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1.L’atteggiamento
Poiché in questo lavoro di ricerca indaghiamo la validità predittiva di uno strumento di
misurazione dell’atteggiamento, è necessario definire cosa intendiamo con questo termine,
quali sono le basi teoriche sulle quali appoggiamo le nostre ipotesi e di quale, tra i tipi di
atteggiamento che si possono distinguere, ci occupiamo.
1.1 Il costrutto
In letteratura esistono numerose definizioni di atteggiamento, termine usato per la prima volta
nel 1918 dai sociologi Thomas e Znaniecki per indicare i ‘processi di conoscenza individuale
che determinano l’azione’ (Thomas & Znaniecki, 1918). Più avanti Allport definì
l’atteggiamento come uno stato mentale, organizzato grazie all’esperienza, che esercita
un’influenza sulle risposte dell’individuo nei confronti di tutti gli oggetti e le situazioni con
cui è in relazione (Allport, 1954).
Si possono identificare degli elementi di base presenti in tutte le definizioni di atteggiamento,
quali la loro relativa permanenza nel tempo e trasversalità nelle situazioni, il fatto che
implichino processi di astrazione e risultino essere generalizzabili a più situazioni, oggetti e
condizioni e la loro rilevanza sociale, ovvero l’influenza che essi esercitano sulla percezione
della persona in relazione agli altri, sulle preferenze e sui comportamenti verso altri oggetti,
persone ed eventi che costituiscono la realtà sociale dell’individuo.
I vari approcci alla definizione degli atteggiamenti corrispondono a diverse metodologie di
misurazione, tra le quali possono essere distinti tre modelli che considerano l’atteggiamento
basato rispettivamente su una, due o tre componenti. Il modello a una componente, proposto
da Thurstone nel 1931, considera l’atteggiamento come un sentimento - o valutazione - verso
un determinato oggetto, persona o evento, per misurare il quale si devono quindi utilizzare
scale attitudinali che descrivano il grado di valutazione positiva o negativa associata a un dato
oggetto psicologico. Il modello a due componenti, di Bagozzi e Burnkrant (1979), aggiunge al
precedente l’esistenza di una componente di predisposizione all’azione, definendo
l’atteggiamento come una condizione mentale che influenza il comportamento e che ha, di
conseguenza, un effetto generalizzato e persistente sui giudizi valutativi. Alle componenti
affettiva, ovvero i sentimenti positivi o negativi, e conativa, la tendenza a comportarsi in un
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determinato modo nei confronti dell’oggetto di atteggiamento, viene aggiunta quella
cognitiva, ovvero l’insieme di concetti, informazioni e credenze verso un oggetto, nel modello
a tre componenti sviluppato dagli studi di Rosenberg e Hovland (1960).
1.2 La relazione tra atteggiamento e comportamento
Il Modello Tripartito dell’Atteggiamento, precedentemente descritto, ha il limite di postulare
una relazione diretta e costante tra comportamento e atteggiamento (Hogg & Vaughan, 1998),
idea messa in dubbio dai numerosi contributi più e meno recenti (ad esempio LaPiere, 1934;
Kutner, Wilkins & Yarrow, 1952; Linn, 1965; Wicker, 1969). Una teoria più completa è
quella chiamata dell’Azione Ragionata, proposta da Fishbein e Ajzen (1975), secondo la
quale gli atteggiamenti influenzerebbero il comportamento tramite la loro azione
sull’intenzione ad agire. L’atteggiamento, che è dato dal prodotto dei credi individuali verso il
comportamento e dell’importanza soggettiva conferita a tali credi, sarebbe dunque importante,
ma non sufficiente nella spiegazione del comportamento. Oltre ad esso, infatti, l’intenzione ad
agire sarebbe condizionata, secondo gli autori della teoria, dalla norma soggettiva, ovvero il
prodotto delle percezioni individuali circa le aspettative altrui e la motivazione individuale a
conformarsi a tali aspettative. Una determinata azione sarebbe dunque messa in atto nel caso
in cui l’atteggiamento verso essa risultasse favorevole, le sue conseguenze fossero considerate
desiderabili e vi fosse una spinta motivazionale a compierla, attivata dal bisogno di
conformarsi alle aspettative sociali percepite. La teoria fu verificata tramite degli esperimenti
(Fishbein et al., 1980a; 1980b).
Anche tale teoria è stata, però, soggetta a critiche, in quanto la predizione sembra limitarsi a
comportamenti che l’individuo può controllare, e quindi estesa nella Teoria del
Comportamento pianificato (Ajzen, 1989), che inserisce come variabile interveniente
sull’intenzione ad agire anche il controllo percepito. Il termine si riferisce alla facilità o
difficoltà che la persona associa alla messa in atto di una determinata azione al fine di
raggiungere un risultato, ed è quindi riconducibile al costrutto di auto-efficacia di Bandura, il
quale, secondo l’autore, sarebbe influenzato dall’esperienza passata, vicaria e dai feedback
ricevuti dalle persone significative (Bandura, 1977).
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1.3 Atteggiamenti espliciti e impliciti
Il problema della relazione esistente tra gli atteggiamenti e i comportamenti è stato portato
alla luce da diversi ricercatori. Uno dei lavori più importanti sull’argomento è quello condotto
da LaPiere negli anni ’30. L’autore indagò la relazione tra gli atteggiamenti pregiudiziali nei
confronti dei cinesi e i comportamenti di discriminazione verso individui di questa nazionalità
negli Stati Uniti. Vennero raccolte le opinioni di 66 albergatori e 184 ristoratori circa la
disponibilità ad accogliere persone cinesi nelle proprie strutture e osservati i comportamenti di
questi locandieri verso una coppia di turisti cinesi. Non fu trovata una corrispondenza tra le
opinioni espresse dai soggetti, prevalentemente negative, e il loro comportamento, che si era
rivelato, nella maggior parte dei casi, accogliente e ospitale.
A partire da questo studio furono condotte numerose ricerche, raccolte da Wicher (1969),
volte a verificare la relazione tra atteggiamento e comportamento che portarono alla
conclusione di una scarsa predittività del primo sul secondo. La reazione iniziale a tali
ricerche fu la messa in dubbio del ruolo degli atteggiamenti nel determinare il comportamento
e, di conseguenza, di una sfiducia nei confronti dell’utilità del costrutto nella predizione dei
comportamenti stessi (Olivero e Russo, 2009). Successivamente, però, si ipotizzò la
distinzione tra i comportamenti facilmente verbalizzabili, coscienti e quelli difficilmente
esprimibili, condizionati da fattori inconsci e reazioni imprevedibili e, di conseguenza, la
differenziazione tra atteggiamenti espliciti e impliciti (Olivero e Russo, 2009).
La struttura dell’atteggiamento non riguarderebbe, dunque, solo le dimensioni orizzontali
affettiva, cognitiva e conativa, di cui discusso precedentemente, ma vi sarebbe anche
un’articolazione su due livelli di profondità, uno più superficiale, cosciente, razionale, quello
dell’atteggiamento definito esplicito, e un altro più profondo e inconscio, quello
dell’atteggiamento definito implicito.
Gli atteggiamenti impliciti sono definiti da Greenwald e Banaji (1995) come tracce non ben
identificate di esperienze passate che mediano sentimenti e azioni contrastanti, favorevoli e
non, verso oggetti sociali, e da Greenwald, McGhee e Schwartz (1998) come giudizi che sono
sotto il controllo di valutazioni attivate in maniera automatica, senza decisione deliberata da
parte di chi esprime il giudizio.
Dagli anni ’80 vi è stata una considerevole crescita dell’attenzione e degli studi dedicati agli
aspetti automatici ed impliciti dei comportamenti, che hanno dimostrato come molti di essi
siano notevolmente meno deliberativi di quanto si ritenesse tradizionalmente.
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Esistono, a questo proposito, due tipi di modelli teorici che riguardano il rapporto tra
cognizione e comportamento, quelli unitari e quelli duali.
Tra i primi il più importante è il MODE di Fazio (1990, 2007), che definisce gli atteggiamenti
come associazioni, presenti in memoria, tra gli oggetti e loro valutazioni, diversi tra loro per
forza e di conseguenza accessibilità.
Secondo questo modello gli atteggiamenti possono essere attivati automaticamente dalla
memoria quando si incontra un determinato oggetto e possono causare un comportamento
coerente anche senza che vi sia una riflessione intenzionale sull’atteggiamento e la
consapevolezza della sua influenza. La forza dell’associazione tra l’oggetto e la sua
valutazione è un moderatore importante della coerenza tra l’atteggiamento e il
comportamento, per questo motivo tutte le circostanze che rafforzano o indeboliscono
l’associazione, e di conseguenza influenzano l’accessibilità, hanno impatto sulla validità
predittiva dell’atteggiamento.
Un importante modello che invece appartiene al gruppo di quelli duali, è il Reflective &
Impulsive System (RIM) di Strack e Deutsch (2004). Questo modello è particolarmente
interessante rispetto alle tematiche della distinzione tra atteggiamenti espliciti e impliciti e il
legame tra essi e il comportamento. Gli autori sono, infatti, partiti da una revisione critica
della letteratura sul legame tra atteggiamenti automatici e controllati da una parte, e
comportamento dall’altra. Secondo questo modello, in accordo con quello di Fazio, i
comportamenti sono funzione congiunta di processi deliberativi e automatici ma diversamente
dal MODE, Strack e Deutsch ipotizzano due sistemi di elaborazione diversi, quello
associativo o impulsivo e quello riflessivo che interagiscono in maniera sinergica o
antagonista
Questo modello sostiene, infatti, che vi sia un flusso tra la percezione e il comportamento, e
che esso sia mediato dai processi attivati dalla percezione stessa, i quali possono essere di due
tipi: associativo, la cui dominanza porta alle azioni che vengono chiamate impulsive e
riflessivo, che quando prevale conduce ad azioni ragionate.
Il primo tipo, ossia associativo, comprende processi non intenzionali, mentre il secondo la
valutazione di pro e contro delle azioni e riflettono l’azione dei due sistemi di elaborazione,
associativo o impulsivo e riflessivo.
Il sistema associativo è descritto come rapido, cognitivamente economico, non intenzionale e
non accessibile e il comportamento derivato come la conseguenza di un’attivazione diffusa
della rete associativa, chiamata spreading attivation. Il sistema riflessivo, al contrario, è
considerato da questo modello lento, costoso in termini di risorse cognitive, intenzionale,
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accessibile e necessitante di risorse attentive, mentre il comportamento derivato da esso
sarebbe il risultato di un processo di decisione.
I due sistemi, secondo gli autori, operano congiuntamente e in interazione tra loro, l’ipotesi
che propongono è che la percezione di un oggetto porti all’attivazione del primo e nel
momento in cui si presta sufficiente attenzione allo stimolo, venga attivato anche il secondo.
Entrambi i sistemi, secondo questo modello, influenzano il comportamento attivando schemi
comportamentali che vengono emessi se l’attivazione supera la soglia. Se i comportamenti
attivati dai due sistemi risultano non compatibili, uno dei due, a seconda della situazione,
prevale sull’altro.
Il modello di Strack e Deutsch, dunque, ingloba l’idea che i processi cognitivi espliciti
(riflessivi) si esprimano nell’intenzione comportamentale, ma sostiene che anche
l’atteggiamento implicito incida sul comportamento.
2.La misurazione degli atteggiamenti
L’interesse verso lo studio dei processi automatici ha portato alla nascita e alla diffusione di
una nuova classe di misure degli atteggiamenti, quelle dirette o implicite, differenti da quelle
esplicite tradizionali.
2.1 Le misure esplicite
Con il termine misurazione esplicita si intende la misurazione di un costrutto basata su
risposte con una componente sostanziale di deliberazione, riflessione, elaborazione e
descrizione. Tipicamente esse sono rappresentate da una serie di domande, sottoforma di
questionari o interviste, che ricalcano la richiesta diretta di descrivere il proprio
atteggiamento, rendendola però strutturata e standardizzata, poiché ci sono domande e
possibili risposte uguali per tutti i soggetti.
Nel caso dei questionari l’operazione che viene fatta è quella di estrapolare un valore
numerico che rifletta in una misura quantitativa il costrutto psicologico da misurare. Il legame
tra misura e costrutto è, però, influenzato anche dai processi che avvengono nelle persone