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1. Introduzione
La letteratura esistente sugli spazi sociali autogestiti (o centri sociali), ha finora privilegiato
il Nord-est dell’Italia, trascurando l’analisi di spazi presenti in altre aree geografiche,
compresi quelli romani. Inoltre, come segnalato da Montagna (2007), le ricerche si sono
concentrate soprattutto sulla dimensione della militanza politica, tralasciando l’aspetto
aggregativo e culturale dell’azione degli spazi autogestiti. È invece proprio su questo
aspetto che si sofferma l’analisi nelle prossime pagine. Dopo aver definito cosa sono gli spazi
autogestiti ed esaminato alcune caratteristiche comuni, il terzo capitolo offre una
descrizione delle attività rilevate in 33 spazi autogestiti di Roma. La descrizione delle attività
si concentra sulle azioni a livello locale, poiché ci appaiono rilevanti per tentare di delineare
se, nel contesto disaggregante della metropoli, gli spazi autogestiti hanno la potenzialità di
costituire un agente di trasformazione e riaggregazione sociale.
Alla descrizione delle attività seguirà l’applicazione di diverse prospettive per
l’interpretazione dell’azione degli spazi autogestiti sotto il profilo sociologico. La teoria
dell’isomorfismo organizzativo di DiMaggio e Powell (1983) ci permetterà di spiegare in
parte l’uniformità riscontrata tra le attività svolte dai diversi spazi. Accanto a tale chiave
esplicativa, verrà considerata l’influenza dell’elemento culturale. Il concetto di cultura è
utilizzato applicando, in alcuni casi, la classica distinzione tra cultura come produzione di
artifici e cultura come insieme di credenze, valori, etc.; in generale però il riferimento è al
concetto semiotico di cultura in relazione all’elaborazione di Ann Swidler (2009) della
cultura come repertorio per la costruzione di strategie d’azione. Richiamandoci inoltre alla
prospettiva della produzione di cultura, ci si soffermerà su come gli spazi autogestiti
modellano un proprio repertorio culturale. Inoltre, verrà evidenziato come le loro attività
promuovono l’attivazione personale e collettiva – facendo particolare riferimento alla teoria
della struttura di William H. Sewell (2009). Infine, cercheremo di approfondire il ruolo della
socialità nell’azione degli spazi autogestiti e nella relazione che essi intraprendono con lo
spazio urbano disaggregante, dando risalto al ruolo dei beni comuni, dei quali tratteremo
seguendo l’analisi di David Harvey (2019:79-88).
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2. Spazi sociali autogestiti
Definire gli spazi sociali autogestiti, comunemente detti centri sociali, non è semplice: nel
riferirci ad essi indichiamo infatti sia i gruppi sociali, sia gli spazi in cui questi svolgono la
loro attività (Dines, 1999). In prima istanza, gli spazi sociali autogestiti sono attori collettivi,
presenti soprattutto nelle aree metropolitane, la cui nascita coincide con l’appropriazione di
uno spazio al quale, in seguito, la loro esistenza si lega.
L’appropriazione dello spazio avviene attraverso l’occupazione: una pratica illegale,
organizzata e collettiva, a cui si fa risalire la nascita dei primi centri sociali negli anni ’70 e
‘80. Gli edifici occupati sono per la maggior parte in stato di abbandono: ex fabbriche, ex
scuole, ex magazzini, ex strutture manicomiali, o edifici in disuso di proprietà
dell’amministrazione locale. In alcuni casi, l’occupazione è una forma di resistenza ad
attività speculative private ritenute dannose per il territorio
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o alla destinazione d’uso
dell’edificio decisa dall’amministrazione
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.
L’appropriazione non si esaurisce però nell’atto dell’occupazione, bensì si consolida
attraverso un processo collettivo di recupero e riutilizzo dello spazio, al fine di renderlo una
risorsa per la collettività dove poter realizzare attività politiche, sociali e culturali (Piazza,
2012). L’occupazione diviene dunque << forma di sottrazione al degrado metropolitano di spazi di
vita >> (Berzano e Gallini, 2000: 15) e andrebbe definita non solo in quanto atto illegale, ma
come forma consapevole di disobbedienza civile (Thoreau, 2018).
La nascita degli spazi sociali autogestiti non avviene per caso a partire dagli anni ’70.
Pierpaolo Mudu la riconduce alla << crisi sociale causata dalla transizione dal fordismo
all’attuale regime di accumulazione flessibile [T.D.A.] >> (2004: 935) e alla riduzione drastica
degli spazi pubblici e dei luoghi d’incontro tradizionali che ne è derivata
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. È il periodo in
cui comincia, fra l’altro, il declino dei partiti politici tradizionali, mentre alcuni movimenti
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Un esempio è il Nuovo Cinema Palazzo, occupato per impedire la costruzione di un Casinò nel, già deturpato,
quartiere di San Lorenzo.
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Ad esempio, l’ o cc u p az io n e del Casale Alba 2 nasce per sottrarre l’ ed if icio alla destinazione d ’ u s o come struttura
detentiva per donne incarcerate con minori a carico, che avrebbe portato alla cementificazione e alla militarizzazione
d ell’ ar ea all’ in ter n o del Parco di Aguzzano.
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Vincenzo Ruggiero (2000) aggiunge << When production is dispersed, and work relations are atonomised, the search
for solidarity, discussion and political socialization is carried out outside the workplace>> (Ruggiero, 2000: 176). La
radice storica più remota dei centri sociali è stata infatti individuata in associazioni dei lavoratori quali le società di
mutuo aiuto e, in particolare, le Case del Popolo (Mudu, 2004).
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di sinistra (radicale) tentano di ridefinire la propria azione privilegiando una sorta di
‘’microphisics of power’’ rispetto alle forme di azione politica istituzionalizzata (Mudu, 2004).
L’attività degli spazi sociali autogestiti rientra infatti a pieno titolo nelle forme di
partecipazione politica non convenzionale emergenti (Tuorto, 2017).
Gli spazi sociali autogestiti vanno quindi analizzati come << esperimento di socialità e di
cultura alternativa e come partecipazione politica diretta >> (Berzano e Gallini, 2000:1). Essi,
infatti, mirano a realizzare al loro interno modelli alternativi di vita sociale e politica, e lo
fanno innanzitutto attraverso il sistema dell’autogestione: un modello di organizzazione
orizzontale e non-gerarchico, nell’ambito del quale (potenzialmente) tutti decidono su tutto.
L’organo decisionale è il cd. Collettivo, che si riunisce in lunghe assemblee periodiche (in
genere, settimanali). Il collettivo si compone soprattutto di membri consolidati, ossia
impegnati con continuità nella gestione dello spazio; ad essi possono aggiungersi però
anche simpatizzanti o visitatori occasionali
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. Infatti, i collettivi e, in generale, gli spazi
autogestiti, hanno la caratteristica di essere aperti alla partecipazione di chiunque si presenti
dal territorio. L’unico elemento discriminante consiste nel non aderire all’ideologia fascista,
o non condividere posizioni politiche considerate ad essa affini. Una certa aderenza alla
visione di politica di sinistra e all’antifascismo è una condizione di inclusione determinante.
Il << tentativo di praticare modelli di organizzazione non gerarchici >> (Piazza, 2012: 9) che
caratterizza l’attività all’interno degli spazi, si riflette anche nella struttura delle relazioni
che intercorrono tra di essi. Si tratta di una struttura reticolare e policefala, in cui ciascuno
spazio autogestito costituisce un nodo centrale << di produzione dell’identità collettiva >>
(Berzano e Gallini, 2000: 3; Mudu, 2004)
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. Uno dei tratti distintivi degli spazi autogestiti in
quanto movimenti sociali è stato infatti identificato nel rifiuto << to engage in building up a
rappresentative entity >> (Ruggiero 2000: 181) e di dar vita ad una leadership unificata;
rifiuto che procede in parallelo con l’esaltazione della molteplicità e delle soggettività
(Berzano, Gallini 2000; Montagna 2007).
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Luigi Berzano e Renzo Gallini (2000) definiscono tre forme di appartenenza ai centri sociali identificando, sulla base
del modello di Stark e Breinbridge (1985), membri convinti, che compiono una vera e propria “scelta di v ita” dedicando
la maggior parte del loro tempo alla gestione dello spazio, simpatizzanti, che aderiscono e collaborano attivamente alle
attività, e visitatori occasionali che invece si presentano solo per la fruizione delle attività.
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Va precisato che, naturalmente, sia n ell’ am b ito interno dei collettivi che tra gli spazi autogestiti possono prodursi
forme di ‘ ’ g e r ar ch ia s ilen te’ ’ (Pecorelli, 2015) o differenziazioni tali da determinare status diversi tra gli spazi (Mudu,
2004).
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Inoltre, nell’ambito degli spazi autogestiti l’orizzontalità delle relazioni si collega
all’importanza attribuita al principio dell’autonomia, in quanto affermazione del potere della
collettività di autodeterminarsi (Pecorelli, 2015) e dell’<< intelligenza collettiva >> (Berzano e
Gallini, 2000). Di qui i vari autos (Mudu, 2004) che caratterizzano il linguaggio e le prassi
degli spazi autogestiti: autogestione, autofinanziamento, autoproduzione. Quest’ultima
inoltre comporta la formazione, al loro interno, di una << small-scale indipendent economy
[that] feeds a parallel market where other commodities and services are also available>>
(Piazza, 2012: 176).
2.1 Un’eterogeneità irriducibile
Una necessaria premessa nel definire gli spazi sociali autogestiti è che non si tratta di un
insieme omogeneo. Al contrario, << ogni centro sociale è distinto da un particolare percorso
di vita >> (Dines, 1999) e, aggiungiamo, da una peculiare ‘’filosofia’’ della propria azione.
Tale eterogeneità scaturisce, in particolare, dalla coesistenza di diverse tradizioni culturali
e orientamenti politici (Berzano e Gallini, 2000; Montagna, 2007; Mudu, 2004; Piazza 2012),
i quali si riflettono in un’ampia varietà degli obiettivi e delle strategie che ciascuno spazio
autogestito assegna alla propria azione. Questo ha comportato l’insorgere di conflitti tra gli
spazi autogestiti, spesso originati, in particolare, da visioni contrastanti sul tipo di relazioni
da intraprendere con la società “esterna” (Mudu, 2004)
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.
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Una fonte di conflitto fondamentale riguarda l’ o p p o r t u n ità o meno di intraprendere una collaborazione con le
istituzioni, e ha determinato una frattura nel mondo degli spazi autogestiti a partire dal 1993 (Mudu, 2004). Un caso
storico è proprio quello di Roma, che ha visto la nascita di conflitti a fronte d ell’ o p p o r t u n i tà di regolarizzazione delle
occupazioni data dalla Delibera n.26, approvata dal Comune nel 1995 (vedi, Berzano e Gallini 2000).