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verità ma il risultato dell’interazione tra un fenomeno e l’osservazione del
fenomeno stesso che non può non modificarlo.
Rimanendo nel nostro ambito, in medicina, si è osservato in molteplici
occasioni come le intenzioni di chi conduce un esperimento entrino a far parte
dell’esperimento stesso condizionandone il risultato.
Nelle ricerche medico scientifiche più rigorose, per evitare interferenze
causate dalle aspettative di chi conduce la ricerca, si segue un protocollo
definito in “doppio cieco”. Ciò significa che la ricerca viene condotta
parallelamente su due gruppi di soggetti: a uno viene ad esempio
somministrata la sostanza di cui si vogliono studiare gli effetti e all’altro
gruppo viene somministrato un “placebo”, sostanza nota per non avere alcun
effetto. Durante la ricerca né i medici né i pazienti sanno quale dei due gruppi
riceve la vera sostanza e quale il placebo, anzi i pazienti non devono nemmeno
sapere che potranno ricevere un placebo. Il fatto stesso che il doppio cieco
esista prova che il principio di indeterminazione di Heisenberg è applicabile
anche alla realtà quotidiana e non riguarda solo le particelle subatomiche.
۞
Fin qui ho trattato della problematicità e quindi della necessità di un
approccio relativistico al rapporto tra osservazione e verità ontologica
nell’ambito della ricerca scientifica ed in particolare in ambito medico-
antropologico.
Si necessita quindi di porre in evidenza il fatto che, più che di una verità
aprioristica o una scoperta ante litteram, si tratterà di un’esperienza soggettiva.
La stessa parola viene da due verbi greci: "peiro", che vuol dire attraversare,
passare attraverso; "peirào", che vuol dire tentare, provare, fare esperienza,
nonché dal termine "peira", che significa tentativo, esperimento, esperienza,
per cui "empeiria" significa esperienza o conoscenza, o anche semplicemente
abilità; mentre nel latino “ex-perior” il termine "-perior" implica la nozione di
pericolo, prova, qualcosa con cui ci si misura, una prova attraverso cui passare.
Quindi nell'esperienza c'è il passaggio e la prova, il pericolo e la misura: fare
un'esperienza vuol dire passare là dove non si era mai passati. Il Sapere risiede
nell’uomo che si salva nel fuoco, nel vissuto dell’esperienza e nell’immersione
in una situazione “altra”, che emerge in questo contesto di “soggettività
nell’apparente oggettività”; comunque, un tassello importante che si configura
come un ulteriore elemento che permette di comprendere fatti sociali
complessi, sia nel caso dello studio socio-antropologico delle terapie non
convenzionali, sia nel vero e proprio iter di ricerca scientifico, empirico e di
laboratorio.
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Questo per quanto riguarda una premessa epistemologica che non voglia
pretendere meriti di verità assoluta riguardo situazioni e pratiche socio-
antropologiche difficili, complesse, spesso oscure e magari celate volutamente
o meno.
۞
Ho voluto prendere in esame un tema che reputo personalmente di grande
attualità nonostante la sua storia millenaria, ovvero la medicina tradizionale,
intendendo con questo termine non la medicina convenzionale e ufficiale
(essenzialmente caratterizzata da uno stampo biomedico e incentrata sull’
anatomizzazione della patologia), bensì quella non convenzionale,
erroneamente denominata “alternativa”.
Erroneamente perché a tutt’oggi più di due terzi della popolazione mondiale
non si può permettere economicamente le soluzioni della medicina
“occidentale”, basate su cure farmacologiche e numerosi esami di laboratorio
dipendenti da tecnologie pesanti, costose e dall’alto turnover poco ecologico.
Ma c’è anche un altro motivo per cui la medicina “alternativa” non è poi così
alternativa. Il fatto è che i metodi, le tecniche, gli strumenti e i materiali di
procedura usati da tempo immemorabile dai differenti sistemi di cura etnici,
popolari, autoctoni, personalistici (piuttosto simili seppur con differenze
sostanziali), sono rimasti vivi fino ai giorni nostri, mettendo in crisi la
medicina ufficiale che spesso non sa rispondere a molte problematiche
essenziali.
Il revival che si assiste oggigiorno, motivato da molteplici esigenze pratiche e
ragioni ideal-filosofiche, pone l’accento sull’utilizzo odierno e massiccio di
sistemi di guarigione “altri”, e quindi l’urgenza oltre che la curiosità di capire
in modo più sistematico una costellazione di saperi mai dimenticati.
Un famoso studio condotto da Lalli, sociologa presso l’università di Bologna,
è dedicato interamente a questo mondo di medicina parallela nella società
contemporanea. La Lalli, portando a galla concetti essenziali per l’indagine
sociologica delle pratiche di cura alternative, propugna in prima linea “l’idea
di riconsiderare le pratiche in esame quale un contradditorio frammento di
modernità”. Spiegando quest’idea programmatica, sono assolutamente
d’accordo quando afferma e prosegue: “Contradditorio essenzialmente perché
unisce al proprio interno tratti tipicamente «moderni» e tratti di solito attribuiti
a istanze più prettamente «tradizionali». Ma l’idea di fondo è che tale
contraddizione, lungi dal dover essere considerata in termini puramente
oppositivi (…), sia invece già di per sé segno di una combinazione culturale in
atto” (L’altra medicina e i suoi malati, 1988).
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Concetti come malattia, sintomo, guarigione, proprio attraverso questi saperi e
pratiche Altre, acquistano un nuovo significato, pur dettato al suo interno da
diversi sensi, ma in ogni caso tutti dalla parte del fruitore, malato o malato
immaginario che sia. Proprio in questi sensi differenti ma omogenei, prende
forma una feconda ontologia medica che ora andremo ad illustrare e che pone
come asse portante il rapporto medico (o sciamano, guaritore,..)-paziente.
Infatti, la struttura di questi modelli di medicina sono estremamente incentrati
sul malato in quanto persona (dotata non solo di un corpo “scannerizzabile”
ma anche di una vita sua propria costellata da esperienze, traumi, bagagli
culturali peculiari propri), più che sul malato in quanto malato, cioè ridotto a
puro sintomo o patologia.
La persona portatrice di un disturbo o malattia si fa soggetto e non ammette
oggettivizzazioni di sorta (se non quelle strettamente legate ad odierne analisi
statistiche di esami di laboratorio). Si tratta di porre gran attenzione al valore
della persona che si ha di fronte e che richiede, con tutta la fiducia che può
avere un essere umano in un caso di necessità, di essere curata e guarita.
Una persona dagli alti valori aggiunti, composti da innumerevoli fattori
contingenti o stabili, e che possono riguardare appunto la sfera sociale,
lavorativa, di status, di genere, col proprio bagaglio sociobiologico e culturale.
Un malato visto anche da queste angolazioni permette di ampliare la veduta
sul caso a trecentosessanta gradi, ampliando iter di ricerca in modo
decisamente più ricco e multiprospettico.
In questo senso sono d’accordo con Cavicchi quando afferma che “ripensare la
medicina vuol dire ripensare i malati e i medici e questo si fa ripensando il
pensiero che fino a ora li ha pensati” (Ripensare la medicina). Una formula
direi sintetica ma ricca di rimandi filosofici e pratici.
Nel dettaglio, riferendosi ai bagagli di conoscenze e pratiche indispensabili
all’esercizio della medicina, lo stesso autore chiarisce che “la domanda
sociale, a parte gli aspetti salutistici legati al benessere, è sempre più connotata
come una nuova cultura della cura. E’ una domanda a un tempo di cultura e di
scienza. Ciò in genere viene banalizzato con l’espressione «umanizzazione
della medicina»” giungendo alla conclusione che “oggi la prospettiva è una
«cura» come qualcosa di più di una «terapia»; e un «rimedio» come qualcosa
di più di una «farmaco»”
1
. Una conclusione non da poco, che affonda le sue
radici e le sue motivazioni nella storia e nell’ontologia della medicina antica e
classica, cioè nel modo in cui anticamente erano concepite la malattia, il
dolore, il sintomo, il processo di guarigione. Temi che oggigiorno vengono
ripresi da nuovi e meno nuovi approcci sempre di tipo tradizionale (come
prima chiarito nell’accezione odierna di non convenzionale), facendo
emergere quel conflitto forse mai risolvibile tra olismo e riduzionismo.
1
Cavicchi I., Ripensare la medicina, 2004, op. cit.
10
Un conflitto inutile, come spiega ancora Cavicchi, poiché “la conoscenza per
«riduzioni» è fondamentale per la medicina. Essa può avvenire dentro una più
complessiva conoscenza olistica del malato ma a condizione di strutturare
relazioni tra tipi e forme diverse di conoscenze”.
Il significato che assume il concetto “olismo” mi pare degno di essere
approfondito. Infatti, se è vero l’assioma che “il tutto è più della somma delle
parti”, sintomatico di questa concezione globale, allora emergeranno elementi
ed indizi ritenuti in un primo momento secondari o di poca importanza, che
nella pratica medica opereranno da collante tra elementi ben visibili ma spesso
incomprensibili o indecifrabili.
Questa accezione del significato di ‘olismo’ può essere impiegata nella nostra
medicina, ma più spesso la si ritrova proprio nelle medicine cosiddette
olistiche e tradizionali. Sicuramente esistono medicine del filone modaiolo
new-age che ben poco hanno a che fare con progetti seri e con competenze
specifiche e comprovabili. Eppure esistono anche altre e valide medicine
magari meno accademiche, ma sicuramente più affidabili delle medicine
“inventate sul momento”. Queste sono le medicine di stampo olistico, che
niente hanno a che vedere, sia ben chiaro, con fantasticherie spirituali e
guarigioni miracolose che, purtroppo, si ritrovano nelle più diverse società,
nascondendosi magari sotto mentite spoglie.
Ricongiungendosi anche con le antiche medicine di stampo tradizionale, i
sistemi di medicina ‘globali’ affermano, o meglio riaffermano, concetti
importantissimi a tutt’oggi poco presi realmente sul serio dalla nostra medicina
di riferimento. Innanzitutto il fatto che le specializzazioni mediche vengano
viste come parte di un sapere unico, globale (da cui deriva la parola “olismo”
dal greco olos, “tutto”, “intero”). Conseguentemente, dall’idea di scienza
globale e medicina olistica, nasce il desiderio e il bisogno di avere un quadro il
più possibile dettagliato e completo del malato, di vederlo nella sua interezza,
in modo tale da considerare tutte le variabili in gioco, non solo quelle
biostatistiche. Sintetizzando, si tratta di lavorare in una costante modalità
analitica nella più ampia modalità sintetica
2
, il che significa globalità e
sistematicità nella visione del malato e della sua malattia, e del processo
epistemologico e medico-sanitario. Il malato e la sua malattia sono sì da
vedere come insieme di variabili oggettive e di parametri statistico-analitici nel
processo di anamnesi, diagnosi e prognosi, ma anche e soprattutto sono
complessi di significati non passibili di atti riduzionistici.
2
Ricerche in ambito scientifico, medico e psicologico (si vedano le pubblicazioni di Einstein, Bateson, Satir,
Erickson, Perls, Grinder e Bandler) hanno dimostrato che c’è una correlazione sinaptica tra le due modalità di
operare e i due emisferi del cervello. Il cervello sinistro governa la specializzazione analitica, in cui le attività
sono quelle di breve termine, e i ragionamenti collegati sono quelli di tipo razionale, concreto, logico, lineare,
matematico ed appunto analitico. Il cervello destro, invece, agisce secondo un modello sintetico e a lungo
termine; le attività ad esso connesse, sono di tipo emotivo, creativo, immaginativo, intuitivo, olistico,
analogico. Sono due modalità di operare, che il cervello integra in modo conscio, subconscio ed inconscio.
11
Non si può ridurre una persona ad una malattia e soprattutto “creare” sempre
nuovi casi patologici affinché si procurino farmaci ad hoc. La stessa
medicalizzazione della società e la gestione professionale del dolore e della
morte emergono come fenomeni paradigmatici, diretta conseguenza di una
crescita eccessiva dell’organizzazione e della pervasività sanitaria.
Paradossalmente in una società fin troppo industrializzata e progredita
soprattutto dal punto di vista medico-sanitario, le persone stanno sempre più
male, nascono nuove patologie e casi da curare
3
.
Allora bisognerebbe tornare ad un approccio olistico della medicina, della
malattia e del malato, integrando così filosofia e medicina, storicamente
inscindibili dall’alba dei tempi, cosa che si auspica possa essere integrato nella
nostra società a livello di pratica medico-sanitaria.
Lo storico della medicina Franco Voltaggio espone chiaramente questo legame
tra medicina e filosofia in cui la prima viene concepita come diretta
conseguenza della seconda. Nel suo bel libro “La medicina come scienza
filosofica” afferma che “ogni evento, ogni fatto concernente l’universo fisico
umano è riguardato come momento dell’incessante transizione dal disordine
all’ordine, dal caos al cosmo. Si riscontra un’attitudine comune, destinata a
conferire allo sguardo medico una peculiare centralità, consistente nel fare
delle malattie l’occasione per un’approfondita conoscenza della natura umana
e insieme i luoghi dell’incontro dell’uomo con l’universo”. Quindi, come
dicevamo prima, il primato dell’esperienza come processo cognitivo e
conoscitivo, epistemologia sacra e naturale, che ricongiunge le opposte
polarità e riconnette l’uomo al cosmo e alle sue leggi. “Come in alto (in Cielo)
così in basso (sulla Terra)” diceva un detto del famoso Ermete Trismegisto,
anch’esso facente parte di una tradizione tutta particolare, quella ermetica e
alchemica. Significa riconnettere le parti e gli opposti e inglobarli in qualcosa
di più ampio che permette così di vivere la saggezza dell’Unità, della globalità
del vivente come un Tutto pensante. Raggiungere una saggezza, oltre che una
conoscenza (saggezza è maggiore di conoscenza in quanto implica la prova del
dolore, della pratica, dell’averla vissuta realmente con pathos), che diviene
fonte dell’immenso bagaglio tradizionale cui attingeranno le persone a venire,
ognuna poi destinata a farla propria con un’ulteriore, propria esperienza,
tramite il passaggio nel fuoco trasformatore, il fuoco alchemico.
۞
3
Ivan Illich, Nemesi medica, 1976
12
Cosa significa innanzitutto il concetto di malattia? Prima di analizzare come la
definisce l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ho cercato tramite una
ricerca sincronica, tra le numerose varianti date dalla medicina non
convenzionale (al cui interno annoveriamo la medicina popolare storica,
l’etnomedicina e la medicina “alternativa” odierna) venendo alla conclusione
che, in modo decisamente omogeneo ed univoco, la malattia non è solamente
uno stato patologico più o meno grave. Da questa premessa possiamo
riprendere il concetto concernente le due modalità di ‘sentire’ e valutare il
malessere psicofisico, chiarendo la differenza tra i termini malattia e patologia.
Nella radice di queste due parole vi è già l'indicazione per poterne
comprendere il significato profondo. Molte mie ricerche e conclusioni, infatti,
sono venute dallo studio dell’etimologia di una parola.
Malattia deriva dal latino "male habitus" col doppio significato di avere male e
di abitare male, nel proprio corpo e nel proprio ambiente.
Patologia deriva da "pathos", che significa coinvolgimento, gioia, dolore,
emozione… Il pathos dal malus si differenzia come si differenzia ciò che
posso gestire da ciò che è al di fuori della mia portata, il caso dalla causa.
Il malus ci rimanda all'albero della conoscenza, che prese il nome di melo, in
quanto la radice latina per l'albero e per il male era la stessa: "malus".
Mangiare dall'albero porta malus, quindi alla sua radice vi è una causa
dipendente da una azione. Dio dice: "Ecco l'uomo è diventato come uno di noi,
nella conoscenza del bene e del male".
La vera conoscenza è consapevolezza, è comprensione, è ricerca della verità,
con dolore e responsabilità, è attività e costruzione, è errore e redenzione, è
amore, è la caduta dell'uomo nella riconquista di sé stesso!
Tutto nella vita ha un costo e vincere l'inerzia è doloroso, mettersi in gioco è
difficilissimo, ma se così non fosse quale esperienza sarebbe?
Pathos è coinvolgimento, è l'emozione legata all'evento, è la possibilità di
imparare direttamente, di provare sentimento, ed è una necessità evolutiva.
Il principio attivo è la medicina del caso, del pathos, della patologia. La
comprensione è la medicina del malus, della malattia.
Certo molte patologie dipenderanno da fattori esterni, ambientali e sociali, ma
prima di tutto sono una questione estremamente personale, per cui il soggetto
si trova in una zona di confine, tra la società idealmente ordinata e un mondo
“altro” in cui regna la condizione di disordine patologico, il caos.
Partiamo innanzitutto da questo concetto di base, immaginando una situazione
di omeostasi (ordine, stabilità ed equilibrio), interiorizzata come onda o
energia vibrazionale, e concettualmente idealizzata come flusso vitale sia
corporeo che cosmico (prana per la civiltà indo-vedica, ki o chi per quella
cinese e giapponese, soffio vitale -pneuma- per la greca, mana per le isole del
Pacifico, viriditas per certa filosofia medievale e che vedremo in seguito
approfondendo la figura di Hildegard von Bingen), che per sua natura pervade
13
l’organismo e, oscillando, ci porta ad affrontare ciclicamente situazioni alte e
basse, di equilibrio e squilibrio (si veda la recente Teoria del Caos
4
), di salute e
malattia. Alla primaria situazione di equilibrio, l’esperienza ci insegna che
segue sempre una situazione di disordine, caos, disequilibrio che può sfociare
anche nella patogenesi nell’essere umano.
Diverse sono state le interpretazioni e le varianti nel corso della storia umana e
della storia della medicina, ma sempre hanno sottolineato come un
allontanamento dall’equilibrio psicofisico possa portare allo sviluppo di
carenze, malessere e in molti casi vere e proprie malattie.
In particolar modo dalle società antiche fino a quelle rinascimentali, ciò è
anche metaforicamente il concetto della vita (nascita-morte-rinascita), del
ciclo delle stagioni e della vegetazione, ed in un’ultima analisi della genesi
delle patologie. Correlazione documentata dall’importanza data dal rapporto
inscindibile tra macrocosmo (la Divinità- la natura- l’universo) e microcosmo
(l’Uomo) che ha attraversato tutta una serie di sistemi di cura legati
indissolubilmente alla Tradizione: la medicina antica, la medievale dei ceti
popolari e monastici, la barocca con l’affermazione della medicina spagirica,
alchemica e kabbalistica, ed infine, prima del grande cambio di paradigma
riduzionistico, la medicina rinascimentale, che si configura concettualmente
4
Nella scienza classica, il caos era
per definizione assenza di ordine. Oggi è considerato una dimensione
retta da leggi non definibili, infatti, il concetto di disordine è inteso come complessità.
La teoria del caos è nata quando la scienza classica non aveva più mezzi per spiegare gli aspetti irregolari e
incostanti della natura; è innanzitutto una teoria scientifica, nata su sperimentazioni fisiche, biologiche,
matematiche, socio-economiche, che ha cambiato l'aspetto del mondo e che in un secondo tempo è stata
sintetizzata nelle arti espressive, facendo la sua apparizione nello studio di fenomeni meteorologici.
Le applicazioni pratiche di questa teoria sono dirette nei più svariati campi, in quanto essa permette, con la
sua visione della realtà, di scegliere tra una grande abbondanza di opportunità e di raggiungere il principale
obiettivo della scienza,e trovare tramite quali regole è governato l' universo e in che modo possiamo usarlo
ai nostri fini. Nell'affermazione di George Santayana "Chaos is a name for any order that produces confusion
in our minds", si conferma che il caos, non può più essere visto come casualità e totale mancanza di ordine,
ma unicamente, come un ordine così complesso da sfuggire alla percezione e alla comprensione umana; un
ordine con una logica stocastica e inestricabile dove le regole dell'antica idea di armonia platonica non siano
più riscontrabili.
Di conseguenza, i sistemi caotici non possono più essere interpretati esclusivamente come imprevedibili
anche se irregolari. E' fondamentale sottolineare che il caos non è sinonimo di caso (curiosamente suo
anagramma) come la logica potrebbe indurre a pensare e non si può parlare di completo disordine, in quanto
i sistemi caotici, alla luce delle nuove scoperte della teoria del caos, sono sistemi dinamici sempre
prevedibili a breve termine e, quindi, riconducibili ad una logica nuova più o meno complessa. Si può,
dunque, paradossalmente affermare, in base a precise scoperte scientifiche, che nel caos c'è ordine.
La nozione di "organizzazione" evidenzia un processo che si dimostra innanzi tutto imprevedibile, non
deterministico, partecipe al tempo stesso di ORDINE e DISORDINE, di condizioni di equilibrio e di non
equilibrio.
Alla luce di questo la natura ci si presenta sempre più come una realtà difficilmente definibile e
determinabile. Infatti venuta attualmente meno la pretesa di un suo completo dominio, ci sembra vada
meglio avvicinata all’interno di una ricerca aperta che tenga conto di tutti gli elementi che
intervengono ; elementi che evidenziano una certa discontinuità ed ambiguità nella nozione di
natura.
In tal modo non trovano più posto tutti i modelli riduzionisti di spiegazione. Emerge, invece, una qualche
libertà nelle strutture fisiche non deterministiche; perciò diventa impossibile un suo perfetto
padroneggiamento oggettivo. La natura in quanto tale, si presenta in sé imprevedibile disponibile verso
sempre nuove ed inedite possibilità di sintesi.
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come continuazione della precedente, e che sarà contenitrice ed incubatrice di
un crogiuolo di teorie e pratiche differenti dal punto di vista spazio-temporale
fino a quel momento adottate. Differenze che saranno solo formalmente
considerate tali e che invece sostanzialmente rimarranno più o meno identiche
dal punto di vista del materiale simbolico adottato.
Questa visione e concezione di comunione tra micro e macrocosmo, in qualche
modo ecologica ed educativa del significato della malattia, fa da contraltare a
quella che oggi si può riassumere in meccanicizzazione medico-sanitaria:
alienante la medicina, alienati i medici e i pazienti, impersonale (e dai fatti
recenti fallibile proprio per la mancanza di personale capace di seguire il
malato, che invece viene “curato” sempre più spesso da macchine e
‘prolunghe’), riduzionista, troppo preoccupata al tecnologico. Ad un certo
livello non nego che dalla prevenzione alle operazioni chirurgiche la medicina
è progresso e utilità sociale, ma ad un altro livello ci induce a distoglierci dalla
ricerca delle cause prime delle nostre malattie, e inevitabilmente ad un sintomo
si rimedierà sempre con un farmaco di sintesi chimica.
Ma più spesso il sintomo non si toglie con un farmaco (può causare
soppressione all’organismo) e anzi si ripresenterà col tempo e/o in vesti
diverse. Come spiegare per esempio che per curare un mal di testa si è ricorsi a
terapie farmacologiche che successivamente hanno causato un’ulcera? Queste
sono le domande che si deve porre il cittadino ma anche il medico e la società
in generale. Evidentemente, in questo specifico caso prestatosi ad esempio (e
comunque citato sulla base di un fatto accaduto personalmente), si è agito per
riduzione, si è voluto vedere solo il tipo oggettivo di disturbo e il metodo
scientificamente preciso per guarirlo.
Distrutto il senso, l’occhio clinico non è più in grado di scorgere nel sintomo
un simbolo, ma semplicemente un segno che non rinvia tanto alla persona
malata, quanto al fatto patologico indefinitamente riproducibile in tutti i malati
similmente colpiti. In altre parole, non viene seguita una procedura più globale
e attenta alle tante piccole o grandi sfaccettature che nel “sistema uomo”
vanno inevitabilmente ad agire.
Il punto rimane la cura, cioè un metodo scientifico che si interfacci con altre
pratiche e saperi della sfera della scienza e di quella più “umanistica”;
conoscenze riguardanti per esempio la cultura di appartenenza o riferimento, i
modi di fare ed esprimersi (e quindi a titolo di esempio l’antropologia culturale
e la sociolinguistica), e infine vissuti che incidono sul percorso del malato
come malato ma anche malato come persona. Saperi che aiutano nell’iter di
diagnosi e terapia, ma anche nell’imprescindibile comprensione simpatetica tra
il medico e il malato. Tutto inizia proprio dal rapporto medico-paziente, e
questo è il delicatissimo e fondamentale primo gradino del processo
terapeutico.