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Molte studiose influenzate dalle idee del femminismo degli anni ‘70
hanno incentrato la loro attenzione sulla criminalità femminile.
Le ricerche sono dunque recenti e anche quantitativamente
inferiori rispetto a quelle effettuate sulla criminalità in generale.
Fino a trenta anni fa gli studi criminologici prendevano per lo più,
come esempio un modello maschile tralasciando la questione
femminile, soprattutto perché il numero delle condannate, delle
imputate e delle detenute è sempre stato inferiore rispetto a
quello degli uomini.
Le vecchie teorie spiegavano questo squilibrio numerico in base
alle caratteristiche biologiche e psicologiche delle donne, creando
un tipo ideale di donna biologicamente predisposta al crimine,la
delinquente nata .
Per lungo tempo le teorie di stampo biodeterministico sono state
dominanti.
Anche quando tali dottrine furono affiancate da altre di tipo
sociologico e culturale che consideravano altri elementi della
criminalità - come all’inizio del secolo scorso -,il problema della
delinquenza femminile era affrontato sempre in termini
biopsicologici.
La criminalità femminile era trattata come un fenomeno a sé
stante, costruita dunque come un’eccezione, eccezione rispetto
alla maggioranza delle donne che si conformavano alle norme
sociali, ed eccezione rispetto alla criminalità in genere ( maschile ).
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Negli anni ‘70 con la comparsa di studiose attente alla questione
femminile cominciano a proliferare analisi sulla donna criminale.
I primi passi compiuti da queste donne sono stati di contrasto e
critici verso le precedenti teorie e anche verso quelle
contemporanee, quelle dunque che hanno trascurato l’elemento
femminile nella criminalità.
Nel processo alle dottrine di stampo maschilista sono denunciati
il disinteresse e l’insensibilità della maggior parte degli studiosi
verso la donna criminale, concludendo che ciò ha portato ad una
visione imparziale e in completa della criminalità nel suo
complesso.
In particolar modo è criticato il differente approccio utilizzato per i
due generi; la delinquenza femminile spiegata ancora in termini
biologici, mentre per quella maschile si accettavano ipotesi diverse
di dottrine moderne, più esplicative di stampo sociologico e
culturale.
L’opinione più attaccata da parte di queste studiose era quella che
riconduceva la delinquenza femminile ad una devianza
determinata da fattori sessuali (mancanza istinto materno ecc.)
Successivamente ad una demolizione delle teorie biologiche, si
affronta il problema da un’altra visuale, si osserva analiticamente
la condizione sociale delle donne imputate, detenute e
condannate, entrando in contatto diretto con queste donne e
intervistandole per esplorare dall’interno l’universo criminale
femminile.
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Emerge un quadro ampio e generale, sottolineando le
caratteristiche sociologiche delle stesse, molte tra queste
provengono da classi sociali inferiori e vivono in precarie
condizioni familiari, il poco controllo esercitato dalla famiglia di
provenienza le ha portate ad essere più predisposte a delinquere.
Questi studi creano un tipo di donna criminale totalmente in
contrasto con la “delinquente nata” della scuola positivista.
Superando, così, la teoria biologica che riteneva la donna
incapace di commettere alcune tipologie di reati. I nuovi studi
differenziano le due facce della criminalità, maschile e femminile,
più per la quantità che la qualità dei reati, affermando che le donne
sono in grado parimenti come gli uomini di commettere qualunque
reato ,la differenza risulta essere solo numerica.
Queste donne, in realtà, non sono né pazze nè psico-
biologicamente diverse.
Negli anni ‘70 due studiose approfondiscono gli studi sul
fenomeno della criminalità femminile ed, entrambe, affermano che
i tassi di criminalità siano cresciuti e che ciò sia dovuto al processo
di emancipazione femminile.
Frieda Adler sostiene che le donne negli ultimi anni, diventando
più simili all’uomo, acquisirebbero anche comportamenti
aggressivi e violenti in misura superiore rispetto alle generazioni
precedenti.
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L’emancipazione femminile, allentando i vincoli di carattere sociale
e culturale, dà più possibilità alla donna di esprimersi anche
nell’ambito criminale.
Rita Simon, invece, analizza che l’emancipazione offre più
possibilità di guadagni e di carriera sia lecita che illecita. Le donne
potrebbero dunque facilmente scegliere una via alternativa ad una
vita normale per soddisfare esigenze di guadagno; ciò
spiegherebbe, secondo la Simon, un progressivo incremento dei
reati commessi dalle donne ed in particolare quelli di tipo
acquisitivo (reati contro la proprietà).
Anche altri autori sostengono che il mutamento del ruolo sociale
della donna ha alterato gli schemi tradizionali, modificando la sua
condizione sia in generale che nello specifico dell’ambito
criminoso.
Alcuni ritengono che vi sia una relazione tra la modifica del ruolo,
realizzatosi attraverso i processi di emancipazione, e il mutamento
quantitativo - qualitativo dei comportamenti criminali femminili
(Labelling theory, esponenti principali Lemmert, Becker) ( teoria
dell’emancipazione).
Questa teoria ispirata ai movimenti femministi individua negli atti
criminosi una volontà di ribellione e di rifiuto ad una condizione di
subalternità.
Si evidenzia che la donna, con l’emancipazione, entrando in
diretto contatto con la sfera pubblica e staccandosi dal suo nucleo
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familiare, è maggiormente esposta alla possibilità di violare la
norma.
L’aumento quantitativo e il mutamento qualitativo della criminalità
femminile è dunque spiegato come conseguenza di una maggiore
esposizione della donna al crimine, in quanto più introdotta nella
vita sociale.
La critica più forte, della corrente femminista, alle teorie anteriori
è quella di aver trattato la criminalità femminile in maniera
differente e di non aver esteso gli studi e i paradigmi sulla
criminalità in generale anche alle donne.
Tuttavia la lacuna delle vecchie teorie non può semplicemente
essere colmata estendendo le stesse ipotesi anche alle donne:
questo è un grosso errore in cui sono incorse molte studiose degli
anni 70.
Non bisogna aggiungere l’elemento femminile nelle teorie
preesistenti, ma serve uno studio più attento che prenda atto delle
differenze tra i due tipi di criminalità e reimposti il problema.
Le teorie recenti hanno introdotto il concetto di mascolizzazione
della donna, un fenomeno che ha seguito il processo di
emancipazione, secondo cui la donna ha assunto sempre di più
caratteristiche del maschio, tesi che sono state contestate da più
parti e per diverse motivazioni.
Prima di tutto, perché non tengono conto delle diversità indotte
dall’appartenenza di genere, ma, come già accennato, mirano ad
estendere le teorie generali anche alle donne criminali.
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Ciò è criticato perché le due questioni vanno affrontate in termini
differenti, non per ragioni biologiche, come affermato dalla scuola
positivista, ma per ragioni psicologiche, sociali e culturali.
Non basta affermare la parità tra donne ed uomini per estendere
anche tutte le teorie psicologiche o sociologiche ad essa; se pure
la distanza tra i due sessi è diminuita ciò non esclude che esistano
ancora profondi solchi.
I processi di riforma attraverso modifiche legislative hanno
ottenuto un’eguaglianza formale ma non sostanziale; ciò non vuole
essere conferma di alcun pregiudizio sul ruolo femminile, ma la
donna è diversa e dunque le questioni psicologiche e sociologiche
vanno impostate differentemente, quindi anche la questione
criminale va analizzata tenendo conto delle peculiarità dei due
generi.
Un altro limite che viene contestato a queste teorie è
l’imparzialità. Difatti, le ricerche sono state condotte
esclusivamente da donne che mirano più a demolire i pregiudizi
creati da teorie, come quella della delinquente nata, che ad
analizzare attentamente il fenomeno criminale femminile.
Inoltre un altro elemento che viene contestato è la veridicità del
numero dei reati. Queste studiose hanno affermato che
l’emancipazione femminile ha portato ad un incremento dei reati
commessi da donne; in realtà, esaminando i dati dell’ISTAT, non vi
è un aumento dopo gli anni ‘70 ma solo un leggero mutamento
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dopo gli anni 90 che non sembrerebbe conseguenza del processo
di emancipazione (Fonte: ISTAT).
Nell’analizzare la scarsa presenza di donne nella criminalità si è
avvalorata la tesi, già in passato sostenuta da autori come Pollack,
dell’elemento cavalleresco.
Le donne, secondo alcuni autori, godrebbero di un trattamento di
favore sia da parte delle organizzazioni criminali (che lascerebbero
ricoprire un ruolo di supporto) sia da parte della società (che
renderebbe impuniti taluni reati omettendone la denuncia) sia
dall’ordinamento che reagirebbe in maniera differente nei confronti
delle donne.
Tali idee sono state confutate prima di tutto perché la donna
assume sempre di più un ruolo attivo nella criminalità; in secondo
luogo il numero di denunce è leggermente in aumento, quindi non
vi è tendenza a proteggere i delitti femminili. Infine non è stata
riscontrata alcuna disuguaglianza nel trattamento sanzionatorio.
Nell’analizzare i dati rilevati annualmente dall’ISTAT emerge una
serie di caratteristiche della donna criminale, ma è opportuno
chiarire alcuni punti relativi ai dati.
In primo luogo si devono richiamare i limiti di un’analisi statistica
sulla criminalità. E’ nota, infatti, l’incidenza che ha sul fenomeno il
numero oscuro.
Il numero oscuro è quella quantità di reati che rimangono
sconosciuti alla collettività e quindi non rientra nelle statistiche
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perché non portati a conoscenza delle autorità ( reati non
denunciati).
Questo fattore secondo alcuni è di maggiore incidenza nell’ambito
femminile. Le statistiche ufficiali riescono a cogliere solo quella
parte di persone e di comportamenti che vengono colpiti da una
sanzione pubblica.
Le statistiche colgono quella sezione d’atti che sono criminalizzati.
Indirettamente le statistiche offrono più un quadro ampio della
reazione sociale alla devianza che un quadro della criminalità
femminile.
Pertanto l’immagine che questi dati possono suggerire è
esclusivamente quella della donna criminalizzata il cui
comportamento illegale viene sanzionato attraverso la reclusione
carceraria.
Un primo elemento che si evince è la scarsa presenza delle
donne in carcere.
La donna detenuta è una donna prevalentemente giovane ,la
fascia di età più presente all’interno degli istituti penitenziari è
quella che va tra i 18 e i 29 anni, e in generale è al di sotto dei 40
anni.
La maggior parte delle detenute è nubile, di bassa estrazione
sociale e di scarso livello d’istruzione.
Le donne sono in carcere soprattutto per reati contro il patrimonio;
sono però in aumento i reati contro l’ordine pubblico e conto le
istituzioni dello Stato.
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Da questo punto di vista torna utile l’ipotesi di un collegamento
tra le modificazioni del ruolo sociale femminile e la diversa qualità
dei comportamenti criminali delle donne.
Questa ipotesi tuttavia suggeriva anche un aumento quantitativo
della criminalità femminile, dato questo non confermato dalle
statistiche dell’ISTAT, dove vi è una presenza numerica costante
di donne in diminuzione fino al 1994. (Fonti: ISTAT. Statistiche
giudiziarie, Ministero di Grazia e Giustizia ).
Si è rilevato dunque che è soprattutto una donna giovane ad
essere criminalizzata e lo è soprattutto per reati contro il
patrimonio e lo Stato, mentre le donne anziane sembrano meno
esposte alla criminalità se non in piccola percentuale per reati
contro la famiglia e la persona.
La diminuzione della presenza di donne dopo i 40 anni può essere
messa in relazione con la specificità del ruolo femminile.
Le donne nella fascia che va dai 35 ai 50 anni svolgono una
funzione fondamentale nella famiglia, sia nell’ambito di
socializzazione dei figli che nella gestione produzione di risorse.
Questo dato,da un lato evidenzia che tali donne sono più stabili e
meno esposte alla devianza, dall’altro suggerisce un’attenzione
maggiore da parte delle strutture di controllo verso le donne più
giovani.