7 
 
verità ma il risultato dell’interazione tra un fenomeno e l’osservazione del 
fenomeno stesso che non può non modificarlo. 
Rimanendo nel nostro ambito, in medicina, si è osservato in molteplici 
occasioni come le intenzioni di chi conduce un esperimento entrino a far parte 
dell’esperimento stesso  condizionandone il risultato. 
Nelle ricerche medico scientifiche più rigorose, per evitare interferenze 
causate dalle aspettative di chi conduce la ricerca, si segue un protocollo 
definito in “doppio cieco”. Ciò significa che la ricerca viene condotta 
parallelamente su due gruppi di soggetti: a uno viene ad esempio 
somministrata la sostanza di cui si vogliono studiare gli effetti e all’altro 
gruppo viene somministrato un “placebo”, sostanza nota per non avere alcun 
effetto. Durante la ricerca né i medici né i pazienti sanno quale dei due gruppi 
riceve la vera sostanza e quale il placebo, anzi i pazienti non devono nemmeno 
sapere che potranno ricevere un placebo. Il fatto stesso che il doppio cieco 
esista prova che il principio di indeterminazione di Heisenberg è applicabile 
anche alla realtà quotidiana e non riguarda solo le particelle subatomiche. 
 
 
۞ 
 
 
Fin qui ho trattato della problematicità  e quindi della necessità di un 
approccio relativistico al rapporto tra osservazione e verità ontologica 
nell’ambito della ricerca scientifica ed in particolare in ambito medico-
antropologico. 
Si necessita quindi di porre in evidenza il fatto che, più che di una verità 
aprioristica o una scoperta ante litteram, si tratterà di un’esperienza soggettiva. 
La stessa parola viene da due verbi greci: "peiro", che vuol dire attraversare, 
passare attraverso; "peirào", che vuol dire tentare, provare, fare esperienza, 
nonché dal termine "peira", che significa tentativo, esperimento, esperienza, 
per cui "empeiria" significa esperienza o conoscenza, o anche semplicemente 
abilità; mentre nel latino “ex-perior” il termine "-perior" implica la nozione di 
pericolo, prova, qualcosa con cui ci si misura, una prova attraverso cui passare. 
Quindi nell'esperienza c'è il passaggio e la prova, il pericolo e la misura: fare 
un'esperienza vuol dire passare là dove non si era mai passati. Il Sapere risiede 
nell’uomo che si salva nel fuoco, nel vissuto dell’esperienza e nell’immersione 
in una situazione “altra”, che emerge in questo contesto di “soggettività 
nell’apparente oggettività”; comunque, un tassello importante che si configura 
come un ulteriore elemento che permette di comprendere fatti sociali 
complessi, sia nel caso dello studio socio-antropologico delle terapie non 
convenzionali, sia nel vero e proprio iter di ricerca scientifico, empirico e di 
laboratorio. 
 8 
 
Questo per quanto riguarda una premessa epistemologica che non voglia 
pretendere meriti di verità assoluta riguardo situazioni e pratiche socio-
antropologiche difficili, complesse, spesso oscure e magari celate volutamente 
o meno. 
 
 
۞ 
 
 
Ho voluto prendere in esame un tema che reputo personalmente di grande 
attualità nonostante la sua storia millenaria, ovvero la medicina tradizionale, 
intendendo con questo termine non la medicina convenzionale e ufficiale 
(essenzialmente caratterizzata da uno stampo biomedico e incentrata sull’ 
anatomizzazione della patologia), bensì quella non convenzionale, 
erroneamente denominata “alternativa”. 
Erroneamente perché a tutt’oggi più di due terzi della popolazione mondiale 
non si può permettere economicamente le soluzioni della medicina 
“occidentale”, basate su cure farmacologiche e numerosi esami di laboratorio 
dipendenti da  tecnologie pesanti, costose e dall’alto turnover poco ecologico.  
Ma c’è anche un altro motivo per cui la medicina “alternativa” non è poi così 
alternativa. Il fatto è che i metodi, le tecniche, gli strumenti e i materiali di 
procedura usati da tempo immemorabile dai differenti sistemi di cura etnici, 
popolari, autoctoni, personalistici (piuttosto simili seppur con differenze 
sostanziali), sono rimasti vivi fino ai giorni nostri, mettendo in crisi la 
medicina ufficiale che spesso non sa rispondere a molte problematiche 
essenziali. 
Il revival che si assiste oggigiorno, motivato da molteplici esigenze pratiche e 
ragioni ideal-filosofiche, pone l’accento sull’utilizzo odierno e massiccio di 
sistemi di guarigione “altri”, e quindi l’urgenza oltre che la curiosità di capire 
in modo più sistematico una costellazione di saperi mai dimenticati. 
Un famoso studio condotto da Lalli, sociologa presso l’università di Bologna, 
è dedicato interamente a questo mondo di medicina parallela nella società 
contemporanea. La Lalli, portando a galla concetti essenziali per l’indagine 
sociologica delle pratiche di cura alternative, propugna in prima linea “l’idea 
di riconsiderare le pratiche in esame quale un contradditorio frammento di 
modernità”. Spiegando quest’idea programmatica, sono assolutamente 
d’accordo quando afferma e prosegue: “Contradditorio essenzialmente perché 
unisce al proprio interno tratti tipicamente «moderni» e tratti di solito attribuiti 
a istanze più prettamente «tradizionali». Ma l’idea di fondo è che tale 
contraddizione, lungi dal dover essere considerata in termini puramente 
oppositivi (…), sia invece già di per sé segno di una combinazione culturale in 
atto” (L’altra medicina e i suoi malati, 1988). 
 9 
 
Concetti come malattia, sintomo, guarigione, proprio attraverso questi saperi e 
pratiche Altre, acquistano un nuovo significato, pur dettato al suo interno da 
diversi sensi, ma in ogni caso tutti dalla parte del fruitore, malato o malato 
immaginario che sia. Proprio in questi sensi differenti ma omogenei, prende 
forma una feconda ontologia medica che ora andremo ad illustrare e che pone 
come asse portante il rapporto medico (o sciamano, guaritore,..)-paziente. 
Infatti, la struttura di questi modelli di medicina sono estremamente incentrati 
sul malato in quanto persona (dotata non solo di un corpo “scannerizzabile” 
ma anche di una vita sua propria costellata da esperienze, traumi, bagagli 
culturali peculiari propri), più che sul malato in quanto malato, cioè ridotto a 
puro sintomo o patologia. 
La persona portatrice di un disturbo o malattia si fa soggetto e non ammette 
oggettivizzazioni di sorta (se non quelle strettamente legate ad odierne analisi 
statistiche di esami di laboratorio). Si tratta di porre gran attenzione al valore 
della persona che si ha di fronte e che richiede, con tutta la fiducia che può 
avere un essere umano in un caso di necessità, di essere curata e guarita. 
Una persona dagli alti valori aggiunti, composti da innumerevoli fattori 
contingenti o stabili, e che possono riguardare appunto la sfera sociale, 
lavorativa, di status, di genere, col proprio bagaglio sociobiologico e culturale. 
Un malato visto anche da queste angolazioni permette di ampliare la veduta 
sul caso a trecentosessanta gradi, ampliando iter di ricerca in modo 
decisamente più ricco e multiprospettico. 
In questo senso sono d’accordo con Cavicchi quando afferma che “ripensare la 
medicina vuol dire ripensare i malati e i medici e questo si fa ripensando il 
pensiero che fino a ora li ha pensati” (Ripensare la medicina). Una formula 
direi sintetica ma ricca di rimandi filosofici e pratici. 
Nel dettaglio, riferendosi ai bagagli di conoscenze e pratiche indispensabili 
all’esercizio della medicina, lo stesso autore chiarisce che “la domanda 
sociale, a parte gli aspetti salutistici legati al benessere, è sempre più connotata 
come una nuova cultura della cura. E’ una domanda a un tempo di cultura e di 
scienza. Ciò in genere viene banalizzato con l’espressione «umanizzazione 
della medicina»” giungendo alla conclusione che “oggi la prospettiva è una 
«cura» come qualcosa di più di una «terapia»; e un «rimedio» come qualcosa 
di più di una «farmaco»”
1
. Una conclusione non da poco, che affonda le sue 
radici e le sue motivazioni nella storia e nell’ontologia della medicina antica e 
classica, cioè nel modo in cui anticamente erano concepite la malattia, il 
dolore, il sintomo, il processo di guarigione. Temi che oggigiorno vengono 
ripresi da nuovi e meno nuovi approcci sempre di tipo tradizionale (come 
prima chiarito nell’accezione odierna di non convenzionale), facendo 
emergere quel conflitto forse mai risolvibile tra olismo e riduzionismo.  
                                                 
1
 Cavicchi I., Ripensare la medicina, 2004, op. cit. 
 10 
 
Un conflitto inutile, come spiega ancora Cavicchi, poiché “la conoscenza per 
«riduzioni» è fondamentale per la medicina. Essa può avvenire dentro una più 
complessiva conoscenza olistica del malato ma a condizione di strutturare 
relazioni tra tipi e forme diverse di conoscenze”. 
Il significato che assume il concetto “olismo” mi pare degno di essere 
approfondito. Infatti, se è vero l’assioma che “il tutto è più della somma delle 
parti”, sintomatico di questa concezione globale, allora emergeranno elementi 
ed indizi ritenuti in un primo momento secondari o di poca importanza, che 
nella pratica medica opereranno da collante tra elementi ben visibili ma spesso 
incomprensibili o indecifrabili. 
Questa accezione del significato di ‘olismo’ può essere impiegata nella nostra 
medicina, ma più spesso la si ritrova proprio nelle medicine cosiddette 
olistiche e tradizionali. Sicuramente esistono medicine del filone modaiolo 
new-age che ben poco hanno a che fare con progetti seri e con competenze 
specifiche e comprovabili. Eppure esistono anche altre e valide medicine 
magari meno accademiche, ma sicuramente più affidabili delle medicine 
“inventate sul momento”. Queste sono le medicine di stampo olistico, che 
niente hanno a che vedere, sia ben chiaro, con fantasticherie spirituali e 
guarigioni miracolose che, purtroppo, si ritrovano nelle più diverse società, 
nascondendosi magari sotto mentite spoglie. 
Ricongiungendosi anche con le antiche medicine di stampo tradizionale, i 
sistemi di medicina ‘globali’ affermano, o meglio riaffermano, concetti 
importantissimi a tutt’oggi poco presi realmente sul serio dalla nostra medicina 
di riferimento. Innanzitutto il fatto che le specializzazioni mediche vengano 
viste come parte di un sapere unico, globale (da cui deriva la parola “olismo” 
dal greco olos, “tutto”, “intero”). Conseguentemente, dall’idea di scienza 
globale e medicina olistica, nasce il desiderio e il bisogno di avere un quadro il 
più possibile dettagliato e completo del malato, di vederlo nella sua interezza, 
in modo tale da considerare tutte le variabili in gioco, non solo quelle 
biostatistiche. Sintetizzando, si tratta di lavorare in una costante modalità 
analitica nella più ampia modalità sintetica
2
, il che significa globalità e 
sistematicità nella visione del malato e della sua malattia, e del processo 
epistemologico e medico-sanitario. Il malato e la sua malattia sono sì da 
vedere come insieme di variabili oggettive e di parametri statistico-analitici nel 
processo di anamnesi, diagnosi e prognosi, ma anche e soprattutto sono 
complessi di significati non passibili di atti riduzionistici.  
                                                 
2
 Ricerche in ambito scientifico, medico e psicologico (si vedano le pubblicazioni di Einstein, Bateson, Satir, 
Erickson, Perls, Grinder e Bandler) hanno dimostrato che c’è una correlazione sinaptica tra le due modalità di 
operare e i due emisferi del cervello. Il cervello sinistro governa la specializzazione analitica, in cui le attività 
sono quelle di breve termine, e i ragionamenti collegati sono quelli di tipo razionale, concreto, logico, lineare, 
matematico ed appunto analitico. Il cervello destro, invece, agisce secondo un modello sintetico e a lungo 
termine; le attività ad esso connesse, sono di tipo emotivo, creativo, immaginativo, intuitivo, olistico, 
analogico. Sono due modalità di operare, che il cervello integra in modo conscio, subconscio ed inconscio.   
 11 
 
Non si può ridurre una persona ad una malattia e soprattutto “creare” sempre 
nuovi casi patologici affinché si procurino farmaci ad hoc. La stessa 
medicalizzazione della società e la gestione professionale del dolore e della 
morte emergono come fenomeni paradigmatici, diretta conseguenza  di una 
crescita eccessiva dell’organizzazione e della pervasività sanitaria. 
Paradossalmente in una società fin troppo industrializzata e progredita 
soprattutto dal punto di vista medico-sanitario, le persone stanno sempre più 
male, nascono nuove patologie e casi da curare
3
. 
Allora bisognerebbe tornare ad un approccio olistico della medicina, della 
malattia e del malato, integrando così filosofia e medicina, storicamente 
inscindibili dall’alba dei tempi, cosa che si auspica possa essere integrato nella 
nostra società a livello di pratica medico-sanitaria.  
Lo storico della medicina Franco Voltaggio espone chiaramente questo legame 
tra medicina e filosofia in cui la prima viene concepita come diretta 
conseguenza della seconda. Nel suo bel libro “La medicina come scienza 
filosofica” afferma che “ogni evento, ogni fatto concernente l’universo fisico 
umano è riguardato come momento dell’incessante transizione dal disordine 
all’ordine, dal caos al cosmo. Si riscontra un’attitudine comune, destinata a 
conferire allo sguardo medico una peculiare centralità, consistente nel fare 
delle malattie l’occasione per un’approfondita conoscenza della natura umana 
e insieme i luoghi dell’incontro dell’uomo con l’universo”. Quindi, come 
dicevamo prima, il primato dell’esperienza come processo cognitivo e 
conoscitivo, epistemologia sacra e naturale, che ricongiunge le opposte 
polarità e riconnette l’uomo al cosmo e alle sue leggi. “Come in alto (in Cielo) 
così in basso (sulla Terra)” diceva un detto del famoso Ermete Trismegisto, 
anch’esso facente parte di una tradizione tutta particolare, quella ermetica e 
alchemica. Significa riconnettere le parti e gli opposti e inglobarli in qualcosa 
di più ampio che permette così di vivere la saggezza dell’Unità, della globalità 
del vivente come un Tutto pensante. Raggiungere una saggezza, oltre che una 
conoscenza (saggezza è maggiore di conoscenza in quanto implica la prova del 
dolore, della pratica, dell’averla vissuta realmente con pathos), che diviene 
fonte dell’immenso bagaglio tradizionale cui attingeranno le persone a venire, 
ognuna poi destinata a farla propria con un’ulteriore, propria esperienza, 
tramite il passaggio nel fuoco trasformatore, il fuoco alchemico. 
 
 
۞ 
 
 
                                                 
3
 Ivan Illich, Nemesi medica, 1976 
 12 
 
Cosa significa innanzitutto il concetto di malattia? Prima di analizzare come la 
definisce l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ho cercato tramite una 
ricerca sincronica, tra le numerose varianti date dalla medicina non 
convenzionale (al cui interno annoveriamo la medicina popolare storica, 
l’etnomedicina e la medicina “alternativa” odierna) venendo alla conclusione 
che, in modo decisamente omogeneo ed univoco,  la malattia non è solamente 
uno stato patologico più o meno grave. Da questa premessa possiamo 
riprendere il concetto concernente le due modalità di ‘sentire’ e valutare il 
malessere psicofisico, chiarendo la differenza tra i termini malattia e patologia.  
Nella radice di queste due parole vi è già l'indicazione per poterne 
comprendere il significato profondo. Molte mie ricerche e conclusioni, infatti, 
sono venute dallo studio dell’etimologia di una parola.  
Malattia deriva dal latino "male habitus" col doppio significato di avere male e 
di abitare male, nel proprio corpo e nel proprio ambiente.  
Patologia deriva da "pathos", che significa coinvolgimento, gioia, dolore, 
emozione… Il pathos dal malus si differenzia come si differenzia ciò che 
posso gestire da ciò che è al di fuori della mia portata, il caso dalla causa.  
Il malus ci rimanda all'albero della conoscenza, che prese il nome di melo, in 
quanto la radice latina per l'albero e per il male era la stessa: "malus".  
Mangiare dall'albero porta malus, quindi alla sua radice vi è una causa 
dipendente da una azione. Dio dice: "Ecco l'uomo è diventato come uno di noi, 
nella conoscenza del bene e del male".  
La vera conoscenza è consapevolezza, è comprensione, è ricerca della verità, 
con dolore e responsabilità, è attività e costruzione, è errore  e redenzione, è 
amore, è la caduta dell'uomo nella riconquista di sé stesso!  
Tutto nella vita ha un costo e vincere l'inerzia è doloroso, mettersi in gioco è 
difficilissimo, ma se così non fosse quale esperienza sarebbe?  
Pathos è coinvolgimento, è l'emozione legata all'evento, è la possibilità di 
imparare direttamente, di provare sentimento, ed è una necessità evolutiva.  
Il principio attivo è la medicina del caso, del pathos, della patologia. La 
comprensione è la medicina del malus, della malattia. 
Certo molte patologie dipenderanno da fattori esterni, ambientali e sociali, ma 
prima di tutto sono una questione estremamente personale, per cui il soggetto 
si trova in una zona di confine, tra la società idealmente ordinata e un mondo 
“altro” in cui regna la condizione di disordine patologico, il caos. 
Partiamo innanzitutto da questo concetto di base, immaginando una situazione 
di omeostasi (ordine, stabilità ed equilibrio), interiorizzata come onda o 
energia vibrazionale, e concettualmente idealizzata come flusso vitale sia 
corporeo che cosmico (prana per la civiltà indo-vedica, ki o chi per quella 
cinese e giapponese, soffio vitale -pneuma- per la greca, mana per le isole del 
Pacifico, viriditas per certa filosofia medievale e che vedremo in seguito 
approfondendo la figura di Hildegard von Bingen), che per sua natura pervade 
 13 
 
l’organismo e, oscillando, ci porta ad affrontare ciclicamente situazioni alte e 
basse, di equilibrio e squilibrio (si veda la recente Teoria del Caos
4
), di salute e 
malattia. Alla primaria situazione di equilibrio, l’esperienza ci insegna che 
segue sempre una situazione di disordine, caos, disequilibrio che può sfociare 
anche nella patogenesi nell’essere umano. 
Diverse sono state le interpretazioni e le varianti nel corso della storia umana e 
della storia della medicina, ma sempre hanno sottolineato come un 
allontanamento dall’equilibrio psicofisico possa portare allo sviluppo di 
carenze, malessere e in molti casi vere e proprie malattie. 
In particolar modo dalle società antiche fino a quelle rinascimentali, ciò è 
anche metaforicamente il concetto della vita (nascita-morte-rinascita), del 
ciclo delle stagioni e della vegetazione, ed in un’ultima analisi della genesi 
delle patologie. Correlazione documentata dall’importanza data dal rapporto 
inscindibile tra macrocosmo (la Divinità- la natura- l’universo) e microcosmo 
(l’Uomo) che ha attraversato tutta una serie di sistemi di cura legati 
indissolubilmente alla Tradizione: la medicina antica, la medievale dei ceti 
popolari e monastici, la barocca con l’affermazione della medicina spagirica, 
alchemica e kabbalistica, ed infine, prima del grande cambio di paradigma 
riduzionistico, la medicina rinascimentale, che si configura concettualmente 
                                                 
4
 Nella scienza classica, il caos era
 
per definizione assenza di ordine. Oggi è considerato una dimensione 
retta da leggi non definibili, infatti, il concetto di disordine è inteso come complessità. 
La teoria del caos è nata quando la scienza classica non aveva più mezzi per spiegare gli aspetti irregolari e 
incostanti della natura; è innanzitutto una teoria scientifica, nata su sperimentazioni fisiche, biologiche, 
matematiche, socio-economiche, che ha cambiato l'aspetto del mondo e che in un secondo tempo è stata 
sintetizzata nelle arti espressive, facendo la sua apparizione nello studio di fenomeni meteorologici. 
Le applicazioni pratiche di questa teoria sono dirette nei più svariati campi, in quanto essa permette, con la 
sua visione della realtà, di scegliere tra una grande abbondanza di opportunità e di raggiungere il principale 
obiettivo della scienza,e trovare tramite quali regole è governato l' universo e in che modo possiamo usarlo 
ai nostri fini. Nell'affermazione di George Santayana "Chaos is a name for any order that produces confusion 
in our minds", si conferma che il caos, non può più essere visto come casualità e totale mancanza di ordine, 
ma unicamente, come un ordine così complesso da sfuggire alla percezione e alla comprensione umana; un 
ordine con una logica stocastica e inestricabile dove le regole dell'antica idea di armonia platonica non siano 
più riscontrabili. 
Di conseguenza, i sistemi caotici non possono più essere interpretati esclusivamente come imprevedibili 
anche se irregolari. E' fondamentale sottolineare che il caos non è sinonimo di caso (curiosamente suo 
anagramma) come la logica potrebbe indurre a pensare e non si può parlare di completo disordine, in quanto 
i sistemi caotici, alla luce delle nuove scoperte della teoria del caos, sono sistemi dinamici sempre 
prevedibili a breve termine e, quindi, riconducibili ad una logica nuova più o meno complessa. Si può, 
dunque, paradossalmente affermare, in base a precise scoperte scientifiche, che nel caos c'è ordine. 
La nozione di "organizzazione" evidenzia un processo che si dimostra innanzi tutto imprevedibile, non 
deterministico, partecipe al tempo stesso di ORDINE e DISORDINE, di condizioni di equilibrio e di non 
equilibrio. 
Alla luce di questo la natura ci si presenta sempre più come una realtà difficilmente definibile e  
determinabile. Infatti venuta attualmente meno la pretesa di un suo completo dominio, ci sembra vada 
meglio avvicinata all’interno di una ricerca aperta che tenga conto di tutti gli elementi che 
intervengono ; elementi che evidenziano una certa discontinuità ed ambiguità nella nozione di 
natura. 
In tal modo non trovano più posto tutti i modelli riduzionisti di spiegazione. Emerge, invece, una qualche 
libertà nelle strutture fisiche non deterministiche; perciò diventa impossibile un suo perfetto 
padroneggiamento oggettivo. La natura in quanto tale, si presenta in sé imprevedibile disponibile verso 
sempre nuove ed inedite possibilità di sintesi. 
 14 
 
come continuazione della precedente, e che sarà contenitrice ed incubatrice di 
un crogiuolo di teorie e pratiche differenti dal punto di vista spazio-temporale 
fino a quel momento adottate. Differenze che saranno solo formalmente 
considerate tali e che invece sostanzialmente rimarranno più o meno identiche 
dal punto di vista del materiale simbolico adottato. 
Questa visione e concezione di comunione tra micro e macrocosmo, in qualche 
modo ecologica ed educativa del significato della malattia, fa da contraltare a 
quella che oggi si può riassumere in meccanicizzazione medico-sanitaria: 
alienante la medicina, alienati i medici e i pazienti, impersonale (e dai fatti 
recenti fallibile proprio per la mancanza di personale capace di seguire il 
malato, che invece viene “curato” sempre più spesso da macchine e 
‘prolunghe’), riduzionista, troppo preoccupata al tecnologico. Ad un certo 
livello non nego che dalla prevenzione alle operazioni chirurgiche la medicina 
è progresso e utilità sociale, ma ad un altro livello ci induce a distoglierci dalla 
ricerca delle cause prime delle nostre malattie, e inevitabilmente ad un sintomo 
si rimedierà sempre con un farmaco di sintesi chimica.  
Ma più spesso il sintomo non si toglie con un farmaco (può causare 
soppressione all’organismo) e anzi si ripresenterà col tempo e/o in vesti 
diverse. Come spiegare per esempio che per curare un mal di testa si è ricorsi a 
terapie farmacologiche che successivamente hanno causato un’ulcera? Queste 
sono le domande che si deve porre il cittadino ma anche il medico e la società 
in generale. Evidentemente, in questo specifico caso prestatosi ad esempio (e 
comunque citato sulla base di un fatto accaduto personalmente), si è agito per 
riduzione, si è voluto vedere solo il tipo oggettivo di disturbo e il metodo 
scientificamente preciso per guarirlo.  
Distrutto il senso, l’occhio clinico non è più in grado di scorgere nel sintomo 
un simbolo, ma semplicemente un segno che non rinvia tanto alla persona 
malata, quanto al fatto patologico indefinitamente riproducibile in tutti i malati 
similmente colpiti. In altre parole, non viene seguita una procedura più globale 
e attenta alle tante piccole o grandi sfaccettature che nel “sistema uomo” 
vanno inevitabilmente ad agire.  
Il punto rimane la cura, cioè un metodo scientifico che si interfacci con altre 
pratiche e saperi della sfera della scienza e di quella più “umanistica”; 
conoscenze riguardanti per esempio la cultura di appartenenza o riferimento, i 
modi di fare ed esprimersi (e quindi a titolo di esempio l’antropologia culturale 
e la sociolinguistica), e infine vissuti che incidono sul percorso del malato 
come malato ma anche malato come persona. Saperi che aiutano nell’iter di 
diagnosi e terapia, ma anche nell’imprescindibile comprensione simpatetica tra 
il medico e il malato. Tutto inizia proprio dal rapporto medico-paziente, e 
questo è il delicatissimo e fondamentale primo gradino del processo 
terapeutico.