1 Premessa
Animus directe probari non potest, quia solus Deus est scrutator cordium
1
.
Questo aforisma compendia icasticamente la irriducibile problematicità del dolo
quale canone fondamentale di imputazione soggettiva dell’illecito penale. Esso
incarna, infatti, l’epicentro delle tensioni sotterranee che attraversano la materia
penalistica, in quanto costituisce il terreno di scontro tra le istanze politico-
criminali veicolate dalle scelte del legislatore sostanziale e le ineludibili asperità
probatorie che contrassegnano il momento dell’accertamento. La definitiva
transizione da un diritto criminale supinamente appiattito su modelli di
imputazione oggettiva al diritto penale moderno che focalizza il fulcro del
disvalore nel fatto personale colpevole non poteva non comportare una
“rivoluzione copernicana” nell’architettura dogmatica del reato nonché nelle
tecniche probatorie che ne rappresentano il correlato processuale. La prima sfida,
audace quanto intellettualmente avvincente, si è consumata sul terreno della
costruzione teoretica e giuridico-positiva della figura del dolo: il retroterra
ideologico-filosofico in cui affonda le radici questa figura si estende
potenzialmente verso infiniti orizzonti, involgendo riflessioni che pertengono alla
filosofia morale, alla teologia, alla antropologia e sconfinano volentieri verso i
domini più nebulosi della psicoanalisi e della sociologia criminale. Il modello
antropologico che ne ritrae il diritto penale è quello di un soggetto pensante dotato
di intelletto e volontà
2
, arbitro delle proprie azioni e come tale penalmente
1
MASCARDI, De probationibus, Torino, 1587.
2
La formula adottata dall’art. 85 c.p. “capacità di intendere e volere” sembra compendiare mirabilmente
la summa di secoli di pensiero filosofico, che dal Tomismo al Cartesianesimo sino alla Critica della
2 responsabile per quanto egli pone scientemente in essere a seguito di un libero
impulso della propria volizione. La delineazione dei contorni qualificanti del
rapporto psicologico che avvince il reo al fatto di reato ha seriamente impegnato il
legislatore in un contemperamento di fondamentali opzioni politico-criminali con
elementari esigenze generalpreventive, strumentali alla tenuta del sistema penale.
Questo turbinoso crogiuolo ha consegnato agli interpreti un istituto sicuramente
non esente da imperfezioni ma ricco di indicazioni normative, tali da scongiurare
quel caleidoscopio di opzioni dottrinali che prospera in ordinamenti stranieri – a
tacer d’altri, quello tedesco – che non si peritano di dettare disposizioni definitorie
in tema di dolo. I rassicuranti argini della definizione legale esplicano, in tal senso,
una indubbia funzione garantistica, materializzando ante litteram la previsione
costituzionale di cui all’art. 27 c. 1 Cost. Senonché, la seconda sfida che si profila
al cospetto del diritto penale moderno trascende la eterea distillazione di concetti in
istituti positivi, involgendo il drammatico impatto di una concettuologia giuridico-
positiva “apollinea” con il “dionisiaco” vortice della realtà fenomenica: quale
praticabilità probatoria può ragionevolmente prospettarsi per il canone di
imputazione subiettiva tipizzato dall’art. 43 c. 1 c.p.? L’interrogativo è più che
legittimo atteso che le stesse scienze psicologiche e psicanalitiche – astrattamente
più titolate – sono disarmate nei confronti dell’imperscrutabilità della sfera
psichica; la naturale tendenza degli interna corporis a ritrarsi all’osservazione
sensibile sembrerebbe obbligare il diritto penale moderno ad un clamoroso
dietrofront su quei principi che ne esprimono l’intrinseco garantismo, vale a dire
l’ineludibile onere probatorio gravante sull’accusa circa la sussistenza del fatto e la
sua paternità soggettiva, corollario indefettibile della presunzione di non
colpevolezza ex art. 27 c. 2 Cost. Del resto, l’analisi storica dimostra che quando
una figura del diritto penale sostanziale trova difficoltà di accertamento in sede
Ragion Pura di Kant hanno riconosciuto preminente dignità alla natura pensante e volitiva dell’essere
umano.
3 processuale la conseguenza è o la sua modifica già a livello concettuale o la sua
elisione in sede processuale tramite un sistema di presunzioni. Gli annali della
dogmatica e della giurisprudenza hanno conosciuto rimarchevoli scivolamenti in
entrambe le direzioni, dilatando e distorcendo il modello normativo del dolo da un
lato, adottando sistemi di più o meno larvate presunzioni dall’altro. Il
metamorfismo sperimentato da questa figura è la riprova della funzionalizzazione
politico-criminale delle categorie dogmatiche, fenomeno particolarmente acuto e
reviviscente in relazione alla colpevolezza. Non si può passare sotto silenzio,
infatti, che l’amputazione degli elementi strutturali qualificanti del canone di
imputazione doloso o l’elusione della relativa prova con comodi schemi presuntivi
disattendono gravemente i cardini, codicistici e costituzionali, che presiedono
all’attuazione della comminatoria penale: il sacrificio dei presidi garantistici
enunciati dall’ordinamento sull’altare delle istanze repressive e ciecamente
rigoriste non fa altro che sovrapporre intollerabilmente le opzioni politico-
criminali dell’interprete a quelle espresse dal legislatore. Ben si comprende,
pertanto, come questa materia investa l’essenza stessa del diritto penale di uno
Stato di diritto: questa disamina muoverà dai primordi della civiltà giuridica per
tracciare un rapido profilo della prova del dolo e dello “statuto” passato e presente
delle presunzioni di dolo. Si dissezioneranno, poi, gli stretti intrecci tra profili
dogmatico-sostanziali e rilievi probatori con particolare riguardo a certune
categorie delittuose (reati contro l’onore, delitti di falso, delitti omissivi propri) ove
più insidiose sono le maglie dei paradigmi presuntivi. Si tenterà, inoltre, di
tratteggiare un modello accertativo ricalcato sugli spunti della migliore dottrina,
nel massimo ossequio degli indici normativi, sia costituzionali che
sostanzialpenalistici e processualpenalistici; infine, sulla scorta di questo
paradigma “sperimentale” si offrirà uno spaccato di taglio monografico su una
ipotesi delittuosa di nicchia, il falso d’arte, cimentandosi in un’applicazione severa
e rigorosa dei canoni di imputazione soggettiva dell’illecito.
4 PARTE PRIMA
Capitolo I
Le alterne vicende e la portata della praesumptio doli
SOMMARIO: 1. Breve excursus storico – 1.1 La prava voluntas nel diritto romano e medioevale – 1.2 Apogeo e
declino della praesumptio doli – 2 Uno sguardo de jure condito – 2.1 L’isolata tesi del Manzini – 2.2 (segue)…e la
sua confutazione giusta l’ordinamento positivo
1. Breve excursus storico
1.1 La prava voluntas nel diritto romano e medioevale
Agli albori della civiltà giuridica la fenomenologia dell’illecito penale non
vantava un apparato concettuale degno di questo nome ma era ispirata al più piatto
materialismo meccanicistico il quale si traduceva in forme di responsabilità
oggettiva prive di connotazione subiettiva
3
. Lo svilupparsi della fulgida sapienza
giuridica romana, sedimentata e stratificata nel Digesto giustinianeo, fece emergere
l’indefettibile rilevanza dell’elemento subiettivo sul terreno dei crimina
4
;
l’indagine dei giureconsulti romani si rivolse vieppiù con acume all’aspetto
soggettivo dell’illecito pubblico e ne trasse una scomposizione analitica che
sembra parafrasare il dettato del’odierno art. 43 c. p.. La duplice dimensione
3
Siffatta forma di imputazione venne poi icasticamente cristallizzata nel brocardo latino Qui in re illicita
versatur tenetur etiam pro casu.
4
Giova ricordare che nel diritto romano era reputato penale, ossia soggetto all’irrogazione di pene, sia
l’illecito privato (il cosiddetto delictum che può essere ragguagliato in via approssimativa all’illecito
civilistico degli ordinamenti moderni), sia l’illecito pubblico (il crimen) che rappresenta tecnicamente
l’antecedente della generale figura del reato attorno a cui ruota il moderno sistema penalistico.
5 volitiva e rappresentativa del dolo è mirabilmente condensata nella locuzione latina
sciens dolo malo, formula originariamente tecnica, divenuta in un secondo tempo
di stile
5
. Il sciens ha un precipuo valore intellettivo che forse comprende la
consapevolezza dell’azione, o più generalmente della condotta, l’altro invece
attiene più all’intenzione dell’evento
6
. Come si evince dall’autonomia semantica
dei due elementi del sintagma, il dolus pare esprimere l’aspetto più genuinamente
volitivo dell’atteggiamento del reo: del resto il suo etimo più plausibile è tal, zala
cha significano mira, calcolo
7
; a fortiori, non è casuale che per molto tempo abbia
riscosso credito la teoria del Binding che coglieva del dolus malus un’accezione
arricchita sul piano volitivo interpretandolo come agguato, segreta macchinazione.
Senonchè questo indirizzo esegetico esaspera quello che è solo un valore lessicale
d’origine e approda a fraintendere il dolus con le nozioni di fraus e calliditas
8
.
Il filo di questa preliminare digressione storica deve, tuttavia, volgere tosto
dal profilo strutturale del dolo al piano dell’accertamento probatorio che
rappresenta espressamente il leitmotiv di questa trattazione. Ebbene, giova
premettere che non sfuggì ai giuristi romani, da fini pratici quali erano, il carattere
particolarmente delicato dell’investigazione dell’illecito sul piano subiettivo vista
la naturale tendenza della risoluzione e della volontà umana a sottrarsi ad ogni
5
La sua prima occorrenza è registrata nella lex Regia: Si qui nomine liberum sciens dolo morti duit,
paricidas esto.
6
CANCELLI, Enciclopedia del diritto, voce Dolo, p. 721.
7
Degna di nota la esaustiva disamina etimologica che compie P. F. PASSERINUS, in De occidente unum
pro alio, Parmae, 1693:“Doli nomen varie a variis deducitur. Aliqui enim Dolum e dolando dictum
putant, cum dolare sit minuere ac proinde laedere…Alii a Delendo, cum veritatem quodammodo deleat
qui dolo decipit. Nonnulli a Dolone (qui est virga lignea ferreum inter se gladium abscondens) dolum
ipse latere videatur. Quidam a Dolendo, cum dolus ibi sit ubi aliquid fit, quod legi doleat. Plures a
graeco verbo Delo, quod est Allicio, ac velutiesca quadam capio, cum, qui dolo decipiuntur, dolo capti
diciuntur. Multi ab alio graeco verbo Deo, latine ligo, cum dolo decepti multi saepe ligentur
obligationibus, a quibus liberi essent, si dolus abfuisset. Plurimi denique ac optime a graeco nomine
Dolos, quod laesionem secundum aliquos seu deceptionem significat”.
8
CANCELLI, cit. L’Autore vaglia criticamente tutto quella tradizione esegetica inaugurata da glossatori e
post-glossatori che si appagava della definizione di Labeone per cui il dolo è “calliditas fallacia,
machinatio ad circumveniendum fallendum, decipiendum”. Tra questi annoveriamo, a tacer d’altri,
Azzone con la sua Summa codicis e Baldo degli Ubaldi.
6 osservazione sensibile
9
. In merito a ciò si sviluppò e ottenne seguito un indirizzo
interpretativo tenuto a battesimo dalla scuola dei Glossatori che, interpolando vari
passi del Digesto, propugnava la presunzione del dolo (praesumptio doli) nelle
azioni criminali tipizzate dal diritto romano. Sulla scorta della loro disamina
esegetica
10
essi asserivano che in diritto romano la malvagia intenzione, la prava
voluntas, formava oggetto di presunzioni e non esigeva allegazioni probatorie.
Siffatta posizione incontrò un fiero oppositore nel XIX secolo nel Wening
11
il
quale confutò eloquentemente la pretesa fondatezza di una praesumptio doli nelle
azioni criminali previste dal diritto romano classico e post-classico consacrando la
limpida sentenza quilibet praesumitur bonus, donec contrarium probatum est
12
.
Della disamina del Wening non può tralasciarsi la menzione della L. 6. Cod. de
dolo malo a tenore della quale dolum ex indiciis perspicuis probari convenit
13
; e
del pari l’applicazione che se ne fa nella L. 1 D. ad L. Corn. De sic. alla stregua
della quale fa d’uopo aver riguardo alle circostanze ed alle relazioni del fatto
quando si vuol giudicare dell’intenzione dell’agente
14
. Ciò è manifestamente
indicato dalla locuzione ex re constituendum est
15
. Ulteriore testimonianza della
reiezione di ogni forma di presunzione è ravvisabile nella L. 5 Cod. de injuriis la
quale si rivela significativa ai fini dello svolgimento successivo di questa indagine:
nella figura dell’injuria i giureconsulti ritenevano essenziale l’animus injuriandi il
9
BRICOLA, Dolus in re ipsa,1960, p. 11.
10
Tra i passi del Digesto addotti a suffragio di questa tesi figuravano la L. 6 Cod. de dolo malo, la L. 1 ad
legem Corneliam de sicariis e la L. 5 de injuriis.
11
WENING, Della presunzione del dolo malo a tenore del diritto romano in Scritti germanici di diritto
criminale, a cura di Mori, Tomo I, Livorno, 1846, p. 45 ss.
12
La presunzione di non colpevolezza nella forma di praesumtio boni viri esprime il supremo presidio
garantistico della libertà personale e della dignità umana e non a caso è accolta nella sua enunciazione più
cristallina nell’art. 27 Cost.
13
E nulla cambia se si legge insidiis in luogo di indiciis secondo una lezione alternativa del passo in
esame.
14
WENING, op. cit. p. 57.
15
“D. Hadrianum rescripsit, eum qui nomine occidit, si non occidendi animo hoc admisit, absolvi posse:
et qui nomine non occidit sed vulneravit, ut occidat, pro homicida damnandum: et ex re constituendum
hoc: nam si gladium strinxerit, et in eo percusserit, indubitate occidendi animo id eum admisisse: sed si
clavi percussit, indubitate occidendi animo, leniendam poenam eius, qui in riza causa magis, quam
voluntate, homicidium admisit”.
7 quale in quanto elemento distintivo dell’illecito non poteva essere formare oggetto
di presunzione a pena di cadere in una petizione di principio. Come si avrà modo
di precisare dappresso vi è stato un tentativo in dottrina di riesumare nell’ambito
dell’ordinamento vigente la teoria degli animus in materia di delitti contro l’onore
pur esitando in un nulla di fatto a causa della cornice dogmatica affatto diversa
16
.
La figura dell’injuria incarna d’altro canto un esempio di fattispecie il cui
accertamento può risultare tendenzialmente semplificato in virtù della sua
intrinseca univocità soggettiva, semplificazione che però si misura sempre sul
terreno di un effettivo assolvimento dell’onere probatorio e giammai in un
surrettizio sillogismo presuntivo.
Nel diritto intermedio il volubile pendolo della politica legislativa in campo
penale conobbe ampie oscillazioni: dal regresso registrato dal legislatore
longobardo che comminava pene astraendo completamente dalla ricerca
dell’elemento psichico
17
alla generalizzata presunzione di dolo professata dai
giuristi italiani del diritto statutario
18
. Del resto non deve stupire il dilagare delle
presunzioni di dolo in un’epoca in cui regnava sovrana l’incertezza
nell’inquadramento dogmatico del dolo e della colpa talvolta con equiparazione del
trattamento sanzionatorio. Le praesumptiones doli conoscevano un regime
particolare a seconda degli autori: ad esempio l’Alciato la escludeva o perlomeno
la limitava a proposito dei contadini (rustici). Era un rigore…a fin di bene
19
. Talora
quelle definizioni che sembrebbero postulare l’esigenza di una presunzione del
dolo, in realtà si traducevano in una lunga casistica di elementi del fatto che ne
16
Si allude alla teoria psicologica del Florian che configurava un finalismo psicologico precipuo nei
delitti di diffamazione e ingiuria spingendosi a identificare l’estremo del dolo specifico invero estraneo
alla fattispecie incriminatrice positiva.
17
Inadeguata padronanza di tecnica giuridica o rudimentale criterio di politica legislativa ispirato a canoni
di repressione e di prevenzione? Probabilmente la risposta risiede proprio nel principio ne delicta
remaneant impunita.
18
Bonifacio Vitalini, giurista del Trecento, asseriva in via generalizzata omne male factum, male
praesumitur actum nel suo Tractatus super maleficiis (Lugduni, 1526).
19
MARONGIU, Enciclopedia del diritto, voce Dolo, Giuffré, p. 735.
8 consentivano la ricostruzione
20
. In quest’epoca prese forma quel filone del dolus
indirectus, poi sistematizzato da Carpzov, e che affondava le radici nella dottrina
del Bartolo; quest’ultima è agevolmente compendiabile nel principio secondo cui
la volontà della causa implica di per sé la volontà dell’effetto, quando l’azione ha
in sé tale forza espansiva da dover far prevedere il verificarsi dell’evento stesso
21
.
In altre parole dalla prevedibilità dell’evento connesso all’azione se ne deduceva
oggettivamente la sua volontarietà.
1.2 Apogeo e declino della praesumptio doli
Il travaglio dogmatico che interessò la figura del dolo non conobbe sosta in
età illuministica: si trascolorò da posizioni oggettivizzanti che canonizzavano
figure spurie di dolus indirectus dal dubbio contenuto psicologico
22
alla teoria di
Feuerbach che suggellava una concezione autenticamente psicologica della
colpevolezza, pur risparmiando una species di dolus indeterminatus che costituirà
il ceppo di una lunga filiazione di forme oblique di volizione fino al ben noto dolo
eventuale
23
. Il complesso panorama della riflessione dogmatica si rifletteva a
fortiori sul terreno processuale, fermo restando che le esigenze politico-criminali
di marca repressiva avevano sempre la meglio su peregrini scrupoli garantistici.
La spinosa questione dell’accertamento processuale del dolo aveva da sempre
20
BRICOLA, op. cit., p.11, propone l’esempio di Prospero FARINACCIO, De poenis temperandis, ed.
Francoforte, 1605, pp. 135 ss.: “dolus praesumitur ex qualitate personarum: insolito delinquere; ex
qualitate facti…; ex qualitate temporis; ex mendacio; ex violentia; in actu clam gesto; ex actu qui agenti
non prodest et alteri nocet etc.”
21
Particolarmente perspicue le parole del Baldo riportate da PECORARO ALBANI, Il dolo, Pubblicazioni
della facoltà giuridica di Napoli, 1955, p. 273. Il celebre commentatore d’età intermedia si riferiva
esplicitamente alla idoneità del mezzo adoperato dall’omicida, “aptum ad inferendum mortem”, che
doveva far prevedere all’agente la possibilità dell’evento: “debuit cogitare illud posse evenire. Non
sufficit igitur delinquenti dicere: non putavi quia putare debuit” quindi risponde di omicidio “ac si
habuisset animum occidendi”.
22
La dottrina del Carpzov cui si alludeva dianzi.
23
Tale dolus indeterminatus sussisterebbe quando l’autore è orientato alternativamente a più violazioni
del diritto di un determinato genere (non a caso è chiamato anche dolus alternativus).
9 conosciuto due potenziali sbocchi: da un lato il ricorso alla confessione come
“regina delle prove”, da estorcere eventualmente con la tortura, praticata durante il
periodo storico di vigenza del diritto comune; dall’altro, una volta abolita la
tortura, l’invocazione di presunzioni generali di dolo. La temperie intellettualmente
vivace dell’epoca non mancò di fornire un fondamento filosofico alla allgemeine
praesumptio doli:
“poiché nelle azioni umane la natura dello spirito umano può
permettere la spiegazione più immediata dell’intenzione di una
persona, deve ritenersi, perciò, che la produzione di un effetto per
mezzo di un’azione volontaria, senza che quell’effetto sia stato scopo
della volontà, rappresenti solo una particolare eccezione a una regola
generale: così anche un effetto antigiuridico prodotto attraverso
un’azione volontaria deve venire riconosciuto come scopo della
volontà, a meno che non si mostrino motivi sufficienti per una
eccezione (facta laesione praesumitur dolus, donec probatur
contrarium)”
24
.
La portata della presunzione di dolo va colta, dunque, sul duplice piano
sostanziale e processuale: sotto il primo profilo essa postula il carattere
intenzionale e consapevole dei fatti umani e, a fortiori, di ogni atto illecito
penalmente rilevante. Trattasi di una nozione tributaria di una precipua visiona
antropologica che vede l’uomo ineluttabilmente signore degli eventi cui dà
impulso ma, di riflesso, lo ritiene inesorabilmente responsabile per essi. Orbene, se
filosoficamente può essere travisata come un’esaltazione del libero arbitrio, essa
invero cela una valenza deteriore che si dispiega in tutta la sua latitudine sul
terreno processuale. In quella sede la presunzione juris tantum
25
di dolo solleva
l’accusatore da ogni gravame probatorio circa la paternità soggettiva dell’atto
24
FEUERBACH, Lehrbuch des gemeinen in Deutschland gultingen peinlichen Rechts, 4. Aufl., Giessen
1808, pp. 59-60.
25
Si badi bene, infatti, che la presunzione opera donec contrarium probatur!!
10 incriminato e riversa l’immane fardello della prova contraria all’accusato. Lungi
dall’esaltare la signoria umana sugli eventi essa esprime in germe l’idea dell’in
dubio contra reum
26
, regola madre per gli ordinamenti di tipo inquisitorio; per
richiamare un’immagine pittoricamente più espressiva la presunzione di dolo si
atteggia come una “macchina morta piantata all’ingresso della inquisizione
penale”
27
.
La regola generale di presunzione di dolo ricevette addirittura il crisma della
positività allorché venne codificata nell’art. 43 del codice penale bavarese
28
del
1813, il cui progetto risaliva appunto a Feuerbach:
“quando si deve dimostrare contro una persona un fatto antigiuridico,
viene legalmente ammesso che lo stesso ha agito con dolo
antigiuridico, a meno che da particolari circostanze non risulti la
certezza o la probabilità del contrario”.
L’anzidetta norma venne, tuttavia, interpretata in chiave depotenziata come
semplice criterio di massima per la prova del dolo per mezzo dell’esame di indizi,
declassandola in tal modo da praesumptio legis a praesumptio hominis; invero non
si fecero attendere le aspre e serrate critiche della dottrina che ne lamentava la
fallacia sul piano filosofico-antropologico (sarebbe indimostrato che i fatti sono di
norma occasionati intenzionalmente) oltre che l’assenza della benché minima
parvenza di legittimazione storica. Difatti si è dianzi argomentato in modo esteso
che l’istituto della presunzione di dolo è estraneo alla tradizione giuridica romana
29
.
26
RAGUES Y VALLES, El dolo y su prueba en el proceso penal, Barcelona, 1999, p. 283 s.
27
WENING, op. cit., p. 50.
28
Senza tema di smentite questa attestazione giuspositiva non era tacciabile di primitivismo se
confrontata con gli altri ordinamenti penali coevi: il codice penale francese del 1810 taceva sull’elemento
psichico dei delitti e sulla sua scia si collocavano le legislazioni penali negli Stati pre-unitari italiani. Il
codice toscano del 1853, invece, nell’art. 34, conteneva una formula vaga ed equivoca, con cui dichiarava
non imputabili i delitti quando il loro autore non avesse avuto coscienza dei propri atti e libertà
d’elezione. Perplessa e incompleta era la formula accolta nell’art. 45 dal codice del 1889, perché aveva
riguardo soltanto all’elemento della volontà diretta a commettere un fatto contrario alla legge.
29
Cfr. WENING supra.
11 La sorte di questa istituto parve, dunque, imboccare la parabola discendente
allorchè venne espunto dal codice penale bavarese e lo stesso Feuerbach abdicò
alle sue originarie argomentazioni, recependo il disagio espresso pressoché
unanimemente dalla dottrina. Senonché le istanze probatorie in tema di elemento
subiettivo, abbandonati gli schemi apertamente presuntivi ripiegarono su moduli di
accertamento di carattere inferenziale, ad essi pur sempre contigui. Si argomentava
che l’investigazione dell’elemento psicologico dell’illecito penale doveva
imprescindibilmente prendere le mosse dalle modalità di commissione del fatto,
estrapolando dalle connotazioni temporali, spaziali, modali e dalle circostanze
antecedenti, concomitanti e susseguenti ogni possibile indice sintomatico della
dolosità dell’atto. Siffatto modello probatorio inferenziale venne designato dolus
ex re assurgendo a vero e proprio concetto autonomo
30
: esso, infatti, registrava uno
scostamento dal sistema della prova legale ereditato dal processo romano-canonico
che in via generale proibiva la prova indiziaria
31
. E il dolus ex re altro non era che
un esempio di applicazione pratica della struttura generale della prova indiziaria in
materia di elemento psicologico. Non può sfuggire che questa apparente nuova
categoria dogmatica ben poco aveva di contenutistico, semmai molto di
procedurale; essa del resto affondava le radici in una tradizione ricca di illustri
precedenti romanistici: a tacer d’altro, basti richiamare alla memoria la già citata L.
6 Cod. de dolo malo che ammoniva il giudicante a inferire il dolo ex indiciis
perspicuis o la pletora di altre locuzioni che costellano i frammenti collazionati nel
Digesto che esprimono le stesso concetto (ex re, ex facto).
30
VON WEBER descrive il dolus ex re come “quel dolo criminale che si può riconoscere in modo sicuro
già dalla specie e dalle modalità di perpetrazione del delitto, dalle circostanze esteriori dell’azione
concreta, senza che lo stesso reo lo confessi e senza che occorra tale confessione. Questo cosiddetto dolus
ex re non ha alcun peculiare carattere interiore, ma soltanto un significato in relazione alla formazione
della prova, in quanto la sua dimostrazione non richiede la confessione del reo, altrimenti necessaria per
l’esistenza del dolo, ma avviene già attraverso una conclusione dal modo”.
31
Divieto reiterato dalla Constitutio criminalis carolina emanata dall’imperatore Carlo V nel 1532.
12 L’ingresso in scena del principio della libera valutazione della prova spazzò
via le incrostazioni e le soprastrutture ereditate dai moduli processuali romano-
canonici. Il giudice, per raggiungere il suo convincimento poteva allora fare
ricorso a tutti i mezzi di prova che non fossero espressamente proibiti, e nello
specifico ambito del dolo, ai più diversi indizi. Lo sdoganamento della prova
indiziaria spogliava di ogni valenza distintiva la locuzione dolus ex re nel mutato
contesto processuale e ne sanciva il tramonto
32
.
Dalla panoramica storica che si è tracciata si evince l’intima correlazione tra
profili subiettivi dell’illecito penale e dinamica probatoria del loro accertamento; in
particolar modo, si è potuto apprezzare il ventaglio di escamotages tecnico-
giuridici escogitati nell’arco del tempo dagli operatori del diritto onde eludere le
difficoltà obiettive di carattere probatorio. La perenne tentazione di fuggire verso
comodi schemi presuntivi che sgravano il ruolo dell’accusa si è manifestata in
parallelo a più meditati moduli processuali che valorizzano la prova effettiva del
coefficiente psicologico facendo seriamente i conti con le asperità che esso
comporta.
2. Uno sguardo de jure condito
Volgiamo ora la nostra disamina all’ordinamento vigente per apprezzare il
portato del laborioso travaglio concettuale di cui si è dato dianzi un sommario
conto. Il nostro sistema penale riserva all’aspetto psicologico del reato alcune
disposizioni di parte generale che hanno un taglio dogmatico (non scevro da
imperfezioni come si avrà modo di rilevare) fissando i lineamenti strutturali dei
32
DE MURO, Il dolo. Svolgimento storico del concetto, 2007, p. 172. L’Autore osserva che un conto è
parlare di dolus ex re nel sistema del diritto comune, dove anch’esso, in fondo, ha il senso di una prova
legale e non ammette prova in contrario, altro discorso è inserire tale concetto in un sistema di libera
valutazione della prova, dove rappresenta solo uno dei mezzi per la formazione del libero convincimento
del giudice.