Introduzione Lo scopo di questo lavoro consiste nel ricercare un nesso di causalità tra
la dotazione di capitale sociale insistente in una determinata area
geografica e la relativa presenza di distretti industriali, di tipo
marshalliano, capaci di generare sviluppo economico. Per tale motivo la
ricerca si occuperà di analizzare alcune proxies in grado di spiegare ed
individuare lo stock di capitale sociale delle regioni italiane, sia da un
punto di vista statico sia da un punto di visto dinamico. Per rilevazione
statica del capitale sociale si vuole intendere tutta quella produzione di
studi ed analisi capaci di rendere un'istantanea del capitale sociale ad una
certa data e da questa ottenere una classifica regionale. Per rilevazione
dinamica del capitale sociale si intende la produzione di studi ed analisi
capaci di rendere due rilevazioni delle medesime proxies raccolte a
distanza di anni in modo da poterne cogliere le variazioni intervenute.
Avendo come obiettivo, dimostrare che il capitale sociale influisce sulla
nascita e lo sviluppo dei distretti industriali, saranno presi in esame anche
i dati censuari Istat del 1991 e del 2001 relativi alle tabelle riportanti il
numero dei distretti industriali delle regioni italiane. Le classifiche
regionali così ottenute, sia del capitale sociale, sia dei distretti industriali,
saranno poste in relazione in modo da poterne cogliere i punti di
collegamento. Nel primo capitolo, si affronterà il tema del capitale
sociale analizzando le teorie di alcuni tra i più importanti esponenti della
materia per poi passare ad individuare alcuni indicatori capaci di saper
cogliere le dinamiche di sviluppo economico e sociale. Nel secondo
capitolo si analizzerà il sistema distrettuale italiano e si procederà
all'identificazione dei distretti industriali disseminati sul nostro territorio
analizzandone i metodi di individuazione che ne permettono la
quantificazione. Nel terzo capitolo, si analizzeranno i risultati ottenuti
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con l'intento di dimostrare empiricamente che l'aumento della dotazione
di capitale sociale produce, parimenti, l'innalzamento del benessere
economico. Infine nel quarto ed ultimo capitolo si cercherà di capire se il
modello distrettuale italiano è un sistema esportabile in altre realtà e se
potrà competere con l'economia, più che emergente, cinese senza, però,
tralasciare un interrogativo molto importante ossia se l'aumento della
dotazione di capitale sociale è l'artefice dello sviluppo distrettuale e dello
sviluppo economico o se lo sviluppo economico è l'artefice dell'aumento
della dotazione di capitale sociale.
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Capitolo I Il capitale sociale 1. Introduzione La crescita economica dei paesi dell’Asia, in particolare della Cina, con la
concomitante recessione, che ha coinvolto i paesi maggiormente
sviluppati, inducono ad una riflessione sui fattori che presiedono al
processo dello sviluppo economico, tant’è che, nel tentativo di fornire
una spiegazione ai diversi risultati economici che caratterizzano
l’economia distrettuale italiana e l'economia cinese, ci si imbatte nella più
naturale delle considerazioni, ossia che il semplicistico modello di
sviluppo economico, seppur valido, dato dalla combinazione dei fattori
produttivi cardini, quali il capitale ed il lavoro, è orfano di un altro
fattore, difficilmente misurabile, di natura qualitativa che ha ripercussioni
quantitative: il capitale sociale. È possibile definire il capitale sociale
come una struttura di relazioni tra persone, relativamente durevole nel
tempo, atta a favorire la cooperazione facilitando l’azione collettiva nel
raggiungimento di obiettivi comuni. Durante la trattazione si farà spesso
riferimento ai concetti quali fiducia, conoscenza, capacità, innovazione,
rete, agglomerati, reti trans-nazionali ossia a tutte quelle caratteristiche
particolari proprie dell’organizzazione distrettuale, aspetti qualitativi che
meglio definiscono il potenziale delle organizzazioni distrettuali rispetto
a quelle aziende che operano al di fuori di tale modello produttivo.
Tant’è che, quelle appartenenti ai distretti industriali, mostrano un
volume d’affari maggiore rispetto alle altre e che, in considerazione delle
recenti crisi finanziarie, hanno meglio saputo reagire rispetto alle altre
aziende non facenti parte di tale modello organizzativo.
Ma l’aspetto del capitale sociale che, allo stato attuale, più interessa è
quello legato alla creazione di migliori performance per il distretto
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industriale, un diverso modo di definirlo, di interpretarlo, di utilizzarlo.
“Il Capitale Sociale deve essere interpretato come un componente pubblico di un
investimento che implica benefici privati e pubblici impigliati l’uno con l’altro”
(Colantonio E., Carlei V., Furia D., Marra A. 2010). Mediante questa
nuova visione è possibile governare il rilancio dell'economia
identificando le dinamiche che sovrintendono lo sviluppo del distretto
industriale italiano. Questo lavoro, appunto, cercherà di mettere in
relazione il capitale sociale con lo sviluppo distrettuale. Essendo
determinante la presenza, nel panorama economico italiano, del distretto
industriale, si ritiene di poter dimostrare che a livelli più alti di capitale
sociale corrispondono livelli più alti di sistemi distrettuali con il
consequenziale livello di benessere economico aumentato.
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2. Crescita economica e crescita del capitale sociale L’esistenza di un generalizzato clima di fiducia riduce il rischio di
comportamenti opportunistici, dei costi di monitoraggio e di transazione
favorendo gli scambi e stimolando sia gli investimenti e sia la
produzione, fornendo una spiegazione dei differenziali di crescita che
caratterizzano i diversi Paesi. È utile ricordare, a tal proposito, che il
concetto di capitale sociale ha acquisito importanza a seguito degli studi
condotti da Putnam (1993) le cui risultanze sono state tali da saper
attrarre l’attenzione degli economisti. Infatti, in base agli studi condotti
sulle regioni italiane, Putnam ha dimostrato l’esistenza di una
correlazione positiva tra il senso civico ed il rendimento delle istituzioni
locali, con lo sviluppo economico, dimostrando l’esistenza e l’importanza
di una cultura civica incastonata nelle relazioni fiduciarie reciproche. Si è
così dedotto che, la struttura sociale della cosiddetta Terza Italia, abbia in
qualche modo favorito la creazione dei distretti industriali. I citati studi
hanno evidenziato la differente dotazione di capitale sociale esistente tra
le varie regioni italiane, anche tra quelle apparentemente simili,
dimostrando che più bassa era la dotazione di capitale sociale e minore
erano le performance istituzionali delle regioni coinvolte e che,
conseguentemente, conducevano ad un minor sviluppo economico.
Sempre secondo Putnam, la produzione di capitale sociale si accumula
nel corso dei secoli tramite meccanismi socio-culturali di lunga durata,
per mezzo dei costumi sociali tramandati, credenze religiose e sistemi
etico-morali, che lasciano poco spazio all’intervento pubblico ai fini del
potenziamento dello stock di capitale sociale. Tale impostazione deriva
dall’osservazione dell’esperienza dell’Europa orientale, dove
l’atteggiamento repressivo delle dittature filo comuniste nei confronti
della società civile, ha portato alla progressiva distruzione del già poco
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patrimonio di capitale sociale esistente, fornendo, in tal modo, una
spiegazione del ritardo della crescita nei confronti dei paesi dell’Europa
occidentale.
Pur avendo centrato l’obiettivo di individuare una relazione causa-effetto
tra lo stock di capitale sociale, i comportamenti indotti alla classe
dirigente ed entrambi sul tenore di vita delle aree distrettuali, non
mancano visioni alternative o integrative alla teoria di Putnam. La
caratteristica logica funzionalista del capitale sociale di Putnam
sottostima il meccanismo causale alla base tra fiducia e cooperazione
sociale. In questo modo viene confusa l’origine della fiducia con le sue
conseguenze. Senza ulteriore spiegazione questa visione produce una
visione del genere: la cooperazione reciprocamente vantaggiosa spiega la
cooperazione reciprocamente vantaggiosa. E’ ovvio che così come e
stata formulata questa evidenza sembra, nel peggiore dei casi, banale o al
meglio significativamente incompleta (Farrel H. e Knight J. 2003).
Anche Fukuyama (1996) ha condotto studi simili giungendo alla
conclusione che effettivamente alcune società dispongono di un livello di
capitale sociale più elevato rispetto ad altre e che quelle dotate di un
capitale sociale più elevato tendono ad avere un assetto industriale
centrato sulla grande impresa, diretta da manager di professione e con
proprietà o azionariato diffuso, al contrario di quelle con bassa dotazione
il cui modello aziendale è imperniato sulla piccola e micro impresa a
proprietà e gestione familiare. L’indicatore utilizzato per definire la
presenza o meno del capitale sociale è dato dalla presenza, elevata o
ridotta, di associazioni volontarie autonome che vanno a posizionarsi nel
tessuto intermedio tra famiglia e stato. Sempre secondo questo modello,
famiglie aperte ai membri esterni, lenisce la centralità della famiglia nella
società, favorisce lo sviluppo del capitale sociale, accresce la fiducia e la
cooperazione estesa, permettendo il superamento dei confini imposti
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dalla solidarietà familiare. Detto fenomeno è stato definito familismo. Il
familismo, sempre secondo Fukuyama, relega il modello industriale ad
essere dominato da piccole imprese gestite prevalentemente su basi
familiari e con scarsa possibilità di accesso ad investimenti ad alta
intensità di capitale. Sempre secondo queste ricerche sia la Cina sia l’Italia
sono considerate nazioni ad alto tasso di familismo. In talune zone
dell’Italia, tale stato delle cose, non ha comunque precluso, uno spiccato
sviluppo economico, se pensiamo al modello distrettuale del nord-est,
grazie all’organizzazione in rete che ha permesso di conseguire il
raggiungimento di economie di scala da grande impresa. Di tutt’altro
tenore risulta il familismo cinese, il quale tende ad impedire l’estensione
della fiducia ai non parenti, costituendo un poderoso freno alla normale
evoluzione delle imprese familiari, impedendo il transito della gestione
sotto la sfera organizzativa di manager di professione. Per completare il
quadro descritto dagli studi di Fukuyama occorre necessariamente fare
un piccolo riferimento ad un’altra nazione, il Giappone, considerato in
assoluto il paese con maggior dotazione di capitale sociale, retaggio di
una tradizionale apertura ai non parenti, al forte senso di lealtà verso le
autorità ed ai superiori in genere, il tutto derivato dal feudalesimo (molto
vicino all’Italia) e dal confucianesimo.
In definitiva Fukuyama sostiene che una soluzione per uscire dai limiti
delle piccole imprese, per favorire lo sviluppo economico nelle società a
bassa dotazione di capitale sociale è quella di creare reti di imprese
familiari e che, comunque, queste restano di difficile realizzazione
proprio nei contesti a bassa disponibilità. Insieme a Putnam non ritiene
che l’intervento dei governi possa favorire la crescita del capitale sociale.
A parziale confutazione di tale tesi interviene il lavoro svolto da Mutti
(1998). Nei citati studi viene evidenziata la positività dell’intervento da
parte del governo della Corea del Sud nella creazione e nello sviluppo del
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capitale sociale. Infatti la Corea del Sud, pur essendo dotata di una
struttura familistica, è stata capace, per mezzo dell’intervento del
governo, di dotarsi di un assetto industriale caratterizzato dalla presenza
di grandi imprese familiari, capaci di competere a livello internazionale ed
in settori capitale intensive. All’interno di tali grandi imprese familiari
risulta predominante il controllo e la gestione su basi prettamente
familiari. Di conseguenza tale esperienza dimostra che l’intervento dei
governi favorisce lo sviluppo del capitale sociale, se posti in essere con
interventi opportuni e mirati a seconda del contesto esistente e crea i
presupposti di crescita economica anche in presenza di un eccessivo
familismo. “Le piccole dimensioni che caratterizzano la struttura industriale di paesi
con un assetto sociale a forte impronta familistica richiedono, ai fini del conseguimento
di significative economie di scala, un competente ed efficace intervento pubblico.
(Mutti, 1998). Ad onor del vero e per completezza di informazione
occorre precisare che nel caso italiano si sono prodotti due tipi di sistemi
sociali, l’uno basato sul capitale sociale capace di indurre pressioni sulle
istituzioni in modo da portarle ad investire per produrre beni collettivi,
l’altro basato sulla prevalenza dell’interesse privato a discapito del bene
collettivo, responsabile di non incentivare le istituzioni al perseguimento
di azioni efficaci ai fini della crescita collettiva (Leonardi 1995).
Nonostante siano state formulate critiche nella relazione tra capitale
sociale e sviluppo economico le evidenze portano a sostenere una
relazione diretta tra queste. Le critiche principali sono quattro: i) non
sempre la dotazione di capitale sociale di qualcuno apporta un
miglioramento alla collettività; ii) è importante specificare il fine per cui si
coopera tenendo presente che a volte possono sussistere casi estremi
quali accordi di cartello, lobby e mafie; iii) gli obblighi verso il gruppo
potrebbero andare a discapito della capacità creativa individuale; iv) il
legame sociale e la solidarietà possono portare alla redistribuzione della
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ricchezza assorbendo eventuali surplus finanziari occorrenti per altri
investimenti (Portes e Landolt 1996). Resta la sostanziale evidenza
empirica che ha calamitato l'attenzione di alcuni studi di economia in
quanto, in tale ambito, il capitale sociale è trattato al fine di analizzare lo
sviluppo del sistema finanziario, nel generare capitale umano ed
innovazione, nell'agevolare l'efficienza delle istituzioni e nel favorire la
crescita economica. Accettata l'idea che il capitale sociale incide
notevolmente sui fenomeni anzidetti restano da definire gli approcci
fondamentali rispetto ai quali, diversi autori hanno approfondito tali
concetti. Vi è un approccio di tipo collettivistico ed un approccio di tipo
individualistico. Secondo il primo approccio il capitale sociale viene visto
come origine e terminale di effetti che coinvolge l'intera comunità nel
suo complesso, mentre il secondo approccio ha come soggetto il singolo
individuo, con le sue personali competenze e capacità di relazioni, in
grado di utilizzarle per il raggiungimento di un obiettivo personale. Si
ritiene che il risultato che si propone di raggiungere il presente lavoro si
massimizzi partendo dall'applicazione del concetto collettivistico.
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