figli non è sempre frutto di una
libera scelta e specchio della conquista di una maternità consapevole. In realtà, invece,
nasconde spesso una perdurante mancanza di autonomia nelle scelte delle donne, che si
trovano costrette a rinviare o, persino, a rinunciare ad una maternità desiderata. Come
sottolineano Carmignani e Pruna: “ Se in passato si rinunciava spesso al lavoro per la
maternità oggi comincia ad accadere il contrario” 1991.
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Questa è, poi, la tesi esposta nel lavoro di Bettio, secondo cui, appunto, la divisione
sessuale del lavoro salariato è determinata principalmente da una doppia subordinazione
femminile: nella società e all’interno della famiglia. L’autrice ipotizza, inoltre, che
questa subordinazione nasca dal bisogno di controllare la capacità riproduttiva
femminile, come risorsa economica fondamentale (Bettio 1988, Introduzione e Cap.I).
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L’ineguale strutturazione del lavoro di cura, e il conseguente minor
tempo libero a disposizione delle donne, le penalizza anche dal punto di
vista della progressione di carriera, poiché limita la loro possibilità di
formazione professionale e di aggiornamento continuo. La mancanza di
tempo libero, inoltre, rende più difficoltoso intessere quelle reti di relazioni
informali che sono invece indispensabili per la propria visibilità e carriera.
A tutto ciò si aggiungono una struttura e un sistema organizzativo dei
luoghi di lavoro non neutrali rispetto alle diversità di genere, ma centrati
sulla figura del lavoratore maschio adulto capofamiglia, che certo non
semplificano né facilitano la permanenza e il recente ingresso femminile
nei diversi ambiti lavorativi.
Per questi ed altri fattori, che vedremo più avanti, ci troviamo ancor
oggi di fronte ad una situazione di perdurante segregazione occupazionale.
Nel prossimo paragrafo, analizzeremo questo fenomeno nelle sue diverse
forme di segregazione orizzontale, verticale ed intraoccupazionale.