INTRODUZIONE
Nell’ultimo decennio l’OMS, l’ONU, l’Unione Europea e gli Stati membri si sono mossi per
affrontare il fenomeno della disabilità, spingendo il mondo politico, economico e sanitario a
prestare sempre più attenzione al fenomeno. Nel 2006 a New York l’ONU ha stilato la convenzione
per i diritti delle persone con disabilità, con l’obiettivo di promuovere, tutelare e assicurare il pieno
rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali di tutte le persone portatrici di handicap.
Questa iniziativa, ratificata nel 2008, ha aperto la strada ad una lettura del fenomeno della disabilità
molto diversa da quella precedente, collocando il problema entro l’ambito dei diritti umani. La
disabilità non è, quindi, più un problema sociale, ma un fenomeno che implica la necessità di
tutelare quegli inalienabili diritti che l’ONU aveva delineato nel 1948 con la “Dichiarazione
Universale dei Diritti Umani”. Ogni uomo ha gli stessi diritti degli altri, come viene sottolineato
nell’art.1 : quindi, ad esempio, ha diritto al lavoro (art.23) e all’istruzione (art.26). Con la
convenzione del 2006 si viene a sottolineare ciò che può apparire scontato, ma non lo è: il disabile
è, prima di tutto, una persona come gli altri e come gli altri ha dei diritti, che non possono essergli
negati sotto il pretesto della sua disabilità.
Anche l’UE aveva già attivato un Piano d’Azione settennale nel 2003 per la lotta alla
discriminazione e la promozione delle pari opportunità delle persone con disabilità in molti ambiti:
giustizia, trasporti, lavoro, politica sociale e sanitaria, ICT , in linea con la successiva convenzione
ONU del 2008. L’integrazione è quindi un punto centrale della politica europea che si declina
attraverso la promozione della partecipazione attiva delle persone disabili soprattutto per quanto
riguarda l’ambito professionale, l’accessibilità e l’autonomia personale.
Una delle indicazioni della UE, ad esempio, per promuovere l’integrazione delle persone disabili, si
declina attraverso la possibilità di trovare delle strategie per favorire l’inserimento lavorativo.
Infatti, per loro la probabilità di restare inattivi è più del doppio rispetto alle altre persone, come
messo in evidenza dall’Unione Europea . La disabilità, di conseguenza, toccando circa il 15% della
popolazione in Europa, incide in maniera significativa sull’economia di un paese non solo per il
costo di prevenzione, cura, riabilitazione e assistenza che comporta, ma anche per l’incidenza che
ha sulla produttività di un paese, come messo in evidenza anche dall’OMS.
L’Italia ha ratificato la convenzione ONU nel 2009 e possiede una normativa tra le più moderne in
questo ambito: la legge quadro 104/92 (Cendon, 1997) che regola l'assistenza, l'integrazione sociale
7
e i diritti delle persone handicappate. Questo fenomeno tocca circa il 15% della popolazione
europea, pari a circa 50 milioni di persone. In Italia i disabili visivi sono poco meno di due milioni,
che l’UIC
1
stima a trecentomila ciechi e un milione e mezzo di ipovedenti gravi, che rappresentano
circa il 3% della popolazione
2
. Dai dati ISTAT risulta che solo il 20% degli adulti è occupata o in
cerca di lavoro, contro il 75% delle persone senza disabilità, e questo comporta un basso tasso di
occupazione per questa categoria, nonostante questi – ciechi e ipovedenti - abbiano una maggiore
facilità di inserimento rispetto ad altri tipi di disabilità.
Vogliamo, allora, tentare di fornire delle coordinate economiche del fenomeno fin qui delineato,
consapevoli dell’imprecisione e ipoteticità di quanto proposto. Il fenomeno della disoccupazione dei
portatori di disabilità visiva incide per il costo delle pensioni di invalidità per circa 9 miliardi di
euro l’anno. Inoltre a questa cifra si deve sommare il costo per la mancata produzione di beni che
l’attività lavorativa comporta, che si può stimare ipoteticamente a circa 25 mila euro lorde a
persona, per un totale di 36 miliardi di euro l’anno. Indubbiamente se si considera solo il costo delle
pensioni di invalidità il problema disabilità visiva incide per lo 0.6% sul PIL (stimato a 1500
miliardi di euro nel 2006), ma se consideriamo anche un’ ipotetica perdita di reddito per il mancato
inserimento nel ciclo produttivo della popolazione attiva il valore sale al 3%, vale a dire cinque
volte tanto.
Tra i molteplici strumenti che favoriscono l’integrazione delle persone disabili vi è il processo di
riabilitazione, che ha come obiettivo di fornire “gli strumenti necessari all’indipendenza e
all’autodeterminazione” . I quali dovrebbero consentire il raggiungimento ed il mantenimento di
“uno stato ottimale a livello fisico, sensoriale, intellettuale, psicologico e sociale” per favorire
l’integrazione sociale delle persone disabili.
In questa logica l’inserimento socio-lavorativo dei disabili viene considerato, un elemento
importante per l’economia di un paese e con esso il processo riabilitativo, che fornisce gli strumenti
per la sua attuazione, come messo in evidenza dall’OMS, dall’ONU, dall’Unione Europea e dal
Ministero del Lavoro e delle politiche sociali. Il medesimo processo di riabilitazione, peraltro,
risulta un elemento fondamentale per il miglioramento della qualità della vita, poiché fornisce
quegli strumenti, che consentono alla persona disabile e alla sua famiglia di adattarsi in modo più
1
Unione Italiana Ciechi
2
I dati dell’ISTAT non coincidono né con le stime europee né con quelle dell’UIC. Esse valutano che l’intera
popolazione disabile in Italia sia di circa tre milioni di persone, vale a dire meno del 5% della popolazione. Riteniamo
che questa cospicua discordanza tra i dati sia dovuta al metodo e alle fonti usate per il rilevamento.
8
efficace al contesto in cui vivono, contribuendo, così, in modo indiretto al benessere generale della
società.
Il servizio di riabilitazione viene oggi svolto prevalentemente in strutture sanitarie, o in strutture
accreditate presso il Sistema Sanitario Nazionale, e negli ultimi venti anni si è visto come la qualità
del servizio erogato in questo ambito non possa prescindere dalla presa in considerazione dei
bisogni dei propri clienti (Donabedian, 1980; Zeinthaml, Parasuraman, Berry, 1990; Loiudice,
1998; Morganti, 1998). Con i recenti cambiamenti delle politiche per la disabilità ad essere
interessati al prodotto dei servizi di riabilitazione non sono più solo i disabili e le loro famiglie, ma
indirettamente anche l’Italia, l’UE, l’ONU e l’OMS. La richiesta però si è modificata: se
inizialmente c’era meno enfasi sull’integrazione lavorativa, oggi questa diventa un elemento chiave
dei diritti della persona disabile in quanto non solo ne favorisce l’integrazione, ma anche l’
autonomia economica e sociale. I centri di riabilitazione si trovano quindi confrontati ad una nuova
sfida: come organizzare il proprio servizio per favorire lo sviluppo di quelle competenze che
consentiranno alla persona con disabilità non solo di possedere quegli strumenti necessari per una
vita autonoma ed indipendente, ma di declinarli in modo da favorire la possibilità di integrazione
lavorativa. In questo senso il processo di riabilitazione fornisce gli strumenti per poter avere pari
opportunità.
Ci sembra, allora, interessante pensare al contributo che la psicologia clinica può offrire in questo
ambito, dando conto di come il fattore umano influenzi la maniera di mettere in atto l’intervento
riabilitativo, organizzando uno specifico servizio che consenta o meno di raggiungere il prodotto
prestabilito. La ricerca che qui proponiamo, infatti, ha come scopo l’esplorazione della
rappresentazione che gli operatori di un centro di riabilitazione per persone con disabilità visiva,
hanno dei propri clienti. Poiché questa organizza il modo con il quale gli operatori leggono il
problema, individuano le strategie di intervento e raggiungono uno specifico prodotto piuttosto che
un altro. Esplorare le rappresentazioni presenti in un contesto riabilitativo consente di conoscere il
fenomeno e, contemporaneamente, di individuare possibili strategie di sviluppo che favoriscano
l’integrazione delle persone con disabilità visiva. La ricerca è stata condotta presso il Centro di
Riabilitazione del S. Alessio, rinomata e antica struttura che, da oltre un secolo, si occupa di
disabilità visiva. I trentaquattro operatori sono stati intervistati e le interviste integralmente trascritte
e sottoposte ad analisi del testo: i risultati sono stati discussi nell’ultimo capitolo.
Questa tesi si articola in tre parti: una prima, nella quale sono trattate le premesse epistemologiche e
teoriche che sostanziano e rendono conto delle scelte metodologiche e degli strumenti usati per
9
realizzare il lavoro di ricerca. Una seconda in cui si analizza il contesto storico sociale e culturale
entro il quale il Centro di Riabilitazione del S. Alessio si colloca e una terza parte che si suddivide
in due capitoli: il settimo, in cui si rende conto delle scelte fatte per realizzare la ricerca, dei dati
raccolti e della loro analisi, e l’ottavo in cui i risultati vengono discussi e le conclusioni tirate.
Nel primo capitolo sono stati tracciati i punti di riferimento epistemologici e teorici che hanno
supportato le scelte metodologiche, delineando in tal modo quello che riteniamo essere l’oggetto di
studio della psicologia clinica. Questo perché riteniamo che la qualità scientifica della conoscenza
sia rintracciabile nella coerenza con cui è possibile rendere conto di quanto si sia voluto realizzare a
partire dalle teorie e dai modelli usati. Infatti, pensiamo che l’atto stesso di esplorare un fenomeno
entro una prospettiva psicologico-clinica non possa prescindere dalla necessità di esplicitare quali
siano gli ancoraggi che hanno organizzato il lavoro. Questo perché riteniamo che le premesse e le
scelte teoriche sono indissolubilmente legate alla prassi, cioè alla metodologia e alle tecniche usate,
al contesto entro cui l’osservazione ha luogo, all’oggetto nonché ai risultati che si intende ottenere.
In questa prospettiva, la scelta del modello teorico non è casuale o legata alle proprie preferenze,
bensì è legata al tipo di problema che ci si pone.
Nel secondo capitolo è stato descritto il ruolo della cultura nell’organizzare e dare senso alla
percezione e, in particolar modo, alla percezione visiva. Infatti, la conoscenza del mondo attraverso
la percezione è un processo complesso che rileva solo parzialmente dalla fisiologia. Gli antropologi
ci hanno mostrato come ogni cultura ha un suo modo specifico di considerare i sensi e le
informazioni che da esso derivano, di organizzare la percezione e di darle importanza. Ogni senso
ha quindi un valore, legato alla sua capacità di favorire praticamente l’adattamento, ma è anche in
relazione al valore che ad esso viene attribuito. Il senso della vista nel corso dei secoli e ancora oggi
prevale rispetto agli altri sensi nella cultura occidentale: essere privi di questa risorsa non rileva
della semplice assenza di una funzione, ma di tutta quella dimensione simbolica e valoriale che
l’accompagna.
Il terzo capitolo riguarda la disabilità in senso generico. Per comprendere come questo fenomeno
viene immaginato nella nostra società si è ripercorsa l’evoluzione della rappresentazione della
disabilità nei secoli soffermandoci sulla nostra epoca. E stata inoltre trattata come viene definita la
disabilità sia in ambito sanitario, attraverso l’analisi dell’evoluzione della sua classificazione
internazionale, sia in ambito giuridico, attraverso l’analisi della legge che regola questo fenomeno.
Nel capitolo quarto è stato trattato il tema della rappresentazione della disabilità visiva nella cultura
occidentale. Una rappresentazione che sembra vedere il cieco come un minorato, incapace di
10
adattarsi all’ambiente, poiché ciò che ha perso è la capacità di percepire il mondo. Come i bambini
è indifeso e richiede cure, ma a differenza di essi sembra non poter crescere e diventare autonomo e
indipendente. Infatti, lo sviluppo degli altri sensi non sembra essere visto come qualcosa di
facilmente raggiungibile o consueto.
Nel capitolo quinto sono stati tracciati brevemente i quadri clinici del deficit visivo, che spesso
viene categorizzato dicotominamente come presenza-assenza della vista. Quest’ultima viene spesso
paragonata alla vista ad occhi chiusi che, di fatto, non è paragonabile all’assenza della percezione.
Abbiamo quindi provato a realizzare un quadro delle molteplici forme che comportano la disabilità
visiva, dalla riduzione del visus a quella del campo visivo, dalla patologia dell’occhio al danno
cerebrale. Inoltre è stata realizzata una panoramica del fenomeno a livello internazionale per
comprenderne l’entità e le implicazioni.
Il capitolo sesto riguarda i centri di riabilitazione: come sono nati i primi centri, la storia del S.
Alessio e il suo funzionamento, nonché la resocontazione della nostra esperienza di un rinomato
centro di riabilitazione di Parigi, il CRPM, che ci ha fornito di parametri per comprendere il
funzionamento del centro sul quale è stata realizzata la ricerca. In questo capitolo sono state inoltre
analizzate le molteplici definizioni del processo, che rimandano a un modo diverso di
rappresentarlo.
11
Cap 1 Quadro teorico
Primum significare deinde vivere: “…non si può vivere […] senza significare le condizioni che
rendono possibile l’esistenza” (Fornari, 1979, p.45)
Il presente lavoro nasce dall’interesse ad esplorare quale contributo la psicologia clinica può offrire
al processo di integrazione socio-lavorativa delle persone con disabilità visiva. A tale scopo
riteniamo utile rendere conto della prospettiva teorica psicologico-clinica di matrice socio-
costruttivista e a orientamento psicodinamico, che ci ha orientato nella ricerca. Questo capitolo,
quindi, non è stato pensato come rassegna, o come sintesi, dei molteplici contributi teorici in questo
ambito, né intende essere esaustivo in proposito.
Il nostro scopo è di tracciare i punti di riferimento epistemologici e teorici che hanno supportato le
scelte metodologiche per arrivare a delineare quello che noi riteniamo essere l’oggetto di studio
della psicologia clinica. Questo perché riteniamo, con Giannone e Lo Verso (1998), che “la qualità
scientifica della conoscenza […] può correttamente essere riferita alla coerenza di cui è possibile
rendere conto, tra le teorie e i modelli utilizzati, l’operazionalità messa i atto, i risultati ottenuti e
tutto questo in relazione a specifiche situazioni contestuali nelle quali l’osservazione ha luogo” (p.
25).
Infatti pensiamo che l’atto stesso di esplorare un fenomeno entro una prospettiva psicologico-clinica
non possa prescindere dalla necessità di esplicitare quali siano gli ancoraggi che hanno organizzato
il lavoro. Questo perché riteniamo che le premesse e le scelte teoriche sono indissolubilmente legate
alla prassi, cioè alla metodologia e alle tecniche usate, all’oggetto nonchè ai risultati che si intende
ottenere. In questa prospettiva la scelta del modello teorico non è casuale o legata alle proprie
preferenze, bensì è legata al tipo di problema che ci si pone. Tra bisogni del contesto e ricerca è
rilevante che vi sia un legame, non teso alla ricerca della verità, ma alla soluzione di problemi. In
questa prospettiva, quindi, la ricerca ha senso quando è utile.
La scelta della prospettiva e del modello teorico che qui proponiamo, di conseguenza, è legata al
bisogno di integrazione delle persone con disabilità che, in questo momento, la nostra società
esprime attraverso la promulgazione di norme, la formulazione di piani di intervento nazionali e
internazionali e lo stanziamento di fondi. I paesi occidentali sembrano aver colto il problema e aver
cercato una possibile soluzione attraverso l’individuazione di nuove politiche nazionali e
15
internazionali. Leggere questa richiesta è, a nostro avviso, compito della professione psicologico-
clinica, che in proposito può offrire un interessante contributo.
Come abbiamo precedentemente detto nella introduzione uno dei molteplici elementi che possono
favorire l’integrazione delle persone adulte con disabilità visiva è il processo di riabilitazione.
Questo, infatti, offre la possibilità di costruire ed organizzare quelle strategie che consentono
l’autonomia e favoriscono l’indipendenza. Il processo viene proposto dagli operatori che
possiedono una propria idea sul problema e sulle strategie ottimali per risolverlo. Tale idea è in
relazione con la cultura di quella specifica società, di quella particolare categoria professionale e si
declinerà entro un contesto che ha una propria storia e cultura legate all’organizzazione entro la
quale il processo viene organizzato.
Quanto fin qui detto è teso a mettere in evidenza come i protocolli di intervento pensati per la
riabilitazione, proprio perché attuati da persone e filtrati attraverso il loro particolare modo di
costruire la realtà, non comportano automaticamente il raggiungimento degli obiettivi che si
prefiggono. Tra il protocollo e il risultato vi è, quindi, il fattore “umano”, l’interpretazione
dell’individuo. Questo fattore è inerente ai processi inconsci che organizzano le relazioni entro i
gruppi sociali a partire da come le persone rappresentano la realtà.
Per studiare in che modo il processo di riabilitazione possa essere lo strumento per favorire
l’integrazione sociale e lavorativa delle persone con disabilità visiva e quale contributo la psicologia
clinica possa fornire, riteniamo utile posizionarci a livello teorico, esplicitando quale prospettiva
guidi il nostro lavoro, poiché essa condizionerà le nostre scelte, il nostro operare, il prodotto della
ricerca e il suo utilizzo.
1.1 La costruzione della conoscenza e il paradigma della complessità
Secondo l’epistemologia tradizionale, che ha dominato la ricerca nel secolo scorso e che trova i suoi
presupposti nel pensiero classico e moderno, il mondo viene visto come permanente, immutabile e
universale. Secondo questa prospettiva, la realtà è unica, conoscibile e definibile e i fenomeni
possono essere studiati nelle loro caratteristiche peculiari a prescindere dallo specifico contesto
(Morin, 1977; Giannone, Lo verso, 1998). La validazione delle scoperte viene quindi assunta come
criterio di spiegazione e scientificità o, al limite, di falsificazione (Popper, 1972).
16
La scienza procede attraverso l’accumulazione graduale di osservazioni e di ipotesi verso la
conoscenza della realtà. Le teorie offrono differenti spiegazioni dei fenomeni osservati e questo
consente di poter fare delle previsioni. Previsioni che possono essere verificate attraverso la
sperimentazione, processo al quale viene attribuita funzione di stabilire la correttezza del modello
teorico. L’idea di scienza come descrizione e spiegazione della realtà condotta da una posizione
esterna e neutrale del ricercatore, però, è gradualmente entrata in crisi, a partire dalle scoperte della
fisica all’inizio del secolo scorso.
In quel periodo entra in crisi il modello newtoniano che spiega i fenomeni luminosi: ora sono
necessarie due teorie per spiegare lo stesso fenomeno, una corpuscolare e un’altra ondulatoria.
Inoltre, Heisenberg, dimostrando che l’elettrone devia la propria traiettoria quando l’osservatore lo
irradia con un fascio di luce per studiarlo, mette in discussione la neutralità dell’osservatore. Di
conseguenza la sua posizione, i modelli teorici e la metodologia utilizzati diventano elementi che
cominciano a non essere più dati per scontati (Kuhn, 1962; Morin, 1986; 1982; Greenberg,
Mitchell, 1983; Grasso, Cordella, Pennella, 2003).
A partire dalla metà del secolo scorso, quindi, questa visione della scienza viene messa in
discussione e ne viene proposta una alternativa, che riconsidera la relazione tra scienza e realtà.
Interessante, a questo proposito, è l’analisi che Thomas Kuhn (1962) propone del processo di
formazione e alternarsi dei paradigmi, cioè dell’insieme dei principi che regolano la conoscenza.
Per l’autore la scienza si colloca necessariamente entro uno specifico contesto storico e culturale. I
vari modelli di scienza, infatti, si avvicendano nel corso del tempo e si modificano in funzione della
loro capacità di fornire risposte alle esigenze che emergono in uno specifico contesto professionale
e in un particolare momento storico. Questi modelli si basano su premesse che non possono essere
verificate e che presiedono e organizzano l’interpretazione della realtà. La verità, di conseguenza, è
inconoscibile.
Per Kuhn alcuni paradigmi sono alla base delle teorizzazioni e delle osservazioni per un certo
periodo di tempo e determinano sia quali dati siano significativi, sia quali metodi siano validi e
quale relazione esista tra osservatore e oggetto osservato. In una fase iniziale, i paradigmi essendo
modelli di realtà presi per “verità”, ispirano “fedeltà” e gli operatori sono sottoposti alla loro
influenza. Con il passare del tempo, però, cominciano ad emergere nuovi dati, che entrano in
conflitto col paradigma esistente. Le risposte a questo problema sono diverse: una parte della
comunità resta fedele al paradigma classico, un’altra cerca di modificarne i confini per integrarvi i
nuovi elementi e un’ultima si distacca, formulandone uno nuovo. Il rinnovamento, con il passare del
17
tempo, è inevitabile e comporta la scomparsa del vecchio paradigma e il dominio di uno nuovo, in
funzione del consenso che quest’ultimo riscuote in quel momento storico, in quello specifico
contesto sociale. Un elemento che ci sembra interessante sottolineare è che, in questa prospettiva, la
verità è tale solo se condivisa dalla comunità scientifica, essendo di fatto una costruzione
intersoggettiva socialmente e culturalmente connotata (Morin, 1977; Giannone, Lo Verso, 1998)
La concezione classica della scienza, come ha messo in evidenza Morin (1977), si è basata sul
paradigma della semplificazione, che disconosce tutto ciò che non è lineare. Perché una scienza sia
tale, si deve basare sul metodo sperimentale, il quale ha come oggetto di studio un elemento
“semplice”, isolato dal suo contesto. In questa prospettiva la realtà è unica, regolare e ripetibile e, di
conseguenza, può essere espressa attraverso leggi generali. Solo il pensiero razionale consente di
accedere ad essa e, per fare ciò, l’osservatore deve essere esterno e neutrale. In questa ottica, la
presenza di un errore non fornisce informazioni, ma è un elemento che si deve tenere sotto
controllo, poichè può inficiare il processo di conoscenza.
Nel secolo scorso, il paradigma della semplificazione ha regolato lo sviluppo della psicologia
scientifica, che si è declinata come scienza dell’individuo, il quale percepisce la realtà senza
alterarla e possiede specifiche caratteristiche intrinseche che lo contraddistinguono. I
comportamenti, quindi, vengono visti come il frutto di dimensioni intraindividuali e soggettive, per
le quali il contesto non è rilevante. Sono altresì individuate delle categorie di senso comune per
descrivere le variabili che caratterizzano il fenomeno. In questa prospettiva, non è necessario
rendere conto delle premesse che fondano il processo di conoscenza, in quanto sono auto-evidenti,
poiché la realtà è unica, oggettiva e conoscibile e i fenomeni sono universali, regolari e astorici
(Grasso, Salvatore, 1997; Giannone, Lo Verso, 1998; Montesarchio, Venuleo, 2009).
Sebbene questa prospettiva sia ancora largamente usata, riteniamo opportuno puntualizzare come
sempre più spesso tali premesse siano state messe in discussione nella prospettiva epistemologica
post-moderna. Questa a partire da un’analisi critica dei criteri della scienza classica, promuove un
paradigma della scientificità complessa. Come Morin mette in evidenza nel primo saggio sul
Metodo del 1986: “Il semplice è solo un momento arbitrario di astrazione, un mezzo di
manipolazione sradicato dalla complessità.” (p. 193). Per l’autore la realtà è ineguale, complessa e
caotica e l’uomo la organizza, attribuendo a questa costruzione il significato di realtà e nel fare
questo elimina tutto ciò che è strano e incomprensibile. Questa complessità viene, quindi,
organizzata in quelli che l’autore definisce “sistemi” che sono le unità di base della complessità.
18
Un fenomeno non è riducibile né alle parti di un sistema, né al sistema stesso, che, al contempo, non
può essere trattato come un insieme indivisibile. Sebbene questo sia un insieme di parti in relazione
tra loro, il tutto è più della somma delle parti e di conseguenza non ha senso scomporre l’insieme
nei suoi elementi costitutivi per studiarlo. Per usare le parole dell’autore “il sistema ha preso il
posto dell’oggetto semplice e sostanziale, e si oppone alla riduzione ai suoi elementi; la catena di
sistemi spezza l’dea di oggetto chiuso e autosufficiente. I sistemi sono sempre stati trattati come
oggetti: d’ora in poi si tratta di trattare gli oggetti come sistemi” (p.129).
Nel costruire un modello della realtà, quindi, è importante tenere conto della complessità di ciò che
si sta organizzando e del fatto che non esiste in natura un fenomeno isolato dal suo contesto e dagli
altri sistemi ad esso connessi. Ad esempio ciò che viene raccontato allo psicologo dal suo paziente
nel qui e ora è connesso al là e allora della sua esperienza, ma, allo stesso tempo, la ricostruzione
che ne farà il paziente sarà legata a ciò che vuole suscitare nello psicologo. Il processo di narrazione
si viene così a configurare come un processo di elaborazione e costruzione della realtà legata allo
specifico contesto in cui viene organizzata. In questo processo lo psicologo, a sua volta, attiverà un
processo di costruzione analogo per interpretare e dare senso al racconto del suo interlocutore. Di
conseguenza, la prospettiva che adottiamo, il sistema che prendiamo in considerazione, ci porta a
interpretare la realtà dandole senso e condizionando ciò che sarà possibile conoscere. Inoltre, il
modo con il quale si organizza la conoscenza è solo uno dei modi possibili di organizzarla.
Nella prospettiva epistemica complessa, quindi, tutto ciò che è relativo alla propria soggettività non
va eliminato come fonte di errore, ma è parte integrante del fenomeno di cui chi osserva fa parte. In
questa prospettiva l’oggetto è la risultante della relazione istituita entro quello specifico contesto tra
il soggetto osservante e l’oggetto da conoscere. L’atto stesso di osservare mette in relazione e
sollecita sia ciò che si desidera conoscere, sia lo psicologo stesso, essendo entrambi portatori di
informazioni (Grasso, Cordella, Pennella, 2003). Se la psicologia clinica è un processo di
conoscenza (Telfener, 1995) attuato dallo psicologo nei confronti di un fenomeno complesso,
prestare attenzione all'epistemologia diventa un elemento fondamentale, che condiziona non solo
l’impianto teorico, ma anche le scelte metodologiche e tecniche (Di Maria, Giannone, 1998;
Pennella, 2008). Questo comporta che la scelta del paradigma è diventa determinante per la prassi
psicologico-clinica.
Alla tradizione moderna, considerata forte in psicologia, quindi, se ne è affiancata un’altra definita
debole, di tipo storico-culturale, per la quale non è possibile una conoscenza diretta della realtà. In
questa prospettiva la conoscenza è una delle possibili interpretazioni del mondo che esperiamo e
19
non un dato oggettivo. L’oggetto della conoscenza è complesso, vale a dire che, sebbene sia
composto da elementi in relazione tra loro, non è riducibile ad essi, né è possibile trattare l’insieme
di questi elementi come un oggetto unico. L’oggetto deve mantenere la sua complessità e, di
conseguenza, nel processo di costruzione della realtà, diventano rilevanti le interazioni e il carattere
locale e contestuale del fenomeno. Per usare le parole di Pennella "lo psicologo sarà quindi
convinto che, nonostante la rigorosità del proprio tentativo di comprensione, egli non potrà mai [...]
credere di averlo compreso in modo definitivo e completo" (Pennella, 2008, p. 45).
Quanto fin qui detto non è teso a svalutare il metodo delle scienze naturali, che, come mette in
evidenza Di Nuovo (1995), ancora oggi viene utilizzato con profitto in psicologia, soprattutto per
gestire fattori esterni agli organismi, quali stimoli, risposte e condizioni. Piuttosto, si tende a
sottolineare come l’oggetto di studio della psicologia clinica siano i fattori interni, i quali dipendono
dalla relazione tra soggetto conoscente e oggetto da conoscere e, per la comprensione dei quali, la
sperimentazione può offrire solo un contributo parziale. Indubbiamente, come sottolinea Di Nuovo
(2007), questo comporta una difficoltà a rintracciare un equilibrio tra il rigore metodologico e la
particolarità dell’oggetto di studio. Prestare attenzione all’epistemologia diventa, perciò, un
processo necessario ad esplicitare quelle premesse che, come abbiamo precedentemente delineato
condizionano il prodotto dell’attività psicologico clinica.
1.2 La costruzione della realtà in psicologia
Il cambiamento epistemologico post-moderno si è accompagnato allo sviluppo del paradigma socio-
costruttivista, che parte dall’assunto che la conoscenza, l’esperienza e l’adattamento siano
caratterizzati dalla partecipazione attiva dell’individuo alla costruzione del proprio mondo. Ciò gli
consente di avere delle aspettative, che organizzano il comportamento in modo adattivo al contesto.
Già Dewey nel 1910 aveva sottolineato che l’anticipazione è il principio generale dei processi
psicologici. Anticipando gli eventi, le persone definiscono il contesto, il senso di ciò che in esso si
verifica, nonchè il comportamento che è meglio adottare.
Nella metà del secolo scorso Kelly (1955), il capostipite della prospettiva costruttivista, sottolineava
come l’anticipazione funzionasse non solo come elemento predittivo, ma anche come fattore di
controllo. Nel predire il realizzarsi di un evento, infatti, gli attori istituiscono dei significati, che
organizzano il prodursi, o riprodursi, di altri eventi e che, contemporaneamente, ne controllano
l’avverarsi. Anticipare, quindi, acquista il valore di costruzione degli eventi, poiché il significato
20
non risiede negli eventi stessi, specchio della realtà, ma nel senso che ad essi viene attribuito e
quindi alla loro costruzione. I costrutti sono, di conseguenza, dei significati soggettivi e non
universalmente definibili, perché non corrispondono ad un'unica realtà conoscibile in quanto tale,
ma sono costruiti dall’attore stesso (Ugazio, 1998; Guidi, 2009). La realtà non si trova “fuori”;
dovendo essere solo compresa (Berger, Luckmann, 1966), ma è un processo autoreferenziale, il
quale riflette sempre il modo di ordinare la realtà del sistema conoscitivo che lo formula. "Il
costruttivismo è la proposizione secondo la quale tutte le percezioni e i pensieri umani sono una
costruzione piuttosto che un riflesso diretto della realtà esterna in quanto tale" (Gill, 1994, p. 1), una
modalità attraverso la quale l’individuo ordina la realtà individuando regolarità. In questo senso non
esiste “la realtà”, ma l’utilità (Grasso, Salvatore, 1997; Ugazio, 1998).
Il costruttivismo, però, si focalizza sull’uso che gli attori fanno dei modelli che organizzano la
conoscenza del mondo e non sul processo che li genera, né sul loro funzionamento. In questo senso
la prospettiva psicosociale europea ha offerto un contributo interessante, integrando la prospettiva
interazionista, per la quale il comportamento degli individui è il risultato del significato che essi
attribuiscono all’interazione sociale, a quella costruttivista e sottolineando la dimensione
fondamentalmente sociale dei processi cognitivi (Ugazio, 1998).
La Social Cognition europea, quindi, deriva da quella americana e vede in Mead e Lewin i suoi più
illustri esponenti. Il comportamento umano è, in quest’ottica, l’esito di un processo sia cognitivo
che sociale. Gli esseri umani agiscono nei confronti delle cose a partire dal significato che
attribuiscono loro, significato che è intersoggettivamente condiviso attraverso un processo ricorsivo
di costruzione e ricostruzione di senso (Mead, 1934) . Ogni attività sociale comporta un processo di
significazione della stessa negli attori che ad essa partecipano. Gli individui filtrano l’esperienza
fatta entro il proprio contesto e la organizzano sotto forma di modelli che mediano la conoscenza,
modificando così gli schemi usati per conoscere la realtà. La prospettiva socio-costruttivista mette,
quindi, in risalto la valenza semiotica dei modelli interpretativi costruiti socialmente, che sono il
risultato dell’incessante attività di scambio entro uno specifico contesto e la cui funzione è quella di
orientare gli attori entro lo stesso.
A differenza della corrente americana, da cui si distingue negli anni settanta, la prospettiva europea
non cerca di individuare le invarianti “presociali” che organizzano la conoscenza in modo generico
e acontestuale (Ugazio, 1998), ma considera l’uomo un essere sociale, che genera, modifica e ricrea
la società attraverso l’interazione e il cui comportamento individuale acquista senso entro il gruppo
che lo genera (Mead, 1934). La società è quindi un insieme di individui, articolato e stratificato in
21