I
INTRODUZIONE
“La cultura assume forme diverse nel tempo e nello spazio.
La diversità si rivela attraverso gli aspetti originali e le diverse identità
presenti nei gruppi e nelle società che compongono l'Umanità.
Fonte di scambi, d'innovazione e di creatività, la diversità culturale è,
per il genere umano, necessaria quanto la biodiversità per qualsiasi
forma di vita. In tal senso, essa costituisce il patrimonio comune
dell'Umanità e deve essere riconosciuta e affermata a beneficio delle
generazioni presenti e future”.
Così recita il primo articolo della Dichiarazione Universale
dell'UNESCO sulla Diversità Culturale adottata nel 2001 ed è quello a
cui una società moderna e civile come la nostra dovrebbe aspirare.
Oggi, anche se l’atteggiamento generale delle persone nei confronti delle
differenze sembra essere molto più aperto, rispetto a pochi anni fa, e si
parla sempre più di uguaglianza, tolleranza e rispetto, ciò non sempre si
traduce effettivamente in comportamento, infatti è a dir poco terrificante
che su facebook esista un gruppo che si chiami “più rum e meno rom”, e
conta quasi 2700 iscritti, oppure leggere di ragazzi che annoiati
“bruciano un indiano solo per divertimento,” piuttosto che deridere
qualche coetaneo solo perché disabile.
La speranza, è che l’interesse nei confronti delle diversità, quali che
siano: di colore, nazionalità, abilità fisiche e psichiche, religione o
orientamento sessuale, ma anche professionali e attitudinali, che
caratterizzano le persone, e sono sempre più al centro di manifestazioni,
dibattiti e conferenze, possono portare un effettivo cambiamento nella
mentalità predominante, che fatica ad accettare il diverso.
II
Il problema però non è semplicemente accogliere le diversità in un’ottica
assistenzialistica, ma quello che bisognerebbe raggiungere è la
consapevolezza del valore aggiunto che ogni differenza porta con sé.
Nel nostro Paese, il tema della diversità culturale è riconducibile al
sempre più consistente fenomeno dell’immigrazione, infatti, l’Italia, un
tempo Paese di emigrazione, è ora tra i Paesi industrializzati meta dei
principali flussi migratori e, nel 2050, secondo il rapporto del
Dipartimento affari sociali ed economici dell’ONU, al ritmo di 139.000
nuovi arrivi l’anno, salirà al quarto posto nella classifica mondiale.
Immigrazione, cambiamenti demografici e aspettative della forza lavoro,
sono solo alcuni dei fenomeni che hanno profondamente modificato la
società e che sottolineano come la crescita economica italiana sia sempre
più dipendente dalle minoranze che si sono integrate nel nostro Paese,
dove vivono, studiano e soprattutto lavorano. Ed è proprio il luogo di
lavoro quello in cui le discriminazioni, siano esse dirette o indirette, si
manifestano più di frequente. È pertanto necessario che nelle imprese
ritorni centrale il ruolo della persona come portatrice di nuovi valori e
nuove competenze, di conseguenza è necessario dotarsi di un nuovo
approccio di gestione organizzativa che permetta di affrontare e
sfruttare le peculiarità di ognuno per raggiungere con successo gli
obiettivi di business.
La soluzione, a cui le imprese che hanno già compreso le trasformazioni
in atto, sono arrivate è quella del Diversity Management, concetto
attraverso cui molti studiosi designano l’adozione di politiche e
programmi in grado di valorizzare i bisogni, le esigenze e non ultimo il
talento delle persone che compongono l’organizzazione e che lavorano
per il miglioramento delle performances aziendali. Le diverse
caratteristiche degli individui rappresentano una fonte di ricchezza per le
aziende e, le aziende stesse devono essere in grado di gestirle.
La gestione delle diversità però, non deve limitarsi ad accogliere le
differenze, ma deve puntare ad ottenere da una forza lavoro eterogenea
la stessa produttività, le stesse qualità e lo stesso impegno di una forza
lavoro omogenea e, cercare di migliorare queste prestazioni proprio
grazie all’eterogeneità.
III
Come avremo modo di specificare nel presente lavoro il Diversity
Management irrompe nelle organizzazioni americane quando lo Hudson
Institute pubblicò il report Workforce 2000, nel quale informava i nord-
americani che entro l’anno 2000 la forza lavoro sarebbe stata sempre più
eterogenea sia culturalmente che etnicamente.
In particolare nel primo capitolo si è cercato di ricostruire il percorso che
dalle Affirmative Action degli anni’60 ha portato allo sviluppo di questo
nuovo approccio organizzativo, cercando di comprendere come studiosi
ed esperti hanno cercato di definire quali siano effettivamente le
differenze che fanno di ogni individuo un individuo unico.
Si è cercato, attraverso gli studi della Commissione Europea di capire i
benefici, ma anche i costi e gli ostacoli che possono trovare le aziende
che decidono di fare del diversity management la loro filosofia
gestionale.
Nel secondo capitolo attraverso la storiella dell’elefante e della giraffa, si
affronterà la questione della cultura organizzativa e del suo significato,
inoltre saranno proposti i principali modelli presenti in letteratura che si
concentrano prevalentemente sull’implementazione di pratiche volte
all’integrazione delle persone nelle organizzazioni; ma verranno presi in
considerazioni anche gli ostacoli soggettivi all’accettazione delle
diversità, facendo riferimento al Modello di Sensibilità Interculturale di
M. Bennett, e il diversity manager, quale figura fondamentale per capire
il nuovo contesto aziendale.
Nel terzo capitolo si è cercato di capire quali sono le motivazioni che
hanno inciso sugli approcci teorici di management all’interno delle
organizzazioni e quali i complessi fenomeni che hanno portato a
profondi cambiamenti nelle modalità di organizzazione e di
funzionamento aziendale (femminilizzazione del mercato del lavoro,
invecchiamento della popolazione, la disabilità e il tema cross culture).
In particolar modo si è fatto riferimento alle piccole e medie imprese che
costituiscono la principale forma di organizzazione aziendale in tutti gli
Stati membri dell’Unione europea e che solo in Italia rappresentano una
percentuale del 99,9%. Si visto come l’adozione di iniziative di
responsabilità sociale rappresenta ormai una priorità strategica e l’unico
IV
modo per un’ impresa di stare sul mercato ed essere competitivi e, come
le piccole e medie imprese includono con il lavoro attraverso un rapporto
diretto con la persona, inoltre, puntando sul saper fare e sul rapporto
individuale realizzano una piena integrazione o non integrano affatto.
Nel quarto capitolo sarà analizzato il fenomeno migratorio in Italia, che
con oltre 4 milioni di cittadini immigrati rappresenta un Paese inserito
nel moderno contesto dei flussi migratori e, come tale fenomeno sia da
tempo diventato la risposta al fabbisogno di manodopera delle imprese,
saranno, infatti presi in considerazione i vari modelli di inserimento
lavorativo degli immigrati e analizzato il significativo ruolo
dell’immigrato come imprenditore nell’economia nazionale.
Il lavoro per un immigrato però non rappresenta solo lo strumento con
cui costruire la propria esistenza in terra straniera, ma il luogo di lavoro
costituisce anche l’ambito in cui si annidano sempre più i rischi della
discriminazione, la quale si manifesta nelle diverse fasi che
caratterizzano il ciclo lavorativo dall’accesso, alle modalità di
dismissione.
L’ultimo capitolo è dedicato all’analisi della gestione delle diversità
nazionali e culturali in alcune imprese italiane. In particolare tre piccole
e medie imprese (Adriaplast, Azienda Agricola Fungar, Ricci
Sabbiatura) e due grandi multinazionali (Autogrill e Gruppo Pirelli).
1
CAP.1 STORIA DEL DIVERSITY MANAGEMENT
1.1 DALLE AFFIRMATIVE ACTION AL DIVERSITY
MANAGEMENT
L’approccio alla gestione della diversità si sviluppa negli USA alla fine
degli anni 80, sulla scorta di un percorso iniziato negli anni 60 con la
promozione delle politiche di Affermative Action, finalizzate
all’integrazione delle diversità in azienda. Nello specifico, importante fu
il Civil Rghts Act del 1964, che con il Titolo VII proibì in ambito
lavorativo le discriminazioni in base alla razza, al colore della pelle, alla
religione, al genere e alla nazionalità d’origine.
1
Le politiche di Affirmative Action vennero introdotte nel 1965 con
l’amministrazione di Johnson e imposero l’assunzione obbligatoria di
determinate quote di gruppi “diversi”;
2
l’idea di fondo era quella di
rimediare agli errori compiuti nel passato nei confronti di coloro che
appartenevano alle minoranze etniche, promuovendo l’assunzione e la
formazione di personale qualificato appartenente a gruppi minoritari.
1
Cuomo S., Mapelli A., Diversity Management. Gestire e valorizzare le differenze
individuali nell’organizzazione che cambia. Ed. Angelo Guerini e Associati, Milano,
2007
2
Cuomo S., Mapelli A., Diversity Management. Gestire e valorizzare le differenze
individuali nell’organizzazione che cambia. Ed. Angelo Guerini e Associati, Milano,
2007
2
I programmi di Affirmative Action si basavano su valutazioni numeriche
e comprendevano il confronto statistico dell’effettiva forza lavoro con la
fonte di manodopera disponibile, per verificare se le minoranze erano
sottoutilizzate. Questo inserimento obbligatorio ha portato nel tempo ad
alcune spiacevoli conseguenze, legate alla difficoltà di “abitare” una
posizione non per merito, ma per appartenenza ad un determinato gruppo
sociale. Si genera così un fenomeno inverso, la “Reverse
Discrimination”, la discriminazione al contrario, dove è infatti, il
gruppo dominante a sentirsi discriminato, ossia penalizzato per il fatto di
dover sottostare a regole che, in modo indiretto lo escludono da alcuni
percorsi.
3
Sulla scia delle Affirmative Action furono emanate negli anni 60 le
politiche di Pari Opportunità, le quali promuovevano l’uguaglianza
assoluta tra i membri dell’organizzazione. Tale uguaglianza è esasperata
a tal punto che i membri dell’organizzazione vengono “privati” del
proprio genere, della propria nazionalità, cultura o religione per creare
un’organizzazione costituita da membri tutti uguali.
Tali approcci, quindi, privano le persone dei tratti distintivi della loro
natura, tanto da alienarli dal loro modo di vivere. Il limite di queste
politiche è la totale mancanza di riconoscimento e tutela dei tratti
identitari dei dipendenti dell’azienda (Liff, 1997)
4
.
Un terzo approccio alla gestione della diversità è il “Valuing
differences”. Modello che pone enfasi sull’apprezzamento delle diversità
e sulla creazione di un ambiente in cui ognuno si senta valorizzato e
apprezzato
5
.
3
Bombelli M.C., Diversity Management motivazioni, problematiche e prospettive di
utilizzo. Laboratorio Armonia SdA Bocconi, 2007.
4
Liff S., Two routes to managing diversity: individual differences or social group
characteristics. Employee Relation, Vol 19, N.1, 1997
5
Cuomo S., Mapelli A., Diversity Management. Gestire e valorizzare le differenze
individuali nell’organizzazione che cambia. Ed. Angelo Guerini e Associati, Milano,
2007
3
Questo modello si basa sull’assunto che i vari gruppi conserveranno le
proprie caratteristiche e modelleranno l’organizzazione tanto quanto lo
saranno da essa, creando un insieme comune di valori
6
.
Nemmeno questo tipo di approccio è in grado, da solo, di implementare
le diversità all’interno di un’organizzazione.
R. Roosevelt Thomas Jr. nel suo lavoro “From Affirmative Action to
Affirming Diversity” (1990), utilizza una metafora per spiegare la
necessità della gestione della diversità all’interno di un’organizzazione:
l’Affirmative Action consiste nel mettere un nuovo combustibile in
un’auto, cioè dare la possibilità di entrare a far parte dell’organizzazione,
ma, se l’auto non è pronta ad “adeguarsi e reinventarsi” non ci sarà
l’opportunità di sfruttare il potenziale offerto da nuovo combustibile. Un
approccio corretto è quello di intraprendere delle azioni necessarie a fare
in modo che ognuno possa svolgere il proprio lavoro al massimo delle
sue potenzialità. La gestione delle diversità, quindi, non deve limitarsi ad
accogliere le diversità, ma deve puntare ad ottenere da una forza lavoro
eterogenea la stessa produttività, le stesse qualità e lo stesso impegno di
una forza lavoro omogenea e, cercare di migliorare queste prestazioni
proprio grazie all’eterogeneità.
Il termine Diversity Management risale al 1987, quando lo Hudson
Institute pubblicò il report Workforce 2000, nel quale informava i nord-
americani che entro l’anno 2000 la maggioranza dei lavoratori sarebbe
stato afro-americano, ispanico, nativo-americano, donna e appartenente
ad altri gruppi minoritari.
Questa notizia sorprese molti uomini d’affari americani che, allarmati,
iniziarono a porsi il problema della valorizzazione e del mantenimento
dei propri talenti, appartenenti a razze, religioni, etnie e stili di vita
differenti
7
.
Il Diversity Management nasce, quindi, come approccio orientato
all’identificazione e alla valorizzazione delle diversità presenti nelle
6
Cuomo S., Mapelli A., Diversity Management. Gestire e valorizzare le differenze
individuali nell’organizzazione che cambia. Ed. Angelo Guerini e Associati, Milano,
2007
7
Lorbiecki A., Jack G., Critical Turns in the Evolution of Diversity Management, in
“British Journal of Mnagement”, Vol. 11, Special Issue, 2000, S17-S31
4
organizzazioni americane, infatti: “il Diversity Management rappresenta
per tali aziende una soluzione sia strategica che operativa. Lavorando su
due livelli apparentemente opposti, il concetto di uguaglianza e la
consapevolezza delle differenze. Il Diversity Management rende
accessibili a qualunque dipendente le stesse opportunità ma in maniere
diverse. Ogni risorsa viene quindi valorizzata secondo i suoi ritmi, le sue
competenze e le sue qualità”
8
.
Alla luce di quanto appena detto, si può notare come lo sviluppo del
Diversity management e la sua effettiva implementazione, come valore
realmente interiorizzato all’interno di una cultura aziendale, rappresenti
lo stadio finale di un processo storico contraddistinto da tre diverse fasi
(T.Wilson, 1997) che seguono l’evoluzione del contesto economico e
sociale:
1950- 1970 l’età della disuguaglianza: questa fase ha rappresentato il
culmine dell’industrializzazione e gli inizi dell’era dell’informazione. La
società era relativamente omogenea e c’era una certa tolleranza verso le
varie differenze (razza, genere, età, abilità fisica e cultura) che venivano
definite attraverso misure di conformità alla norma.
1970-2000 l’età dell’uguaglianza: in questo periodo venne promulgata
la legislazione a favore delle pari opportunità. Le organizzazioni
riconoscono che per una buona strategia di management è doveroso
eliminare ogni forma di discriminazione e trattare i lavoratori in maniera
equa. Ma l’esasperazione del principio di “imparzialità legislativa”
applicato a tutte le sfere di trattamento dei dipendenti, ha impedito un
adeguata considerazione dei tratti distintivi della forza lavoro.
2000+ l’età dell’equità: questa fase arriva come risposta all’idea di
uguaglianza assoluta tra i membri dell’organizzazione. Attraverso
l’equità le organizzazioni prendono atto e valorizzano le differenze,
iniziando a riconoscerle e cercando di creare le condizioni necessarie a
sviluppare il talento individuale a tutti i livelli.
8
The Community Iniziative EQUAL, Diversity Governance & Management,
Newsletter Nr.2, marzo 2004