II
ai principali disturbi del comportamento infantile, per i quali verrà proposta
un’indagine dei più importanti fattori di rischio connessi alle caratteristiche socio-
culturali e agli aspetti ambientali, principalmente relativi al ruolo giocato dal contesto
familiare nell’influenzare lo sviluppo di tali problematiche infantili, e una seconda
parte, in cui verrà presentata una ricerca condotta su un campione clinico dei distretti
1, 8, 9 e 10 dell’A.S.L. Torino 1, campione che raccoglie un gruppo di soggetti di età
compresa tra 0 e 18 anni (età media 8 anni) che, ad un’indagine dell’anno 2006, hanno
presentato, come diagnosi principale, un disturbo tra quelli definiti dall’ICD-10 come
“Sindromi e disturbi comportamentali e della sfera emozionale con esordio abituale
nell’infanzia e nell’adolescenza”, tra cui si è scelto di soffermare l’attenzione, in
particolare, sui Disturbi della Condotta (codici F91.-) e sui Disturbi Misti della
Condotta e della Sfera Emozionale (codici F92.-).
Obiettivo della ricerca è quello di valutare, su una griglia appositamente costruita,
quali siano i fattori di rischio familiari e sociali che più frequentemente si presentano in
associazione a tali disturbi del comportamento e di fare un confronto con quanto
emerso dall’indagine letteraria (tratta, per altro, prevalentemente da ricerche condotte
in America).
Come infatti sostengono, esponendo un concetto condiviso da molti, Fonagy e altri
(2005), “[…] la psicopatologia si sviluppa nel contesto ambientale di socializzazione
primaria del bambino: la famiglia. La famiglia e, in particolare i genitori forniscono lo
sfondo di tale sviluppo, le loro caratteristiche sono cruciali per le scelte evolutive
compiute dal bambino, la loro azione e collaborazione sono indispensabili tanto al
trattamento che alla prevenzione” (Fonagy et al., 2005).
Nel presente lavoro verrà, inoltre, proposta una riflessione circa l’associazione tra
fattori di rischio e caratteristiche dell’area urbana in cui sono localizzati i diversi
distretti dell’A.S.L.-TO1, allo scopo di indagare l’eventuale relazione tra particolari
condizioni locali ed esposizione ai fattori di rischio.
È opportuno precisare che questa indagine costituisce soltanto il primo step di un
progetto in divenire, cui seguiranno, in futuro, ulteriori studi e approfondimenti volti ad
ottenere una sempre maggiore comprensione e conoscenza dei fattori di rischio
implicati nell’insorgenza non solo dei disturbi del comportamento infantile ma anche
dei fenomeni di criminalità e violenza compiuti ad opera di soggetti adolescenti ed
adulti, con la speranza che un riconoscimento precoce e, di conseguenza, un intervento
altrettanto tempestivo, possano essere utili a fini preventivi.
III
Ringraziamenti.
Il giorno in cui mi recai dal docente che mi ha supervisionata nella stesura di questo
lavoro, il professor Franco Freilone, per decidere quale argomento avrebbe potuto
essere oggetto della mia tesi, la proposta di prendere parte ad un progetto dell’ex
A.S.L.1 di Torino, finalizzato a ricercare i dati della letteratura a sostegno
dell’esistenza di specifici fattori di rischio nell’ambiente familiare dei bambini con
disturbi della condotta, mi entusiasmò immediatamente; la prima cosa che pensai, ad
essere onesta, fu che di questo tipo di psicopatologia conoscevo ben poco, nulla più
delle nozioni descrittive che si possono trovare su qualsiasi manuale di psicopatologia,
primo fra tutti il DSM-IV, sul quale, nel corso della preparazione di qualche esame,
avevo appreso le principali modalità attraverso cui i “Disturbi da Comportamento
Dirompente” (così il DSM-IV classifica i disturbi comportamentali tipici dell’infanzia)
si manifestano tipicamente.
Il mio percorso formativo, infatti, comprendente, oltre alle lezioni frequentate e agli
esami sostenuti, due esperienze di tirocinio, diversi seminari, laboratori e un corso di
formazione in ambiti che poco avevano a che fare con i disturbi della condotta, non mi
aveva mai permesso, fino a questo momento, di approfondire tale tematica, sulla quale
-e questo è stato il mio primo pensiero in seguito alla proposta fattami- non mi sentivo
affatto preparata; non al punto, almeno, da ritenermi adatta al lavoro che mi si stava
proponendo.
Al contempo, però, come sopra sottolineato, l’idea di una ricerca condotta in un campo
per me nuovo, si presentava essere una sorta di sfida con me stessa, una sfida
entusiasmante e stimolante che, dopo qualche giorno di riflessione, decisi di cogliere.
Oggi sono felice di aver fatto questa scelta, giorno dopo giorno ho sentito questo lavoro
diventare sempre più mio, sempre più parte di me; ho avuto la possibilità di frequentare
le sedi dell’A.S.L.-TO1, di raccogliere dati, di approfondire un aspetto della
psicopatologia infantile sul quale mai mi ero soffermata a pensare e sul quale, invece,
ho scoperto esistere molta interessante letteratura e del quale esiste una consistente
casistica clinica.
È per questo che, dopo questa premessa, voglio ringraziare infinitamente tutte le
persone che hanno reso possibile questo lavoro: il professor Franco Freilone per
primo, per aver individuato nella mia persona una possibile candidata alla
IV
realizzazione dello stesso (spero non se ne sia pentito) e per essere stato sempre preciso
e puntuale nei consigli, suggerimenti e correzioni delle parti di volta in volta
consegnategli; il Direttore, Dott. Orazio Pirro, gli psicologi, gli psicoterapeuti e i
neuropsichiatri della struttura complessa di Neuropsichiatria Infantile dell’ex A.S.L.1
di Torino, per avermi concesso di accedere alle informazioni cliniche necessarie e per
essersi prestati alla compilazione delle griglie di raccolta dei dati, con un grazie
speciale in particolare alle dottoresse Maria De Filippis e Cristina Scoffone, che hanno
sapientemente coordinato il lavoro sacrificando molto del loro tempo, e alle dottoresse
Sara Perali e Anelinda Fasano, che mi hanno aiutata nella raccolta del materiale e
nella somministrazione, agli operatori delle diverse sedi, delle griglie indaganti i fattori
di rischio individuati; a tutti va un sincero ringraziamento per la disponibilità
mostratami.
In ultimo, ma non per importanza, voglio ringraziare una Persona che nel mio percorso
di vita è stata fondamentale e indispensabile, regalandomi la possibilità e la capacità di
trovare dentro di me quella forza e quella fiducia necessarie ad affrontare le più
svariate situazioni che la vita ci propone; qualche anno fa, prima di conoscerla, avrei
probabilmente rifiutato di prendere parte ad un lavoro del quale non fossi certa di
essere all’altezza.
Sono passati ormai due anni dal nostro ultimo incontro, ma le Sue parole, i Suoi
incoraggiamenti, la Sua meravigliosa capacità di trasmettermi positività risuonano
costantemente dentro di me e mi danno occasione, ogni giorno, di misurarmi con le
piccole e grandi sfide che il mio cammino quotidianamente mi propone, non senza
timori, ma con la consapevolezza che, nonostante i miei limiti, risiedano dentro di me
risorse che posso e che devo sfruttare.
Mi auguro di averle sfruttate al meglio, nell’affrontare questo mio “pezzetto di vita”.
V
I BAMBINI IMPARANO CIO‟ CHE VIVONO
I bambini imparano ciò che vivono.
Se un bambino vive nella critica impara a condannare.
Se un bambino vive nell'ostilità impara ad aggredire.
Se un bambino vive nell'ironia impara ad essere timido.
Se un bambino vive nella vergogna impara a sentirsi colpevole.
Se un bambino vive nella tolleranza impara ad essere paziente.
Se un bambino vive nell'incoraggiamento impara ad avere fiducia.
Se un bambino vive nella lealtà impara la giustizia.
Se un bambino vive nella disponibilità impara ad avere una fede.
Se un bambino vive nell'approvazione impara ad accettarsi.
Se un bambino vive nell'accettazione e nell'amicizia impara a trovare l'amore nel
mondo.
Doret's Law Nolte
1
CAPITOLO 1. Classificazione diagnostica e diagnosi differenziale dei
Disturbi da Deficit di Attenzione e da Comportamento Dirompente con
riferimento ai fattori di rischio socio-culturali.
Nella quarta versione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-
IV), pubblicato dall‟Associazione Psichiatrica Americana (APA, 1994), i Disturbi da
Deficit di Attenzione e da Comportamento Dirompente vengono classificati sull‟Asse I,
nella parte dedicata ai Disturbi Diagnosticati nell‟Infanzia, nella Fanciullezza o
nell‟Adolescenza.
L‟International Statistical Classification of Deaseases and Related Health Problems,
decima edizione (ICD-10), della World Health Organization (WHO, 1992), classifica i
disturbi qui considerati all‟interno della categoria dei “Disturbi Comportamentali
dell‟Infanzia e dell‟Adolescenza”, anch‟essa appartenente all‟Asse I.
L‟obiettivo di questo primo capitolo è quello di mettere in luce i possibili fattori di
rischio implicati nell‟insorgenza dei disturbi del comportamento infantile e le
conseguenze di tali disturbi sul funzionamento globale dei soggetti che ne sono colpiti,
con particolare riferimento al ruolo che il Disturbo della Condotta, nello specifico,
giocherebbe nel favorire, in età adulta, l‟insorgere del Disturbo Antisociale di
Personalità, di cui è considerato il precursore.
Come verrà infatti qui di seguito approfondito, diversi studi condotti da ricercatori
americani, e del resto la stessa diagnosi di Disturbo Antisociale di Personalità secondo il
DSM-IV, sottolineano la presenza di un continuum tra il Disturbo della Condotta in età
infantile e i Disturbi di Personalità, in particolare quelli appartenenti al Cluster B (con
specifico riferimento alla personalità antisociale), in età adulta.
Nella seconda parte del capitolo verrà presentata una breve ma necessaria rivisitazione
della classificazione più prettamente descrittiva dei disturbi esaminati.
2
1.1. Ipotesi sull’evoluzione dai disturbi da comportamento dirompente
diagnosticati nell’infanzia ai disturbi di personalità dell’adolescenza e
dell’età adulta.
Diversi possono essere i fattori che intervengono nell‟aumentare le probabilità che un
soggetto sviluppi, nel corso dell‟infanzia, un disturbo del comportamento, che può
eventualmente persistere fino a trasformarsi, in età adulta, in un disturbo antisociale di
personalità.
Tra i fattori di rischio più comuni, oltre a quelli appartenenti alla sfera più strettamente
familiare, che verranno approfonditi in un successivo capitolo, diversi studi hanno
messo in luce particolari condizioni di disagio sociale, quali il problema dell‟adozione e
il fatto di appartenere ad una classe socio-economica svantaggiata.
Alcune differenze sono state, inoltre, identificate per ciò che concerne il genere di
appartenenza, in quanto, notoriamente, la frequenza di tali disturbi è maggiore tra i
maschi che tra le femmine.
Al fine di differenziare i soggetti con personalità antisociale che hanno presentato
precedentemente i sintomi del disturbo della condotta (i soggetti, cioè, con una diagnosi
di disturbo antisociale di personalità -ASPD- in base ai criteri diagnostici del DSM-III)
da coloro che, pur manifestando alcuni comportamenti antisociali, non hanno una
precedente diagnosi in tal senso, Langbehn e Cadoret (2001) utilizzano i dati raccolti da
un precedente studio sulle adozioni.
Partendo dal presupposto che non tutti i soggetti che incontrano i criteri diagnostici per
il disturbo antisociale di personalità abbiano una storia clinica di disturbo della
condotta, gli autori ipotizzano che i soggetti che incontrano i criteri per un disturbo
antisociale di personalità nella vita adulta condividano gli stessi fattori di rischio, a
prescindere dal fatto che sia presente, o meno, una precedente diagnosi di disturbo della
condotta (Langbehn, Cadoret, 2001).
Per sottoporre tale ipotesi a verifica, gli autori esaminano un campione suddiviso in tre
sottogruppi: pazienti adulti con disturbo di personalità antisociale (diagnosticato in base
ai criteri del DSM-III), pazienti adulti con sintomi antisociali senza una precedente
storia di disturbo della condotta e gruppo di controllo, e cercano di valutare se i soggetti
appartenenti al primo sottogruppo differiscano dai secondi nelle manifestazioni cliniche
del disturbo antisociale.
3
Dai risultati della loro ricerca emerge che i soggetti con ASPD mostrano, rispetto agli
altri, un numero leggermente più alto di sintomi e una maggiore propensione a mentire,
a fare uso di droghe, ad avere un atteggiamento instabile nei confronti dell‟attività
lavorativa e a manifestare atti di violenza.
Tuttavia, queste differenze, non sono grandi abbastanza da assumere rilevanza clinica
ed effettivamente i due gruppi risultano essere simili rispetto a misurazioni psicologiche
della psicopatia; inoltre i disturbi affettivi e da abuso di alcool si presentano con la
stessa frequenza in entrambi i gruppi (Langbehn, Cadoret, 2001).
Tra i fattori di rischio presi in considerazione, Langbehn e Cadoret (2001) esaminano
l‟impatto dei fattori biologici e di quelli ambientali nel determinare il disturbo
antisociale di personalità, analizzando, rispettivamente, le conseguenze dell‟avere un
genitore biologico con la stessa patologia per quanto riguarda il primo gruppo di fattori
e le conseguenze dell‟esposizione fetale a sostanze alcoliche e della convivenza con
genitori adottivi in un ambiente caratterizzato da avversità e conflittualità relazionale,
per quanto concerne, invece, i fattori di rischio ambientali.
Il paradigma dell‟adozione viene preso in considerazione in quanto fattore in grado di
separare e distinguere le influenze di ordine genetico/biologico da quelle di ordine
ambientale sulle modalità attraverso cui il disturbo antisociale si manifesta.
A causa della sovrapposizione dei sintomi manifestati dai soggetti appartenenti a gruppi
diversi, che, come è stato evidenziato, condividono tutto sommato le stesse
caratteristiche, è impossibile, secondo gli autori, affermare che sia il background
biologico (genitore con disturbo antisociale di personalità) che l‟esposizione fetale ad
alcool siano entrambi fattori di rischio per l‟ASPD, questo a dispetto del fatto che, se
analizzati separatamente, questi fattori siano entrambi forti predittori e che, considerate
congiuntamente, le due variabili assumano significato statistico.
In conclusione, è chiaro che almeno uno dei due fenomeni costituisca un predittore per
l‟ASPD ma, se si dovesse indicare quale dei due, non ci sarebbero informazioni
sufficienti a stabilirlo (Langbehn, Cadoret, 2001).
Appare sorprendente che l‟effetto del background antisociale biologicamente inteso sia
significativo solo per quei soggetti che hanno avuto in precedenza una diagnosi di
disturbo della condotta; all‟opposto, gli effetti dell‟esposizione fetale ad alcool, così
come gli effetti di un ambiente adottivo avverso sui sintomi antisociali dei soggetti
adulti non sembrano differire in base alla storia infantile.
4
Ciò suggerisce che il contributo dei fattori ambientali nel determinare il rischio di
sviluppare un disturbo antisociale sia qualitativamente diverso dal contributo dei fattori
biologici.
A sostegno di tale argomentazione, ulteriori analisi indicano la presenza di
un‟associazione biologica particolarmente forte con la tendenza alla menzogna e
difficoltà scolastiche, che porterebbero il soggetto ad andare incontro a scarsi risultati e
sospensione da scuola.
Tuttavia, l‟aspetto della menzogna vede implicata anche una un‟importante influenza
ambientale.
La notevole contraddittorietà dei risultati ottenuti è interpretata da Langbehn e Cadoret
(2001) come una dimostrazione delle difficoltà incontrate nello stabilire quali, tra i
fattori biologici e quelli ambientali, assumano un ruolo predominante nel favorire lo
sviluppo del disturbo antisociale di personalità.
Attraverso la lettura dei risultati ottenuti, gli autori giungono alla conclusione che
l‟influenza biologica sembri manifestarsi fenotipicamente prima dell‟età adulta, mentre
altri fattori, ascrivibili al contesto ambientale e indipendenti dalla presenza di una
precedente diagnosi di disturbo della condotta, determinerebbero successivamente quali,
tra quei soggetti per cui il background biologico giochi un ruolo fondamentale prima
dell‟età adulta, svilupperanno una personalità antisociale (Langbehn, Cadoret, 2001).
I risultati delle ricerche condotte dagli autori indicano che se l‟ASPD è preceduto da una
diagnosi di disturbo della condotta è più probabile che tra i principali fattori di rischio vi
sia una forte componente biologica, ovvero un genitore con personalità antisociale.
Ciò, tuttavia, non dà garanzie circa l‟ereditarietà della patologia, poiché anche gli altri
fattori presi in esame (l‟esposizione fetale a sostanze alcoliche e difficoltà relazionali
all‟interno di famiglie adottive) sono associati al rischio di sviluppare un ASPD così
com‟è definito dal DSM, anche in assenza di un background antisociale biologicamente
determinato.
D‟altra parte, le analisi condotte suggeriscono che in assenza di un disturbo del
comportamento nei primi anni di vita, ci siano poche probabilità che la sindrome
antisociale adulta rappresenti un fenomeno ereditario (Langbehn, Cadoret, 2001).
In conclusione, non è possibile rilevare differenze clinicamente significative tra i due
sottogruppi individuati: il requisito del DSM-IV inerente alla necessità di una diagnosi
di disturbo della condotta in età infantile offre, alla resa dei conti, una spiegazione più
5
eziologica che non clinica del disturbo antisociale in età adulta (Langbehn, Cadoret,
2001).
Hill (2003) tenta di individuare le modalità attraverso cui è possibile riconoscere i primi
fattori di rischio per il disturbo antisociale di personalità.
Anch‟egli muove dal presupposto che tale disturbo sia, di solito, preceduto da seri e
persistenti disturbi della condotta a partire dalla prima infanzia.
Effettivamente, numerosi studi hanno mostrato che i comportamenti aggressivi e
distruttivi persistenti e pervasivi diagnosticati prima dell‟età di 11 anni risultano
fortemente associati alla persistenza dei comportamenti antisociali nel corso
dell‟adolescenza e nella vita adulta (Hill, 2003).
Tuttavia, appare ancora poco chiara la distinzione tra i bambini con problemi a livello
comportamentale che probabilmente persisteranno e bambini che invece andranno
incontro ad un progressivo miglioramento.
Alcune indicazioni a sostegno dell‟efficacia di una potenziale prevenzione sottolineano
il successo di programmi di formazione dei genitori finalizzati a ridurre il rischio di
disturbi della condotta nei bambini, e dell‟efficacia di un‟adeguata stimolazione laddove
i disturbi della condotta siano associati ad un disturbo da deficit di attenzione o
iperattività.
Tuttavia, Hill sottolinea come studi precedenti abbiano riscontrato che la formazione dei
genitori risulti poco efficace per le famiglie ad alto rischio, caratterizzate da svantaggio
socio-economico, disaccordo coniugale, monogenitorialità, alti livelli di stress, lutti
materni irrisolti o traumi (Hill, 2003).
Egli evidenzia l‟importanza di tenere in considerazione sei importanti accorgimenti, i
quali potrebbero essere utili nell‟identificare un disturbo della condotta quando è ancora
al suo incipit:
presenza di un particolare disagio familiare;
identificazione di sottotipi della patologia;
individuazione di criteri per addurre ipotesi sul decorso della patologia;
importanza dell‟osservazione dei fattori di rischio in età precoce;
6
ipotesi sulle possibili conseguenze dei disturbi della condotta in base all‟età di
insorgenza e alla prognosi;
distinzione delle conseguenze antisociali in base agli antecedenti.
Innanzitutto, i disturbi della condotta nei bambini piccoli sono associati a molti altri
fattori avversi, quali un rapporto genitori-figlio caratterizzato da anaffettività, famiglie
instabili o in cui è presente un clima particolarmente conflittuale, fallimenti
nell‟educazione e scarse relazioni con i pari (Hill, 2003).
È importante chiarire, innanzitutto, se sia il disturbo del bambino a richiedere una prima
valutazione o se siano, invece, i fattori ad esso associati, oppure ancora se entrambi
meritino attenzione.
In secondo luogo, i disturbi della condotta nell‟infanzia sono generalmente identificati
sulla base di una variata gamma di comportamenti. L‟identificazione di sottotipi può
portare ad una migliore comprensione dei meccanismi sottostanti e, da qui, ad un
migliore allineamento del trattamento con le specifiche necessità cliniche di ciascun
soggetto.
Inoltre, dal momento che per circa il 50% dei bambini con un precoce disturbo della
condotta questo non persiste nell‟adolescenza e nella vita adulta, occorre individuare dei
parametri in base ai quali distinguere i bambini per i quali il disturbo andrà incontro a
persistenza negli anni seguenti da coloro che, invece, miglioreranno.
Data l‟intrattabilità dei disturbi del comportamento in alcuni bambini piccoli, è
necessario, ancora, chiedersi se sia possibile l‟identificazione dei fattori di rischio e dei
primi sintomi del disturbo ad un‟età più precoce (Hill, 2003).
Hill ritiene, inoltre, opportuno prendere in considerazione le diverse ripercussioni, sui
soggetti adulti, dei disturbi della condotta infantili destinati a migliorare e di quelli che,
invece, vedono il loro esordio a partire dall‟adolescenza.
Infine, è plausibile che esiti antisociali specifici abbiano antecedenti differenti dagli esiti
del disturbo antisociale di personalità (Hill, 2003).
Dal momento che i disturbi della condotta sono associati ad un‟ampia gamma di fattori
avversi nelle sfere individuale, familiare e sociale, è possibile che essi non siano di per
sé gli antecedenti del disturbo antisociale di personalità ma che costituiscano i markers
di queste altre difficoltà, che sono invece i veri antecedenti.
Riprendendo i risultati di una serie di studi longitudinali relativi al periodo che va
dall‟infanzia all‟età adulta, Hill sottolinea che i bambini con disturbi della condotta
7
associati a iperattività o disattenzione differiscono da quelli con un disturbo della
condotta “puro” per il fatto che i loro problemi sono più gravi e inclini a persistere ed è,
inoltre, più probabile la presenza di deficit neuropsicologici (Hill, 2003).
L‟autore cita uno studio nel quale è stato riscontrato che i bambini con un disturbo da
deficit dell‟attenzione-iperattività abbiano alte probabilità di presentare, una volta
adulti, una combinazione di insensibilità, fascino superficiale e comportamento
antisociale che è risultata caratterizzare un sottogruppo di soggetti adulti con un disturbo
antisociale di personalità (Hill, 2003).
Altri studi ancora suggeriscono che i bambini con un disturbo antisociale che mostrano
insensibilità e assenza di emotività differiscono dagli altri bambini con un disturbo
antisociale in quanto hanno apparentemente meno deficit verbali e provengono da
famiglie che non sono caratterizzate da comportamenti genitoriali disfunzionali,
solitamente riscontrati nei disturbi della condotta (Hill, 2003).
Hill (2003) riporta i dati di una ricerca nella quale è stata postulata l‟esistenza di tre
diversi patterns del disturbo antisociale dell‟infanzia che, a loro volta, avrebbero esito in
tre diverse tipologie di manifestazioni comportamentali: una modalità “overt”,
caratterizzata da bullismo, seguito da atteggiamenti di lotta fino ad arrivare a più seri
atti di violenza; una modalità “covert”, che si esprime inizialmente attraverso atti quali
il mentire e il rubare e continua sino ad un più serio comportamento di danneggiamento
della proprietà altrui; una modalità di “conflitto con le autorità”, in cui prevalgono
comportamenti oppositivi e devianti (Hill, 2003).
Un‟ulteriore distinzione, è poi quella tra comportamenti antisociali “reattivi” e
comportamenti antisociali “proattivi”: i primi, specifica Hill, seguirebbero come
risposta a minacce, effettive o percepite, provenienti dagli altri, mentre i secondi
sarebbero iniziati dal soggetto a prescindere da qualsiasi, reale o supposta, provocazione
(Hill, 2003).
L‟azione di tipo reattivo sarebbe, quindi, messa in atto sulla base di ritorsioni rabbiose,
in opposizione alla fredda, non provocata, calcolata, aggressione proattiva.
Dalle ricerche dell‟autore risulta, inoltre, che, paragonati ai bambini con manifestazioni
aggressive proattive, i bambini reattivi mostrino più probabilità di essere stati
fisicamente abusati e abbiano, in aggiunta, un passato caratterizzato da scarse relazioni
con i pari, aggressività con esordio precoce e sintomi di deficit di attenzione e
iperattività (Hill, 2003).
8
Hill (2003), partendo dal presupposto che molti disturbi del comportamento infantile
siano associati al rischio di sviluppare un disturbo antisociale di personalità in età
adulta, tenta di spiegare come sia possibile distinguere tra i bambini per i quali il
disturbo della condotta persiste fino all‟età adulta e quelli che vanno invece incontro a
remissione sintomatica: egli cita uno studio nel quale è stato scoperto che la precoce
tendenza alla lotta e l‟iperattività possano essere considerati predittori, a distanza di sei
anni, della persistenza dei comportamenti antisociali tra ragazzi con una diagnosi di
disturbo della condotta (Hill, 2003).
Questi fattori di rischio si collocano, per i bambini che nella prima infanzia hanno avuto
un disturbo della condotta andato incontro a miglioramento, ad un livello intermedio tra
i bambini per cui il disturbo è persistito e i bambini che non hanno mai avuto disturbi
del comportamento.
I soggetti per cui il disturbo è persistito presentano una maggiore probabilità, rispetto a
quelli con remissione sintomatica, di aver fatto parte, durante l‟adolescenza, di un
gruppo dei pari deviante; Hill ritiene probabile l‟argomentazione, sostenuta alcuni
autori, secondo la quale un fattore chiave nel determinare la persistenza del disturbo
antisociale nell‟età adulta possa essere la presenza o l‟assenza di legami sociali e di
un‟azione di controllo. Tuttavia, egli aggiunge, è ancora difficile determinare quali
bambini abbiano un disturbo del comportamento ad andamento persistente e quali
invece siano destinati a migliorare (Hill, 2003).
Nonostante la stabilità dei disturbi della condotta dall‟età di tre anni in poi, non è facile
identificare con esattezza i primi precursori, in quanto le scoperte effettuate mostrano
dati spesso inconsistenti (Hill, 2003); per esempio, Olweus e altri autori (1996)
avanzano l‟ipotesi che un temperamento difficile nella prima infanzia, comprendente
aspetti come il prevalere di emozioni negative e la frustrazione, contribuisca ad irritare i
genitori e a suscitare in essi atteggiamenti che a loro volta aumentano il rischio per il
disturbo della condotta nel bambino.
Sameroff ed Emde (2004) ritengono il temperamento un fattore importante
nell‟influenzare l‟organizzazione individuale della sensibilità emotiva e della
responsività, ma sottolineano, altresì, che pur essendo esso costante per tutta la prima e
la seconda infanzia, in realtà è l‟influenza dell‟ambiente familiare ad essere
determinante per il comportamento: è, infatti, nell‟ambito della relazione con la madre
che il sistema affettivo del bambino inizia a funzionare, attraverso i processi di
9
interiorizzazione della figura di accudimento, della sua disponibilità emotiva e della sua
responsività.
Le emozioni positive, derivanti da uno scambio relazionale gratificante e basate sulla
condivisione del significato con la figura materna, generano nel bambino l‟interesse per
il mondo, incoraggiando la socievolezza e promuovendo l‟empatia. È, quindi, nel corso
delle interazioni, e in particolare delle relazioni tra madre e bambino, che hanno origine
i modelli relazionali, normali o disturbati a seconda della qualità relazionale stessa
(Sameroff, Emde, 2004).
Hill (2003) ritiene che anche difficoltà inerenti all‟attaccamento nella prima infanzia
potrebbero aumentare il rischio di sviluppare, successivamente, un disturbo della
condotta; secondo l‟autore, è altresì probabile che la qualità della genitorialità durante
l‟infanzia sia predittiva dei successivi disturbi della condotta; sembra, inoltre, che gli
approcci più promettenti implichino l‟identificazione precoce dei predittori attraverso
l‟osservazione di specifiche interazioni tra le caratteristiche infantili e le prime
esperienze sociali.
In conclusione, secondo l‟autore, è piuttosto facile identificare i bambini esposti al
rischio di sviluppare un futuro disturbo antisociale di personalità ma non ci sono
conoscenze sufficientemente certe per quanto riguarda l‟efficacia a lungo termine dei
programmi di prevenzione e trattamento (Hill, 2003).
Sono stati fatti alcuni progressi nell‟identificare i sottogruppi di bambini con disturbi
antisociali in cui operino differenti processi causali e, quindi, nel comprendere quali, tra
essi, necessitino di trattamenti diversi; tuttavia, non è ancora possibile determinare se le
differenze nelle modalità di manifestazione o nelle caratteristiche associate dei disturbi
della condotta infantili siano predittive di determinati esiti nell‟età adulta.
Quel che è certo è che i disturbi della condotta costituiscono un valido predittore del
disturbo antisociale di personalità indipendentemente da eventuali condizioni familiari
avverse o fattori sociali associati e che il rischio è connesso, oltre che allo sviluppo di
comportamenti antisociali, anche all‟incapacità di costruire relazioni stabili, ai problemi
connessi alla genitorialità e all‟incapacità di avere buone prestazioni sul lavoro.
Inoltre, i bambini che non hanno avuto un disturbo della condotta sono meno inclini a
sviluppare, successivamente, un disturbo antisociale di personalità, che, a sua volta, si
presenta raramente se non è presente un disturbo della condotta pregresso (Hill, 2003).
10
Studi longitudinali a lungo termine mostrano che alcuni disturbi psichiatrici
diagnosticati nel periodo infantile possono aumentare il rischio di esiti negativi nella
tarda adolescenza e nell‟età adulta.
Tra i ricercatori che si sono occupati di approfondire tale ipotesi, Kasen e colleghi
(1999) hanno condotto uno studio finalizzato ad indagare la possibilità che i disturbi
psichiatrici dell‟età infantile aumentino in particolare il rischio di sviluppare un disturbo
della personalità in età adulta (Kasen et al., 1999).
Essi si sono chiesti, inoltre, se tale rischio sia indipendente o meno dall‟eventuale
presenza di un disturbo di personalità in età adolescenziale e se la comorbidità tra
precedenti disturbi psichiatrici e disturbi della personalità aumenti il rischio di
sviluppare, successivamente, un disturbo di personalità al di là degli effetti separati di
tali patologie.
Tale ricerca muove dalla considerazione che molti disturbi psichiatrici, in particolare i
disturbi del comportamento, ansiosi e dell‟umore abbiano il loro esordio nell‟infanzia e
nell‟adolescenza; considerazione che in parte si scontra, però, con la diagnosi dei
disturbi di personalità secondo il DSM-IV il quale, collocando tali disturbi sull‟Asse II,
ne indica l‟esordio, e quindi la possibilità di farne diagnosi, a partire dalla tarda
adolescenza e dalla prima età adulta.
Alcuni disturbi della personalità adulta sono stati empiricamente collegati ai disturbi
psichiatrici infantili, con particolare riferimento alla ben nota associazione tra il disturbo
di personalità antisociale e il disturbo della condotta.
Per approfondire e cercare un riscontro oggettivo alle precedenti considerazioni, Kasen
e gli altri (1999) focalizzano la loro attenzione sui principali effetti della psicopatologia
con esordio nell‟adolescenza, indagando in particolare gli effetti dei disturbi di
personalità, dei disturbi diagnosticati sull‟Asse I del DSM e della comorbidità tra i
disturbi dell‟Asse I e quelli dell‟Asse II del DSM (Kasen et al., 1999).
I dati ricavati da tali studi indicano che i disturbi di personalità che caratterizzano il
periodo dell‟adolescenza possano essere considerati validi predittori dei disturbi di
personalità tipici dell‟età adulta, ossia dei disturbi classificati, nel DSM, sull‟Asse II; a
partire da tali considerazioni, Kasen e gli altri sottolineano l‟evidente importanza di una
corretta diagnosi precoce, adducendo l‟ipotesi che le difficoltà nelle relazioni
interpersonali e nell‟assumere ruoli consoni alla propria posizione, difficoltà
riscontrabili in tutti i disturbi di personalità, potrebbero, a tutti gli effetti, essere l‟esito
cumulativo di gravi fallimenti incontrati nel corso dello sviluppo (Kasen et al., 1999).