Tesi di laurea Disturbo Antisociale di Personalità:
dal microsistema al macrosistema
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INTRODUZIONE
L’obiettivo di questo lavoro è comprendere il disturbo antisociale di personalità in
quanto fenomeno sociale che, in modo preoccupante si sta affermando e strutturando
come modalità di funzionamento generale.
Questa preoccupazione fonda le sue radici nella consapevolezza che la società
attuale, rappresentata da organi e istituzioni, sia carente di valori e modelli positivi
cui far riferimento e affidamento. Si prende in considerazione anche il fatto che
questo contesto malsano possa a qualche livello pesare sull’equilibrio individuale. La
letteratura infatti conferma che il sociale può produrre un certo condizionamento che
può arrivare a determinare un disturbo (Licari, 2008).
Le persone, essendo esposte ripetutamente a una certa tipologia di esperienze stabili
e organizzate attraverso le forze culturali e istituzionali della società di appartenenza,
percepiscono un senso di continuità e organizzano di conseguenza anche la loro
personalità. E così i disagi individuali, dai quali si esplicano disturbi psicopatologici,
sarebbero in relazione con il contesto sociale primario e con quello secondario, in
quanto cornice di riferimento emozionale e culturale.
Per arrivare a comprendere la dimensione macrosistemica di questo fenomeno, è
stato necessario partire studiandolo a livello microsistemico.
Nel primo capitolo viene illustrato il costrutto dell’aggressività, che va dalla
dimensione di normalità e valenza positiva delle condotte aggressive, sostenuta
soprattutto da biologi ed etologi evoluzionisti, al polo opposto della devianza,
enfatizzata dagli studiosi di psicopatologia dello sviluppo. Vediamo come
l’aggressività sia una tendenza comportamentale filogenetica riscontrabile sia nel
mondo animale quanto nell’essere umano.
Gli studi hanno prodotto risultati apprezzabili relativi alla scoperta di somiglianze tra
diverse specie rispetto alle componenti dell’aggressività.
Inoltre è interessante osservare il funzionamento interno e biologico dell’uomo
attraverso il sistema neurotrasmettitoriale e cerebrale. Le nostre risposte
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comportamentali mostrano solamente la loro espressione esterna, ma sono invece più
ricche e comprensibili se completate da uno sguardo verso l’interno.
Il secondo capitolo illustra il disturbo antisociale da un punto di vista clinico. Si pone
enfasi sulla fenomenologia di questo disturbo, per l’importanza descrittiva che questa
consente. Viene esposta l’eziologia attraverso l’analisi del temperamento, dei fattori
genetici e dei fattori ambientali e sociali. Infine viene descritto l’aspetto diagnostico,
facendo riferimento al DSM-IV, al PDM, all’ ICD-10 e alla SWAP-200.
Viene inoltre specificata la differenza con la psicopatia.
Il terzo capitolo si addentra in un’analisi a livello macrosociale del fenomeno
antisociale. Una breve contestualizzazione storica introduce la descrizione
dell’attuale sistema politico italiano, caratterizzato da tratti antisociali allarmanti.
Vengono esaminati aspetti come la manipolazione, il controllo, il bisogno patologico
di esercitare il potere e il controllo onnipotente, la ricerca sconfinata di trattamenti
preferenziali, diritti e privilegi e la tendenza ad agire in modo illegale e criminale.
Questo panorama viene reso più concreto dalla somministrazione dello strumento
diagnostico SWAP-200 ad un politico italiano ai vertici. Questa applicazione è servita
per consolidare l’aspetto descrittivo, senza la presunzione di validare una diagnosi.
Il quadro antisociale che viene delineato, ci porta a riflettere sui possibili effetti che
questo modello istituzionale e culturale può avere sulla società.
Un’osservazione conclusiva della società italiana infatti mostra una preoccupante
corrispondenza con il suo sistema politico di riferimento. Attraverso studi svolti da
sociologi ed enti di ricerca è stato possibile integrare dei dati che sottolineano la
presenza di tratti antisociali diffusi nella popolazione.
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Capitol o 1. Il microsistema d el disturbo antisocial e
1.1 Aggressività fra fil ogenesi e ontogenesi
“La natura ha strane leggi, ma lei, almeno le rispetta”
Leo Longanesi
Nella storia dell’umanità si susseguono capitoli sanguinari. Nonostante l’uomo sia
riuscito a sconfiggere animali feroci, epidemie e altri mali che attentavano alla sua
sopravvivenza, ancora oggi, i nostri peggiori nemici siamo proprio noi stessi, in
preda alle nostre pulsioni aggressive. Il costrutto dell’aggressività, intorno al quale
ruotano molte elaborazioni teoriche, viene posto lungo un continuum che va dalla
dimensione di normalità e valenza positiva delle condotte aggressive, sostenuta
soprattutto da biologi ed etologi evoluzionisti, al polo opposto della devianza,
enfatizzata dagli studiosi di psicopatologia dello sviluppo, ed evidenziata nelle
classificazioni nosografiche del Manuale statistico e diagnostico dei disturbi mentali
(DSM-IV). È importante considerare che l’aggressività è una tendenza
comportamentale filogenetica riscontrabile sia nel mondo animale quanto nell’essere
umano (Eibl-Eibesfeldt, 1970). Tenute in considerazione le differenze qualitative e
quantitative esistenti tra le manifestazioni aggressive animali e quelle umane, gli
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studi hanno prodotto risultati apprezzabili relativi alla scoperta di somiglianze tra
diverse specie rispetto alle componenti dell’aggressività.
Animali appartenenti a moltissime specie, compreso l’uomo, combattono contro i
conspecifici. K. Lorenz (1990) distingue due diverse tipologie di comportamento
aggressivo: quello “interspecifico”, che si manifesta tra individui di specie diversa ed
è finalizzato alla ricerca del cibo, e quello “intra-specifico”, che si attua tra membri
della stessa specie. Il primo tipo non prevede l’intenzionalità di danneggiare l’altro,
né l’espressività tipica aggressiva. Solo l’aggressività intra-specifica, quindi,
dovrebbe essere considerata un comportamento aggressivo vero e proprio, in quanto
intenzionale, ma anch’essa sarebbe legata a un istinto innato fondamentale per la
conservazione dell’individuo e della specie.
R. Dart (1925), seguito poi nelle sue argomentazioni da R. Ardrey (1961), ha cercato
di spiegare l’aggressività dell’uomo moderno con il modo di vita predatorio dei suoi
antenati: le scimmie antropomorfe uccidevano la preda con ossa di antilope. Tale
‘aggressività’ sarebbe la radice dell’aggressività umana. Ciò che ambedue questi
studiosi trascurano è il fatto che gli animali vegetariani non sono più ‘buoni’ degli
animali da preda. Dunque l’aggressività intraspecifica non deriverebbe da un modo
di vita predatorio. Ci sono quindi eventuali vantaggi selettivi dal comportamento
aggressivo?
Gli studi sono andati in questa direzione, dimostrando alcuni vantaggi
dell’aggressività. In molti casi la sopravvivenza della specie veniva garantita
attraverso comportamenti aggressivi. È altresì evidente che, se durante un
combattimento un membro della specie rimane ferito o viene ucciso, in tal caso
l’aggressività non porta vantaggio alcuno per la specie
Sono molto interessanti a questo proposito le descrizioni sulle strategie inibitorie
dell’aggressività adottate da molte specie animali, con le quali essi non rinunciano a
espressioni ritualizzate dell’aggressività. Attraverso queste ritualizzazioni trova
espressione l’aggressività, senza che essa comporti uccisioni o scontri cruenti.
Tuttavia non tutte le specie dispongono di meccanismi inibitori dell’aggressività; si
tratta innanzitutto di animali non dotati di armi pericolose, e di animali la cui
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capacità di fuga è così sviluppata che essi, dopo un breve scontro, possono
facilmente allontanarsi dall’avversario.
Un tratto notevole dell’aggressività intraspecifica è la sua spontaneità. Animali
tenuti per lungo tempo senza combattere divengono sempre più bellicosi,
evidentemente in base a un loro proprio funzionamento biologico. Un agito
aggressivo non viene sempre scatenato semplicemente da determinati stimoli chiave.
Talvolta, vengono attivamente ricercate situazioni di stimolo scatenante che
permettano agli animali determinati al combattimento di abreagire la loro pulsione
aggressiva accumulatasi. Inoltre, il comportamento di lotta non è sempre puramente
reattivo. J. Kruijt (1964) ha allevato in isolamento galli da combattimento. Essi,
divenuti adulti, si combattevano con i moduli tipici della specie e se non veniva data
loro occasione di combattimento, attaccavano la loro coda o la loro ombra. La
spontaneità e l’appetizione della lotta, dimostrabili in animali senza esperienza
sociale, tenuti isolati dalla nascita, fa concludere in favore di meccanismi pulsionali.
A. Rasa (1965) ha studiato l’accumulazione e l’abreazione di impulsi aggressivi nel
pesce cìclide Etroplus maculatus, mostrando come, se tenuto in solitudine per un
periodo abbastanza lungo, scarichi la sua aggressività contro ogni femmina o
maschio gli si ponga poi accanto. I processi fisiologici che stanno alla base di tali
accumulazioni emozionali non sono ancora stati sufficientemente studiati: attraverso
stimolazioni elettriche cerebrali, si possono scatenare non solo concreti
comportamenti di lotta, ma anche appetizioni (‘stati psicologici’) di lotta.
Come negli animali, anche nell’uomo l’aggressività porta alla delimitazione
territoriale dei gruppi e, all’interno dei gruppi, alla formazione di ranghi. Molti tratti
del comportamento territoriale umano richiamano un’antica eredità dei Primati, i
quali proteggono il gruppo e marcano i confini attraverso la presentazione dei
genitali. Inoltre, anche nell’uomo si genera un accumulo di aggressività se manca la
possibilità di abreagirla, rendendolo così iroso e facilmente eccitabile senza che si
possa ritenere responsabile l’ambiente.
Adler (1908), Freud (1922) e Lorenz (1963) hanno spiegato la spontaneità
dell’aggressività con l’ipotesi di un istinto aggressivo innato: l’ipotesi ha molti punti
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a suo favore e spiega anche la nostra stupefacente inclinazione all’aggressione
collettiva.
Per Lorenz l’aggressività non costituirebbe un rischio reale per l’estinzione di specie
animali; mentre nell’uomo il comportamento aggressivo, sempre più fine a se stesso
e trasformato in cieca distruttività intraspecifica, costituisce un pericolo reale. E lo
squilibrio fra l’enorme potenzialità offensiva e i meccanismi istintivi di inibizione ne
aumenta la pericolosità, infatti la sempre maggior disponibilità di armi e il loro tipo,
che consente di poterle usare anche a distanza, escludendo il contatto diretto con
l’aggredito, sono possibili incentivi alla distruttività.
Bonino e Saglione (1978) spiegano la difficoltà dell’uomo nella ritualizzazione
dell’aggressività come dovuta alla plasticità e flessibilità del suo comportamento che
renderebbe meno rigide e stereotipate le sue reazioni, rispetto agli animali. Anche i
comportamenti filogeneticamente determinati sono nell'uomo più plastici e
maggiormente legati alle influenze ambientali e dell'ontogenesi. La rigida
determinazione del comportamento è inversamente proporzionale all'evoluzione
filogenetica. Una reazione rigidamente stereotipata e preordinata è alla base di un
equilibrio labile, che non è in grado di tener conto delle variazioni di una situazione e
di adattarvisi plasticamente. Dato che l’aggressività esplode anche in mancanza di
condizioni ambientali scatenanti e che l’uomo ricerca e immagina le più piccole
occasioni atte ad innescarle (comportamento appetitivo), una soluzione appare quella
di incanalare l’aggressività, ri-dirigendola verso forme di scarica periodica come ad
esempio competizioni sportive, entusiasmo per la scienza, per le arti ecc.
Il contributo di Eibl-Eibesfeldt (1971), offre la possibilità di uno sguardo ottimistico
verso la natura umana. Egli sostiene che questa pulsione ha degli antagonisti naturali
e che col loro aiuto siamo in condizione di allacciare e conservare legami con gli altri
uomini nel mondo. Sussisterebbe così in noi anche una forte pulsione innata alla
socialità. L’autore spiega che negli uomini è grazie al rapporto personale madre-
figlio che si sviluppa la fiducia originaria, sulla base della quale si dispiega
l'atteggiamento fondamentale verso la società e quindi, genericamente, la capacità di
un impegno sociale. Vanno allora rafforzati i legami fra i congeneri e questo è
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compito della famiglia. Il bambino attinge la capacità di amare il prossimo, da
principio, attraverso l’amore per la madre e da parte della stessa; eliminando tale
fase, l’identificazione con un collettivo dovrebbe riuscire al bambino, se non
impossibile, difficile.
Quinsey e collaboratori (1998) hanno affermato che aggressività e belligeranza
conferivano dei vantaggi adattivi nei contesti primitivi, mentre iniquità e slealtà sono
elementi che si sono aggiunti più tardi nel nostro sviluppo filogenetico. Questi autori
portano l’esempio degli “impavidi e spietati” vichinghi del IX e X secolo, uomini
che adottavano strategie di accoppiamento come lo stupro, e un approccio aggressivo
e rischioso alla conquista del predominio sociale. Tuttavia, queste qualità descrivono
esattamente quello che noi ora intendiamo per psicopatia. Il fatto che i geni che
contribuiscono a definire questo pattern di dominanza attraverso la violenza – benché
meno adattivo nella società attuale – siano ancora sufficientemente adattivi da
trasmettersi di generazione in generazione indica che ciò che noi consideriamo un
disturbo (e cioè la psicopatia) era, e in certa misura rimane, una “strategia inscritta
nel ciclo vitale dell’uomo”(Mealey, 1995).
1.2 Le emozioni all’interno
Per comprendere la fisiopatologia delle sindromi neuropsichiatriche, uno dei compiti
essenziali è la ricerca della relazione tra una patologia neuropsichiatrica e il disturbo
emozionale sottostante.
Il fatto che le emozioni si siano sviluppate in una fase iniziale della filogenesi e siano
diventate importanti per la sopravvivenza e l’adattamento dell’uomo dipende dal loro
essere radicate in parti molto “antiche” del cervello: il tronco encefalico, il
mesencefalo, l’amigdala e l’ipotalamo. Tutte queste strutture sono situate tra il
midollo spinale e la neocorteccia che, in termini evoluzionistici, sono rispettivamente
la parte più antica e quella più recente del sistema nervoso della nostra specie.