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INTRODUZIONE.
MOTIV AZIONI.
Questa ricerca ha avuto origine da un‟inquietudine personale attorno la figura femminile, impigliata
nelle maglie della giustizia penale. Tale interesse sorse qualche anno fa, quando in Italia una donna
venne processata per la morte del proprio bambino: aveva dimenticato il figlio di pochi mesi in auto,
per ore, sotto il sole! L‟immagine della vita di questa donna, diffusa dai mass media, la voleva da
sola a far fronte a tutte le incombenze che una casa, un lavoro ed una famiglia comportavano. Un
marito ammalato, i tre figli ancora piccoli, ed un lavoro sulle spalle. Così quel giorno, dopo aver
sbrigato di prima mattina le faccende domestiche, aver portato i figli maggiori a scuola ed accudito
il marito, invece di portare il più piccolo all‟asilo, si diresse direttamente al lavoro, dimenticandolo
in macchina. È facile immaginare il forte stress che questa donna stava vivendo, quotidianamente,
da chissà quanto tempo...Ciò però non impedì all'opinione pubblica di sollevarsi con sdegno contro
questa madre. Come poteva una madre dimenticare il proprio bambino? Come aveva potuto
ucciderlo? Realmente stupita da tali reazioni, molte delle quali provenienti da altrettante donne,
madri e lavoratrici anch‟esse, mi domandai allora se lo stesso biasimo, tanto violento nei confronti
di una donna (o meglio di una madre giacché la reazione era contro la figura materna), fosse stata lo
stesso se al posto di una lei ci fosse stato un lui.
Nel mio anno di interscambio accademico presso la UNAM (Universidad Autonoma de México),
grazie al programma Overseas, ebbi modo di familiarizzare con alcuni testi circa le condizioni
femminili all'interno delle carceri messicane, da qui la decisione di affrontare la tematica della
stigmatizzazione, discriminazione e violenza verso la donna in stato di reclusione, scegliendo come
campo i due reclusori femminili del Distrito Federal: Santa Martha Acatitla e Tepepan.
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OBIETTIVI.
La ricerca partì inizialmente con l'obiettivo di individuare la reale esistenza, nelle relazioni affettive
(dunque familiari, di coppia e di amicizia), di fenomeni di stigmatizzazione e discriminazione, verso
quelle donne che si trovavano a vivere un'esperienza di reclusione carceraria. In realtà una volta sul
campo le domande si sono andate moltiplicando, dal momento che sentivo imprescindibile tener
conto delle complesse dinamiche di violenza, stigmatizzazione e discriminazione che
attraversavano il corpo delle detenute da molteplici direzioni, e a differenti livelli. Tali tensioni di
esercitavano dall'esterno verso l'interno, da parte della famiglia e della società in generale.
All'interno, da parte delle autorità giudiziarie e dello staff di custodia, ma anche e sopratutto
attraverso la stessa struttura carceraria ed il suo funzionamento disciplinario. Le donne, già di per se
in uno stato di subordinazione ed esclusione, nell'esistenza sotto detenzione carceraria, sono
sottoposte a episodi violenti e stigmatizzanti, che ne riproducono incessantemente la
discriminazione.
L'obiettivo principale si è focalizzata dunque nel descrivere i meccanismi attraverso i quali il
sistema carcerario contribuisca a creare e a riprodurre la discriminazione e la stigmatizzazione di
genere, oltre che a considerare come ciò incida sul reinserimento e riadattamento sociale. Questa
finalità più generale si è strutturata in una serie di piccoli obiettivi.
1. Riconoscere e descrivere le forme di stigmatizzazione e discriminazione principali, e la
relazione di queste con la condizione di genere, sia nella vita in libertà come all'interno del carcere.
2. Individuare se esista realmente un fenomeno di abbandono familiare, e precisarne le cause.
3. Descrivere i cambiamenti che l'internamento nella struttura carceraria ha apportato nelle
relazioni familiari e di coppia.
4. Indagare l'esistenza o meno di atteggiamenti discriminatori e violenti nelle relazioni tra
detenute ed autorità.
Sebbene l'obiettivo originario fosse quello di descrivere i cambiamenti avvenuti nelle relazioni
familiari, di coppia, materne e nelle amicizie, in relazione all'ingresso in carcere, i racconti si sono
arricchiti toccando tematiche quali le condizioni vissute dalle detenute all'interno della struttura, le
relazioni con l'istituzione e con le autorità. Il proposito è, in fine, quello di individuare le forme
attraverso cui si esercita lo stigma e la discriminazione nella sfera delle quotidiane relazioni della
donna in reclusione, e come queste possano essere ricollegate alla particolare condizione di genere.
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NOTE METODOLOGICHE E TECNICHE.
Oltre alla ricerca bibliografica, che ha avuto luogo in Messico ed in Italia, riguardante studi e
ricerche attorno la condizione femminile in carcere, i metodi impiegati nella ricerca hanno incluso
la delineazione di genealogie, elaborate con l'obiettivo di situare la donna all'interno della famiglia
di origine, ed il ruolo svolto in essa, definendo altresí la sua situazione economica e sociale. Dal
momento che tutte provenivano da più esperienze coniugali, si è proceduto alla delineazione di una
mappa delle relazioni nei nuovi nuclei familiari, sempre con la finalità di comprenderne il ruolo e le
funzioni all'interno.
Presso Santa Martha Acatitla potei mettere in atto un'osservazione partecipante e diretta. Mi sembra
opportuno definire bene questa situazione. Realizzare un periodo di osservazione partecipante
all'interno di un reclusorio è abbastanza complesso, e stando alla definizione stessa, significherebbe
assumere il ruolo e l'identità di detenuta. Per ovvie ragioni questo non poté aver luogo, senza
dubbio però condivisi con le detenute e i loro cari un momento comune della vita in detenzione: le
visite familiari. Mi parve importante adottare la posizione di un comune familiare che si reca in
visita, nelle ore e nei giorni stabiliti, per sperimentare direttamente i processi che investono il tempo
ed il corpo della persona che abitualmente si trova a misurarsi con un determinato processo di
controllo. Presso Tepepan non fu possibile, a causa dell'alta sorveglianza, posizionarmi nella stessa
ottica, mi sono dunque attenuta ai soli colloqui ed interviste. Queste si sono organizzate in domande
aperte o semi-strutturate, cercando di mantenere una certa elasticità, per permettere alle ragazze di
ampliare la discussione. Le interviste rispettavano in linea di massima una scaletta, nella quale ogni
gruppo di domande cercava di delineare i tratti salienti della vita di queste donne. In un primo
momento si è cercato di definire quali fossero le attività quotidiane svolte nella struttura carceraria,
paragonando lo stile di vita prima e dopo la detenzione. Le domande si sono poi spostate attorno
alla vita familiare, cercando di definire la situazione socio-economica della famiglia di origine,
l'esistenza o meno di conflitti ed episodi di violenza e discriminazione all'interno dell'ambito
domestico, nonché il cambiamento in concomitanza con l'ingresso in carcere. Questa stessa traccia è
stata seguita per indagare le relazioni di coppia, con i figli e gli amici.
La discussione, come detto prima, si è aperta all'esplorazione della vita in carcere, toccando
tematiche come i lavori e laboratori penali, le visite intime, l'attenzione medica e le relazioni con le
autorità, sia all'interno della struttura come al momento della detenzione.
Ne è venuto fuori un quadro estremamente complesso, nel quale la violenza strutturale, la
stigmatizzazione e la discriminazione che scaturiscono dall'istituzione totale del carcere, e nella
quotidianità della vita in reclusione, si intrecciano con multisfaccettati episodi di violenza, stigma e
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discriminazione presenti sin nella vita in libertà.
Per quanto riguarda le statistiche e i dati attorno ai reclusori, mi sono appoggiata al sito della
Subsecretaria del Sistema Penitenciario. Seppure la ricerca si svolse nel giugno e luglio del 2009, i
dati ufficiali del sito risultavano aggiornati, in modo non uniforme, al gennaio del 2009. Questo mi
ha portato ad utilizzare obbligatoriamente, laddove risultassero complete, le informazioni registrate
per i mesi a cavallo tra il 2008 ed il 2009.
L'utilizzo di dati quantitativi è avvenuto avvalendomi di fonti statistiche reperibili nei siti
dell'Instituo Nacional de Estadistica, Geografia e Informatica (INEGI), del Programa de Naciones
Unidas para el Desarrollo (PNUD), e delle pubblicazioni informative a cura del Consejo Nacional
para Prevenir la Discriminación (CONAPRED), e quelle dell'Instituto Nacional de las Mujeres
(INMUJERES).
Durante la ricerca mi sono appoggiata altresí a varie tecniche e supporti, che comprendono l'uso del
registratore (presso il reclusorio di Tepepan), di note e di un diario di campo.
Senza dubbio, durante la ricerca di campo, ho incontrato alcune complicazioni legate
principalmente alla delicatezza e complessità della tematica. Sebbene mi fossi proposta
originariamente di intervistare i parenti delle detenute, questi risultarono particolarmente sfuggenti,
diffidenti e riluttanti. Quei pochi familiari, esclusivamente donne, che dimostrarono disponibilità ad
un incontro, non di rado mi lasciarono per ore ad aspettare in un posto nel quale mai si presentarono.
Nella ricerca, manca quasi completamente la voce diretta ed il punto di vista maschile. Se le
familiari donne si dimostrarono più propense ad ascoltarmi, salvo poi mancare agli appuntamenti,
colte probabilmente da ripensamento, gli uomini dimostrarono già da subito aperta diffidenza ed
ostilità, sopratutto quando ero io da sola a rivolgermi a loro, che non mi permise di avvicinarli1. Le
uniche testimonianze da questo punto di vista furono quelle di Lazaro, fratello di una detenuta
presso Santa Martha Acatitla.
Posso registrare un trattamento differente da parte delle autorità nei miei confronti, collegabile al
fatto di essere di origine Europea. Se al primissimo accesso come visita presso Santa Martha
Acatitla venni trattata con brutalità e scortesia dalle guardie, non appena il mio passaporto, usato
per identificarmi, fu aperto, il trattamento divenne molto più cortese ed interessato.
1 Difatti quando mi trovavo in compagnia di un amico notai molta piú apertura nel parlare e scherzare, ma si
rivolgevano quasi esclusivamente a lui.
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NOTE SULLA RICERCA DI CAMPO.
La ricerca di campo si è svolta tra il 4 giugno e il 17 luglio 2009, ultimo periodo della mia
permanenza in Messico, nei due reclusori femminili del Distrito Federal2: Santa Martha Acatitla, e
Tepepan.
Nel caso di Santa Martha Acatitla, in un primo momento passai delle giornate al di fuori del
reclusorio, avendo modo di osservare chi fossero le persone che si recassero a visitare le detenute, e
che cosa portassero all'interno e all'esterno della struttura. Alle persone che si recavano in visita
chiedevo se fossero d'accordo affinché intervistassi la ragazza che andavano a visitare. Molti non
erano assolutamente disposti, altri mi dissero che ne avrebbero parlato, ma l'ostacolo principale era
l'inserimento nel Kardex. Si tratta di una lista dove, ogni inizio del mese, le detenute registrano i
nomi delle persone autorizzate a farle visita. Era dunque già il 4 giugno, e tutte avevano consegnato
il proprio Kardex, la possibilità di essere annotata quindi sarebbe slittata al mese successivo, luglio.
Nonostante questo ho avuto modo di conoscere il marito di una detenuta, Omar, che spigate le mie
intenzioni ed i miei obiettivi, ed il perché di questo mio interessamento, si dimostrò apertamente
entusiasta, e disposto ad aiutarmi. Grazie alla posizione e alle conoscenze all'interno del carcere, la
moglie Gauadalupe riuscì ad annotarmi nella sua lista. Ricevetti da li a poco tempo una chiamata
della stessa detenuta, la quale mi diceva che mi avrebbe aspettata in visita per la settimana
successiva. Il primo ingresso a Santa Martha Acatitla è avvenuto giovedì 25 giugno.
L'iter seguito per entrare a Tepepan è stato invece molto più formale, dal momento che sollecitai il
permesso presso la Subsecretaria del Sistema Penitenciario. In questo caso dovetti consegnare il
mio progetto, fare una serie di colloqui nei quali esponevo i motivi che mi spingevano verso tale
ricerca, ed i miei obiettivi. Il mio calendario era molto più strutturato: avrei dedicato quattro ore al
giorno, dalle 10.00 a.m alle 2.00 p.m., tutti i lunedì, mercoledì e venerdì, a partire dal 1 luglio sino
al 17 dello stesso mese. A questi ho alternato i giorni nei quali mi recavo in visita a Santa Martha
Acatitla, solitamente i martedì ed i giovedì. Dopo averlo sperimentato una volta, decisi di non
andare in visita il fine settimana, dal momento che erano i giorni in cui le ragazze ricevevano molti
dei loro parenti, fidanzati e genitori che non si recavano abitualmente durante la settimana, per
questo motivo non mi parve opportuno invadere, con la mia presenza, quelle poche ore nelle quali
potessero vedere i propri cari.
Queste due forme ben differenti con le quali ho potuto accedere ai due reclusori, hanno determinato
2 Cittá del Messico é chiamata in forma abbreviata anche Distrito Federal, centro politico ed economico della
confederazione degli Stati Uniti Messicani.
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notevolmente la mia esperienza in essi, la possibilità di poter svolgere un'osservazione partecipante,
e l'approccio stesso con le ragazze.
A Santa Martha incontravo Guadalupe e le altre ragazze nel patio, in un'atmosfera più informale e
rilassata. Portavo con me un taccuino sul quale appuntavo le loro parole e le mie domande,
lasciando allo stesso tempo la possibilità di spaziare liberamente verso quegli argomenti che
sembravano stargli a cuore particolarmente, e lasciandomi guidare in molti casi dagli eventi
quotidiani. In un ambiente così informale ho avuto modo di esplorare con maggiore facilità i
rapporti con le autorità giudiziarie, e gli episodi di violenza e abusi in tali relazioni. Ho potuto
inoltre rendermi conto di un meccanismo di gerarchizzazione delle detenute, i rapporti di alleanza e
i forti legami tra di loro, come anche la presa di distanza verso altre, sopratutto “addictas, lesbianas,
peleoneras”. Senza dubbio però, affrontare tali tematiche richiese un adattamento notevole ai tempi
e sensibilità delle detenute, cosa che si è ripercossa nell'indagine. Ho ritenuto inopportuno insistere
sulle domande alle quali mi veniva data una risposta volutamente evasiva, ed allentare la presa
quando mi veniva mostrato evidente nervosismo. Gli spunti forniti dalla quotidianità e
dall'immediatezza, non permisero un'esplorazione sistematizzata delle domande e degli argomenti,
ma aprirono la prospettiva a nuove e altrettanto fruttuosi spunti. Dovetti dunque lasciarmi andare, e
limitarmi a mantenere presenti le tematiche, più che a strutturale le domande.
A Tepepan invece il mio ingresso fu più formale. Giungendo con tutti i permessi ed accompagnata
da una responsabile della Subsecretaria del Sistema Penitenciario, arrivavo già con un ruolo cucito
addosso. Per di più le ragazze, con le quali mi fu concesso parlare, erano state selezionate da parte
delle autorità penitenziarie. I nostri ruoli reciproci erano già stati negoziati prima ancora che ci
incontrassimo, loro avevano accettato di essere intervistate su precise tematiche, e già mi
catalogavano come una di più tra le varie figure di assistenti sociali, giornalisti, psicologi, etc. Nel
loro caso fu molto più facile una sistematizzazione delle domande e delle tematiche da affrontare. Il
fatto di svolgere le interviste in un corridoio vicino agli uffici, la presenza di un'altra figura
autoritaria al mio fianco, e l'ufficialità con la quale si erano svolti i preparativi per il mio ingresso,
da un lato non ha permesso alcuna osservazione partecipante, dall'altro lato, ha a mio parere,
influenzato notevolmente gli stessi racconti da parte delle ragazze.
Senza dubbio un accesso così differente alle due realtà mi ha permesso di paragonare due tipi di
presenza nel campo, e questionare la mia figura nel rapporto con l'informatore. È molto probabile
che presso Tepepan possa essere stata assimilata alla stessa gerarchia autoritaria. Ho notato che
nessuna delle ragazze si è lamentata, per esempio, di maltrattamenti all'interno della struttura. A
parte il fatto che le autorità mi fecero espresso divieto di affrontare tale problematica, è anche vero
che le ragazze che vissero in entrambi i reclusori parlavano di Santa Martha Acatitla in toni molto
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più critici. Sicuramente questo è anche dovuto al numero esiguo di donne presso Tepepan (180
circa), in confronto all'enormità e al sovraffollamento dell'altro reclusorio.
Santa Martha Acatitla rappresenta per me un'esperienza molto più dura, inglobante, ed
emotivamente forte. Il pericolo in questo caso è stato quello di arrivare ad un' immedesimazione e
coinvolgimento maggiore, sino a giungere a percepire personalmente la sensazione di reclusione.
Un rischio ulteriore nell'affrontare tale ricerca, fu senza dubbio la tendenza alla vittimizzazione
delle donne, che porta facilmente a non cogliere la complessità dei punti di vista, in un campo in cui
si incrociano e si scontrano le realtà delle detenute, dei familiari, delle autorità e dello staff
carcerario, oltre che ad incorrere nel secolare pregiudizio che colloca la donna in uno stato di
passività, espropriandole l'autonomia di agire e reagire, in forme personali, all'esperienza carceraria.
La donna in stato di detenzione, oltre a dover affrontare il biasimo sociale che deriva dall'aver
infranto la legge, soffre un rifiuto ancora maggiore da parte della famiglia e della società,
collocabile all'interno dell'infrazione delle aspettative e pregiudizi di genere. Il proposito è cercare
di capire chi siano queste donne, perché si trovano in carcere, e quale siano state le circostanze nelle
quali è maturata e ha avuto luogo la propria azione delittiva; come anche l'esplorazione di quegli
episodi attraverso i quali si perpetra la violenza, all'interno come all'esterno della struttura. Quello
che risalta è come molte di queste donne provenissero da contesti emarginati, caratterizzarti dalla
mancanza di opportunità lavorative degne, di istruzione adeguata, in contesti di esclusione sociale e
di disconoscimento dei propri diritti, come delle leggi e degli organi preposti alla loro difesa.
Le testimonianze raccolte a Santa Martha Acatitla sono principalmente di Guadalupe e Lizbeth, con
le quali ho avuto modo di parlare in forma più approfondita. Con Karina, Edwina ed Alejandra
(quest'ultima ex detenuta che conobbi al di fuori del reclusorio), ho intrattenuto invece una
discussione più breve ed informale, ma senza dubbio le loro informazioni furono ugualmente
preziose. Presso Tepepan invece ebbi modo di effettuare interviste a Zoila, Regla e Reyna.
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CAPITOLAZIONE.
Nel primo capitolo mi sono dedicata a segnare una cornice teorica circa la devianza e la criminalità,
e come questa ha iniziato ad interessare, a partire da tempi piuttosto recenti, un discorso attorno alla
marginalizzazione e la povertà. Se originariamente la devianza e la delinquenza, affrontata da
discipline come la filosofia e la medicina, era vista quale espressione fisica di un'aberrazione morale,
col tempo e a partire principalmente dal secolo dei Lumi, è andata designando coloro i quali
avessero rotto il patto sociale, collocandosi nella categoria di criminali. Una riflessione circa la
concezione della criminalità, deve passare attraverso un inquadramento storico dei processi
economici che hanno percorso l'Europa e gli Stati Uniti (luoghi in cui si è sviluppato principalmente
il discorso sulla criminalità), e le tecniche punitive. Al considerare il delinquente come avversario
del potere sovrano assoluto, si collega una forma di punire volta ad eliminare la sua presenza
oltraggiosa, e a manifestare, attraverso pubblici supplizi, la potenza del sovrano, e l'ammonizione
della società verso qualsiasi forma di imitazione.
Quando il corpo umano assume importanza dal punto di vista economico, e quando la forza lavoro
diviene centrale in un'economia mercantile ed industriale, la morte e la tortura non sono più le
soluzioni più adatte a punire. A questo si aggiunge un mutamento della visione del deviante, che
diviene colui il quale ha rotto con il patto sociale. Le sentenze saranno dunque volte a risarcire la
comunità, danneggiata dal suo comportamento. Con l'impulso capitalista si assiste ad un aumento
notevole delle ricchezze, ma anche alla crescente pauperizzazione delle classi popolari. Cambia
notevolmente la concezione di crimine, andando a riferirsi principalmente a quegli atteggiamenti
che danneggiano le proprietà. Questa visione veicola naturalmente l'ideologia e gli interessi delle
classi al potere, che sviluppano un discorso stigmatizzante verso le gli strati popolari ed abietti.
Iniziano a fiorire forme di disciplinazione del corpo, che investono anche l'ambito della giustizia e
della penalizzazione, indirizzate al dominio e piegamento del corpo e della mente alle dinamiche
del potere. Il XVIII secolo è decisivo nel passaggio verso differenti tecniche punitive, che
sfoceranno poi, tra XIX e XX secolo, nell'idea del carcere riabilitativo. Con la spinta neoliberista
del XX secolo si assiste ad una massiccia criminalizzazione dei gruppi più emarginati e senza
risorse, una forte sorveglianza delle masse che non rientrano nel progetto del lavoro salariato, ed
una penalizzazione maggiore nei loro confronti. Il discorso pubblico aumenta la stigmatizzazione di
tali fasce, considerate sempre più pericolose per la società, ed il carcere diviene uno strumento utile
al loro controllo.
Il secondo capitolo tratta direttamente del fenomeno della stigmatizzazione, come processo che
prende il via da un meccanismo di etichettamento e di inferiorizzazione dell'individuo, che non
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risponde alle caratteristiche ed aspettative stereotipate, della relazione quotidiana. Viene messo in
evidenza come il processo stigmatizzante abbia importanti collegamenti con le relazioni di potere e
subordinazione tra i diversi gruppi, e quindi con la capacità di controllo e sanzionamento dei
comportamenti che danneggiano o sono contrari alle norme sociali e legislative del gruppo
dominante. In seguito viene esaminato il concetto di discriminazione, con il quale si intende
l'impedimento di accedere a diritti ed opportunità, concesse ad alcuni ma negate ad altri, in virtù di
una loro stigmatizzazione, e che danno luogo ad episodi di diseguaglianza ed inferiorizzazione. In
seguito viene affrontato il problema della discriminazione di genere, ed introdotti alcuni dati
statistici circa la discriminazione di genere in Messico.
Il terzo capitolo è invece prettamente dedicato alla ricerca di campo. Dopo aver introdotto una breve
storia sul carcere in Messico, basato sul riadattamento ed il reinserimento sociale, ho realizzato una
presentazione delle donne che ho avuto modo di intervistare presso i reclusori Santa Martha Acatitla
e Tepepan. L'obiettivo di questa prima parte è quello di inquadrare, a livello sociale ed economico,
la provenienza ed i differenti vissuti di queste ragazze, che convergono in molti aspetti. Il capitolo è
poi suddiviso in sezioni, con l'obiettivo di esplorare i vari aspetti coinvolti nella vita in detenzione.
Il primo è indirizzato a sondare il cambiamento sopraggiunto, con l'ingresso in carcere, nelle
comuni ed abituali relazioni della donna, sopratutto riguardo la famiglia ed il rapporto di coppia. Il
secondo paragrafo, offre una panoramica su alcune questioni nodali riguardo ai collegamenti tra
criminalità, punizione e femminilità. L'inferiorità numerica dell'incidenza delittiva femminile
rispetto a quella maschile, si traduce in una minore attenzione riguardo alle donne, e in una
mancanza di prospettiva di genere nei discorsi criminologici e penali. La discriminazione scaturisce
a partire dalle strutture carcerarie, dal suo funzionamento e da quello dei suoi servizi, che assumono
il significato di un'esplicita violenza strutturale. Non solo dunque la donna soffre una
discriminazione rispetto all'uomo, ma ciò viene riprodotto in carcere, con conseguenze catastrofiche.
Allo stesso modo si parla della stigmatizzazione che soffre la donna delinquente, in quanto
trasgressiva della legge e dello stereotipo patriarcale. Tali processi di stigmatizzazione però non si
fermano a lei, ma si estendono ai suoi familiari. Il successivo paragrafo analizza invece
l'organizzazione e la disciplinazione del tempo e dello spazio, al quale sono soggette le detenute. Un
tempo rigido scandisce completamente le attività ed ogni aspetto della loro vita e di quella dei
parenti che si recano in visita. La scissione con l'esterno si completa attraverso dei meccanismi di
suddivisione e classificazione delle detenute, che segna i rapporti ed il trattamento tra loro stesse e
con il personale.
In seguito esplorerò i molteplici episodi di violenza e abuso perpetrati sul corpo, la sessualità e la
vita delle carcerate, a partire dalla violenza strutturale manifesta nei programmi e attività lavorative,
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e nell'attenzione medica, per poi passare alla violenza fisica, psicologica e verbale, alla quale sono
soggette durante tutto l'iter, dall'arresto sino alla vita quotidiana nella struttura stessa. Infine si
indagherà sulla sessualità e la discriminazione tra i due generi, che rispecchia ancora la
preponderante esistenza di una doppia morale sessuale. L'ultimo paragrafo è dedicato al difficile e
controverso tema della maternità vissuta in carcere, mettendo in risalto le contraddizioni e le
difficoltà di adattare questo momento della vita delle donne, all'ambiente carcerario.
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CAPITOLO I.
UN QUADRO TEORICO. DEVIANZA, MARGINALITÀ E
CRIMINALITÀ.
L‟attenzione al fenomeno dei comportamenti e degli atteggiamenti anomali ha origine sin
nell'antichità classica, quando un approccio essenzialmente filosofico vedeva l‟aberrazione, fisica o
mentale, come l‟espressione di una moralità corrotta e maligna, che poteva essere ereditata. Da
questo momento in poi diverse discipline, dalla filosofia alla psicologia, passando per la medicina,
la sociologia, l‟antropologia e la criminologia, in misura variabile, si sono occupate di definire cosa
sia considerato normale e cosa no.
Secondo il “Diccionario de Sociología” ad opera di Juárez e Sánchez, la devianza è definita come
“la forma de comportamiento que se separa de las normas comunes, aceptadas y observadas por una
mayoría de individuos o por la sociedad”3.
Non esiste pertanto un‟azione che sia deviante in se per se, ma né tale solo in relazione ad una
dimensione storica, ad una società specifica, in riferimento al contesto nel quale si verifica, e non
ultimo, dipendente dalle tensioni e relazioni di potere che in esso si dispiegano.
“La desviación debe precisar, para ser considerada como tal, tanto los grupos de referencia para el
individuo como el sistema productor de reglas y el grado de institucionalización de las mismas”4.
Gli studi sviluppati alla fine del XIX secolo si riferivano alla devianza essenzialmente per indicare
azioni trasgressive nei confronti delle norme ufficiali, ampiamente condivise dalla società, e
codificate nel suo sistema giuridico. Tale termine è andato progressivamente includendo tutte le
forme di degenerazione e anomalia che andassero dai problemi sociali, agli stili di vita differenti e
trasgressivi, nonché all‟allontanamento dai ruoli e compiti consuetudinari e stereotipati dettati dalle
norme sociali di un gruppo. Allo stesso tempo il termine devianza inizia a perdere la sua accezione
negativa, per assumere un significato neutrale, utile a descrivere quei fenomeni di anormalità senza
implicare necessariamente un giudizio di valore.
È importante precisare come la categoria “norma” includa un vasto insieme di prescrizioni, che F.
Tönnies classifica in tre sottogruppi. In primo luogo vi sono le leggi, norme istituzionalizzate nei
codici giuridici a difesa di beni e valori, solitamente espressione degli interessi delle classi
3Octavio Uña Juárez, Alfredo Hernández, Sánchez. Diccionario de Sociología. Madrid, ESIC, 2004. p., 372.
4Ibidem, p. 374.
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dominanti. L‟applicazione è affidata ai tribunali e alle istituzioni preposte al mantenimento
dell‟ordine civile, e la loro infrazione comporta conseguenze giuridiche e penali. Le norme morali,
più o meno codificate in testi considerati sacri, sono invece applicate da giudici morali, divinità o
entità spirituali. Ed infine le norme sociali. Non si trovano codificate, ma esprimono la condotta ed
il senso comune, determinano ruoli, modelli di comportamento e relazione tra i differenti gruppi
sociali e tra gli individui. La loro inadempienza non comporta sanzioni istituzionalizzate, ma la
reazione sociale prenderà le forme del rifiuto, del biasimo, dell'inferiorizzazione e stigmatizzazione
del soggetto deviante.
Tutti i sistemi normativi sono il frutto di particolari circostanza storiche, sociali, culturali, e non di
meno economiche. Costituendosi sotto l‟aspetto di evidenze ideologiche, sembrano essere pertanto
ovvie, naturali ed inquestionabili; in realtà, a ben guardare, proteggono beni e valori frutto di
interessi specifici di gruppi dirigenti. I loro effetti vanno ben oltre l‟instaurazione di una divisione
netta tra legittimo e illegittimo, ma determinano la costruzione identitaria, i ruoli e le modalità di
relazione. La loro infrazione comporta necessariamente forme di sanzione, formali o informali,
anch‟esse relative al contesto storico e sociale.
1.IL DELINQUENTE: UN CORPO ATTRA VERSATO DA TENSIONI POLITICHE.
La detenzione a scopo correttivo, appare oggigiorno come l‟unica possibile sanzione penale.
Sicuramente è la più diffusa, ma e solo una forma, storicamente e socialmente situata, di sanzionare
atti e comportamenti delinquenziali. Le sue radici più remote possono essere fatte risalire a cavallo
tra il XVI e XVII secolo, momento in cui la giustizia penale è oggetto di una profonda riforma.
1.1 L’EPOCA DEI SUPPLIZI. IL CORPO INUTILE.
Il supplizio, attraverso il quale si spettacolarizzava la sofferenza delle torture e il dolore della morte,
era stato a lungo la sanzione più comune nel Medio Evo. La contestualizzazione del sistema
penitenziario nel quadro politico, economico e sociale, aiuta a comprendere come le due dimensioni
siano strettamente legate, e come il primo scaturisca necessariamente dal secondo.
Tale forma punitiva rimanda difatti a particolari espressioni e manifestazioni di potere. Le leggi
esprimevano la volontà del sovrano, e la loro infrazione una trasgressione grave ai voleri del potere
assoluto. La procedura giuridica comportava da un lato la segretezza e l‟arbitrarietà con la quale si
svolgevano i processi: l‟imputato non aveva modo di sapere chi lo accusasse, né per quale motivo, e
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di conseguenza era impossibile per lui organizzare una difesa. “La forma segreta [...] della
procedura rinvia al principio, che, in materia criminale lo stabilire la verità era per il sovrano e i
suoi giudici, un diritto assoluto ed un potere esclusivo” 5 . Dall‟altro lato vi era un'estrema
spettacolarizzazione della punizione: l'unico momento in cui si rende manifesto e pubblico il
processo giudiziario è nel suo epilogo. È il corpo del condannato che porta alla luce la sua macchia
e la sua infamia, questo è mostrato e si mostra pubblicamente, testimoniando e legittimando la
verità delle accuse. Non di rado al corpo del sentenziato, obbligato a sfilare per le strade del paese,
venivano applicati cartelli che riproducessero la sentenza, si poteva assistere alla lettura del giudizio,
e alla stessa confessione del reo. La verità della propria accusa si manifesta palesemente attraverso
la tortura, ed infine la morte. Nel cerimoniale pubblico del supplizio si mette in scena la potenza del
sovrano, la sua vendetta contro l‟insubordinazione del soggetto delinquente, per riconfermarne
l‟assoggettamento. Il popolo è allo stesso tempo destinatario e testimone del supplizio, ma ne deve
condividere, per lo meno in una certa misura, la logica. La comunità partecipa in prima persona ed
attivamente, è sollecitata a reagire contro il condannato, aggiungendo la propria vendetta accanto a
quella del sovrano. Il corpo umano, deprezzato e senza alcuna validità, s‟inserisce non a caso in un
particolare regime di produzione che sminuisce la forza lavoro. L‟andamento demografico delle
società europee medievali era incerto e limitato, a causa di una povertà estremamente diffusa, delle
continue malattie, carestie, e pestilenze, che faceva della morte un evento piuttosto frequente.
In definitiva, il deviante era colui il quale aveva leso la suprema volontà del sovrano, il suo corpo
svalutato ed inutile non poteva che risarcire la lesa maestà attraverso la sofferenza e la morte nel
supplizio pubblico, momento in cui si riconfermava il sommo potere reale.
1.2 IL CORPO RIV ALUTATO APPARTIENE ALLA SOCIETÀ.
A partire dal XVIII secolo si assiste in tutta Europa ad un nuovo esercizio della giustizia penale. La
forte critica verso la violenza dei supplizi e la richiesta di una umanizzazione delle pene va
collocata all‟interno dei cambiamenti sociali ed economici del secolo dei Lumi.
I valori di uguaglianza promossi dall‟Illuminismo e basati sul diritto di natura, rendono ormai
inaccettabili i benefici e i privilegi esclusivi della nobiltà. Questa posizione, porta a questionare
profondamente l‟arbitrarietà e il dispotismo con i quali si stabilivano le sanzioni punitive, da parte
dei sovrani o delle autorità giudiziarie. Si comincia così a elaborare una profonda critica del sistema
dei delitti e delle sanzioni, che formerà la base del pensiero penale moderno.
Nell‟opera di Cesare Beccaria, “Dei delitti e delle pene” (1763), troviamo ben organizzato il sistema
5Foucault Michel. Sorvegliare e punire. Torino, Einaudi, 1993 p 39.
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dei valori alla base della giustizia penale. “Promozione dell‟eguaglianza giuridica e della
codificazione del diritto, rifiuto della pratica della tortura, della deportazione e della pena capitale,
rifiuto dell‟arbitrarietà della pena e di tutte le pratiche contrastanti con i principi dei diritti
individuali”6.
Il corpo non è più l‟obiettivo principale della punizione, ma diviene mezzo attraverso il quale
espropriare l‟individuo di un valore ancora più prezioso: la libertà. La sanzione diviene sempre più
privata e nascosta. La pratica del supplizio inizia progressivamente a scomparire.
Secondo la concezione roussoniana, si guardava alla società come scaturita da un contratto sociale,
attraverso la quale gli individui abbandonando lo stato di natura, si costituiscono in un gruppo. Il
contratto prevede la cessione di una parte della libertà e indipendenza individuale, resa peraltro
impraticabile dal continuo stato di guerra di tutti contro tutti, in cambio di una maggior sicurezza
offerta dal gruppo. In una tale prospettiva il deviante è pertanto colui il quale danneggia l‟ordine,
infrange il contratto sociale aggredendo ed espropriando la libertà altrui. L‟uomo, essere totalmente
razionale, nella ricerca del proprio benessere valuterà i costi ed i benefici ricavabili dall‟adesione o
infrazione delle norme. La criminalità è pertanto un atteggiamento consapevole, dove il vantaggio
dato dal crimine, è ben al di sopra dei suoi costi.
La riforma del diritto e della giustizia penale comporta da un lato una nuova “concezione e pratica
della pena e del sistema carcerario”, dall‟altro una rinnovata “interpretazione dell‟individuo di
fronte alla legge”7. Una pena è inflitta dunque a partire dall‟analisi delle prove, della cui raccolta il
soggetto indagato deve essere informato. Questi inoltre gode della presunzione d‟innocenza sino
alla condanna, che deve essere impartita da giudici al di sopra delle parti, neutrali all‟accaduto, ed
in processi pubblici. Dovrà inoltre essere la meno violenta possibile, e allo stesso tempo diretta a
garantire l'ordine sociale. “Se l‟uomo è un essere razionale e calcolatore, per evitare un‟azione
criminosa è necessario che le conseguenze di quest‟azione procurino all‟individuo un danno
maggiore rispetto ai benefici, in modo tale che non sia più conveniente o desiderabile trasgredire la
legge”8. Le conseguenze della sanzione e i suoi effetti saranno pertanto destinati sia al delinquente
sia alla società che lo circonda. Da un lato il criminale sarà materialmente posto in una condizione
nella quale non potrà più nuocere, e funzionerà da deterrenza specifica nei suoi confronti. Dall‟altro
servirà a dissuadere la società intera dall‟imitarne gli atteggiamenti, promuovendo
contemporaneamente la coesione sociale. La funzione di deterrenza della pena si sposa con quella
retributiva, ed infine rieducativa. Alla riduzione della violenta presa sul corpo, si accompagna la
certezza che ad ogni reato segua necessariamente ed infallibilmente una sanzione, tale previsione è
6Scarscelli D., Guidoni O. V . La devianza: teorie e politiche di controllo. Roma, Carocci, 2008. p.18.
7Berzano L., Prina L. Sociologia della devianza. Roma, Carocci editore, 1998. p.18.
8Berzano L., Prina F. Op. cit., p. 24.
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considerata un freno molto più efficace dell‟aspettativa di una possibile pena, anche se brutale.
La segregazione e i lavori forzati, sono meccanismi che si esercitano si sul corpo, ma per per
privarlo della libertà. Attraverso una serie di “costrizioni e di privazioni, di obblighi e di divieti.[...]
Il castigo è passato da un‟arte di sensazioni insopportabili a una economia dei diritti sospesi”9.
L‟obiettivo è la rieducazione, una rifondazione dell‟identità del condannato, dei suoi valori, del suo
modo di vivere e di agire.
Il nuovo ordinamento giuridico, la rinnovata logica correttiva del sistema punitivo, e una nuova
economia dei castighi, sono espressione della richiesta di una maggiore clemenza nelle sanzioni.
Tale necessità affiora nei contesti di un‟economia mercantile, e nei processi di industrializzazione.
In tale ambito la forza lavoro assume una rinnovata importanza, ed il corpo diviene supporto sul
quale “i rapporti di potere operano [...] una presa immediata, l‟investono, lo marchiano, lo
addestrano, lo suppliziano, lo costringono a certi lavori, l‟obbligano a delle cerimonie, esigono da
lui dei segni. Questo investimento politico del corpo è legato, secondo relazioni complesse e
reciproche, alla sua utilizzazione economica”10.
A partire dal XVII-XVIII secolo si assiste ad un impulso nel sistema di produzione capitalistico. La
ricchezza generale cresce sensibilmente, ma si concentra essenzialmente nelle mani delle classi
sociali superiori, mentre le masse popolari si vedono coinvolte in un processo di pauperizzazione ed
emarginazione crescente.
Sino alle ricerche sulla condotta criminalità dei colletti bianchi ad opera di Southerland nella prima
metà del XX secolo, la delinquenza fu sempre associata alle classi più povere ed emarginate. In
realtà già dal XVIII secolo si può assistere a una sorta di differenziazione tra i crimini compiuti
dalle classi superiori e quelle inferiori. Gli strati sociali più bassi, sembrano mettere in atto, con una
frequenza maggiore, crimini che danneggino i beni materiali e la proprietà privata. Mentre “la
possibilità di giocare i propri regolamenti e le proprie leggi; di far assicurare tutto un immenso
settore della circolazione economica da un gioco che si svolge ai margini della legislazione”11,
porta le classi più alte a commettere principalmente reati che violano i diritti dei cittadini. Allo
stesso modo si assiste a una diversificazione della giustizia: i reati contro la proprietà subiscono un
forte sanzionamento, al contrario quelli contro i diritti godono di una tolleranza maggiore, se non
addirittura di accomodamenti e concessioni. Tale forma di penalizzazione risponde ad una precisa
strategia nella gestione della proletarizzazione e impoverimento delle masse, la cui forza lavoro
9Foucault M. Op. cit., p.13.
10Ibidem, p. 29.
11Foucault M. Op. cit., p. 95.