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INTRODUZIONE
L’oggetto di questo lavoro è presentare la condizione esistenziale
del disabile intellettivo con particolare riferimento alla sua condizione di
vulnerabilità al Disturbo mentale evidenziandone nel contempo i riflessi
di rilievo clinico che in ambito psicopatologico vengono definiti con il
termine “Doppia Diagnosi”, termine che indica la contemporanea
presenza di un deficit cognitivo e di un disturbo mentale. Secondo la
psichiatria descrittiva, rappresentata dal DSM IV, si intende la presenza
di un disturbo sia sull’Asse I che sull’Asse II.
La condizione esistenziale del disabile si può descrivere come
fragile e vulnerabile fin dalla nascita: la sfida principale delle persone con
deficit cognitivo è rappresentata infatti dalla loro stessa esistenza segnata
fin dall’inizio da relazioni e da eventi che sono potenzialmente
traumatici. Non è facile per i genitori rendersi conto prima ed accettare
poi che il loro figlio sia così diverso da quello che si erano rappresentati:
è un bimbo imperfetto con il quale fanno fatica fin dall’inizio a
relazionarsi. La scoperta della menomazione darà luogo nei genitori ad
un lutto che richiederà molto tempo per essere elaborato. Nel
frattempo, il bambino sperimenta una relazione in cui i suoi bisogni di
rispecchiamento, di vicinanza e amore non vengono riconosciuti,
facendo così esperienza di una relazione rifiutante e quindi traumatica.
Stanghellini (2009) annovera tra i vari dispositivi di vulnerabilità anche il
trauma relazionale, cioè il mancato riconoscimento dei bisogni di
vicinanza e amore, la mancata conferma del diritto di esistere; in una
parola è traumatica l’assenza. Assenza che può essere concepita anche
come mancanza del desiderio dell’Altro. Secondo Lacan, lo statuto di
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soggetto si acquisisce solo attraverso lo sguardo, il desiderio dell’Altro: il
desiderio come desiderio dell’Altro mostra come il desiderio umano ha
una struttura relazionale. Esso proviene dall’ Altro e si dirige verso
l’Altro.
Nonostante siano molti i contributi teorici che sottolineano
l’importanza della relazione precoce genitore bambino, tuttavia il
modello teorico che pone un nesso tra le prime modalità relazionali e la
vulnerabilità alla patologia è la teoria dell’attaccamento di Bowlby.
Secondo questa teoria, la presenza di un caregiver disponibile e
rispondente ai segnali del bambino e che si prende cura dei suoi bisogni
(la base sicura) favorisce nel piccolo la fiducia di base che gli permetterà
di esplorare il mondo, sicuro dell’aiuto e della protezione della figura di
riferimento. Se tale esperienza relazionale di sicurezza è un fattore di
protezione nei confronti di eventuali disturbi emotivi, un eventuale
fallimento ambientale nella prima infanzia, gli attaccamenti insicuri,
devono essere considerati strategie di regolazione disfunzionali che
accrescono in maniera significativa la probabilità che un disturbo si
verifichi. La letteratura specialistica sottolinea, (Bakermans-Kranneburg
et al., 2003; Clements et al., 2002) come vi sia una maggiore frequenza,
nei bambini disabili, di stili di attaccamento disorganizzato ed insicuro
che rivestono un importante ruolo come fattore di rischio, nello
sviluppo della psicopatologia.
Da questa base di vulnerabilità iniziale, si sviluppa il percorso di
sviluppo di queste persone in un contesto ambientale ed ecologico che è
di per sé una sfida: ad iniziare dal contesto scolastico e dal gruppo dei
pari, per passare alle relazioni adulte ed al mondo del lavoro, il disabile
intellettivo si rende conto, in un modo e con una consapevolezza che
ancora devono essere approfonditi, che egli “non è capace come gli
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altri”, che le informazioni su di sé che gli altri gli rimandano, sono quelle
di un persona che non può reggere il confronto e quindi di un perdente.
Uno dei conflitti fondamentali che sperimentano i disabili è proprio
quello tra desiderio e incapacità: nonostante la forza dei loro desideri,
non riescono a reggere, in molti ambiti, il confronto con gli altri. Molto
spesso anzi vengono allontanati, abbandonati e trattati come dei reietti,
esponendoli così a vissuti di rifiuto, solitudine, rabbia, angoscia,
abbandono ed impotenza. La loro rabbia e la loro frustrazione spesso si
traducono in comportamenti aggressivi sia eterodiretti che autodiretti, i
“comportamenti problema”, nella cui genesi giocano un ruolo cruciale le
emozioni violente che essi sperimentano nel contesto sociale in cui
vivono e che diventano destrutturanti poiché non sanno comprendere,
padroneggiare e comunicare vissuti così soverchianti. A fronte di eventi
di vita oggettivamente difficili e problematici che metterebbero a dura
prova anche le capacità di coping delle persone più sane, questa
popolazione deve fare i conti, così come sottolineato da diversi autori,
con una struttura di personalità fragile ed insicura: essi non possono
avvalersi di una solida integrazione dell’identità essendo le loro
rappresentazioni del Sé e dell’oggetto instabili, i meccanismi di difesa
utilizzati sono primitivi e anche l’esame di realtà spesso conosce delle
incertezze. Si può perciò affermare che da una condizione di trauma
iniziale, la vita del disabile intellettivo si dispieghi in un contesto di
eventi e di vissuti traumatici, tanto da potere parlare di una condizione
di trauma cumulativo e reiterato.
La letteratura specialistica riconosce ormai da più di trent’anni la
vulnerabilità di questa popolazione nei confronti di problemi di carattere
emotivo che spesso conducono a veri e propri disturbi mentali. Studi
epidemiologici hanno rilevato che, nelle persone con disabilità
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intellettiva, i disturbi di ordine psichiatrico si verificano con un tasso
quattro volte superiore rispetto al resto della popolazione. Nonostante i
tassi epidemiologici confermino la vulnerabilità al disturbo psichico,
queste persone tuttavia hanno una minore possibilità di ricevere un
trattamento adeguato dal momento che spesso i loro disturbi mentali
vengono ricondotti semplicemente e banalmente al ritardo mentale,
tanto che alcuni autori hanno introdotto il termine di “eclissamento
diagnostico”. Il termine viene indicato per descrivere la paradossale
situazione in cui queste persone si vengono a trovare: pur essendo più
vulnerabili degli altri alla psicopatologia, non vengono riconosciuti come
malati e bisognosi di cure e quindi non vengono trattati dal momento
che i loro problemi emotivi tendono ad essere attribuiti al ritardo
mentale anziché ad una condizione più complessa ed articolata che
coinvolge la loro vulnerabilità psicologica e sociale.
Anche in tempi recenti (Rivard, Morin, 2010), la letteratura
specialistica denuncia la scarsezza di studi e ricerche e la mancanza in
questo ambito della ricerca in psicoterapia. Essa continua a lamentare il
fatto che i bisogni delle persone con disabilità intellettiva non sono
adeguatamente riconosciuti e presi in carico all’interno dei Servizi di
Salute Mentale e come sia necessario un training specifico per i clinici
che operano in questo ambito. Di fronte a questi problemi, la clinica ha
poche risposte da offrire forse perché questo ambito è ritenuto di scarso
interesse: questa affermazione è giustificata dalla scarsezza e dalla
frammentarietà di contributi nella letteratura specialistica, sia a livello
quantitativo che, in modo particolare, a livello qualitativo.
Anche gli psichiatri e gli psicologi italiani considerano le
manifestazioni psicopatologiche del disabile un’area marginale.
Nell’ambito della psichiatria, al congresso nazionale SIRM (Modena,
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2008), è stato sottolineato che, dato che le manifestazioni
psicopatologiche del disabile vengono considerate un’area marginale, la
ricerca sul trattamento continua ad essere inadeguata e si è lamentata
un’eccessiva approssimazione degli inquadramenti diagnostici.
Nell’ambito della psicoterapia, ad un recente seminario dell’Istituto
Italiano di Psicoterapia di Gruppo (Milano, 2012) è stata posta in rilievo
l’ignoranza sia teorica che pratica del sistema curante nonostante il fatto
che si sia assistito, negli ultimi anni, a una rivoluzione politico-culturale
sul modo stesso di concepire la disabilità, documentata da alcuni
documenti, tra i quali l’ICF (2001) e la Convenzione Onu sui diritti delle
persone con disabilità (2006). L’ICF, ponendo enfasi sui concetti di
attività e partecipazione, concepisce la disabilità in relazione ad un
ambiente esterno sfavorevole e non rispondente, sottolineando così gli
aspetti dinamici dell’interazione persona-ambiente. Nella Convenzione
Onu, ratificata dal Parlamento italiano, viene sancita, attraverso il
riconoscimento di tutti i diritti della Persona, l’uguaglianza in tutti gli
ambiti della vita, da quelli più personali a quelli rientranti nella sfera
sociale. Data questa cornice politica, legislativa e culturale, è tempo che
anche la clinica accetti la sfida e si prenda in carico gli aspetti psicologici
e la sofferenza connessa alla condizione di disabilità, accogliendo queste
problematiche con lenti che permettano di accostarsi alla vita psichica
del disabile come a quella di tutti gli uomini. (Cerabolini, seminario
I.I.P.G., Milano 2012).
Date queste premesse iniziali, anche il presente lavoro si è
presentato con le caratteristiche di una sfida: innanzitutto il reperimento
di materiale che non si limitasse solo a definire dati, individuare
interventi su comportamenti patologici, descrivere modalità di
intervento orientate unicamente sul sintomo o su un problema. La