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DEFINIZIONI PRELIMINARI.
necessario dare una definizione chiara e breve a termini che verranno
usati con una certa frequenza nel corso della narrazione.
Tali concetti riceveranno una maggior esposizione ed analisi nel prosieguo.
Spazio aereo: area compresa tra il suolo e dell’orbita più bassa a cui un satellite
può orbitare attorno alla terra. Spazio che va dal livello del mare a circa 100 km
di altitudine, limite in cui si è soliti passare dal termine “aeronautico” al
termine “astronautico”. Secondo la Convenzione di Chicago 1949, lo spazio
aereo si divide in nazionale, al di sopra di uno Stato titolare della sovranità su
di esso, ed internazionale, come per esempio lo spazio aereo in alto mare.
Operazioni aeree o missilistiche: operazioni militari in conflitti armati, od in
guerra, che coinvolgono l’uso di qualsiasi tipo di mezzo aereo o missile, sia in
difesa che in offesa, sia al di sopra che al di fuori del territorio di uno Stato
belligerante.
Rientrano nella categoria sia la fase in cui il velivolo od il missile sono in volo,
sia gli atti connessi svolti a terra.
Mezzo Aereo: nel prosieguo, il termine “mezzo aereo” verr{ usato nel senso più
ampio, comprendendo: aeroplani, dirigibili, aerostati, palloni, UAV
(unmanned aerial vehicles), alianti.
Missile: armi semoventi senza pilota, da crociera, o balistici, lanciati da aerei,
navi, o da basi a terra. Mentre i missili da crociera sono guidati es. con
segnatura all’infrarosso, con sistema GPS ecc, i missili balistici non sono
guidati, ma sfruttano la curvatura della terra e la forza di gravità per
È
11
DIRITTO INTERNAZIONALE DEI CONFLITTI ARMATI AEREI
raggiungere l’obiettivo. Rientrano nella categoria missili aria-aria, terra
(acqua)-aria, e aria- terra (acqua) e acqua-terra.
Guerra aerea/conflitti armati aerei: vedremo in seguito la differenza tra guerra
a conflitto armato, però in prima approssimazione, rientrano in queste
categorie: il duello aereo, il bombardamento aereo, le operazioni di navi contro
aeromobili, le azioni di truppe aviotrasportate, le operazioni missilistiche. Il
diritto internazionale dei conflitti armati tende invece a considerare nell’alveo
del diritto del diritto navale, le operazioni che coinvolgono aerei contro navi e
lo status degli aeromobili appontati su portaerei. Tuttavia la distinzione è
spesso artificiosa e non è universalmente accettata.
Ius ad bellum: è la parte del diritto internazionale di pace che regolava il
diritto all’uso della forza armata. Con l’entrata in vigore della Carta Onu, tale
categoria dottrinale è entrata in profonda crisi, tanto che per parte della
dottrina è un termine privo di attualità.
Ius in bello – Diritto internazionale umanitario-Diritto internazionale dei
conflitti armati
1
: è la sezione del diritto internazionale di guerra che si occupa
di disciplinare il modo con cui i belligeranti esercitano la forza. Comprende
anche l’insieme delle norme di diritto internazionale che riguardano la
protezione delle cosiddette vittime dei conflitti armati. Comprende sia il
diritto dell’Aja che il diritto di Ginevra
2
. Importante è sottolineare che il diritto
internazionale umanitario non ha a che fare con i diritti umani.
1
Sostanzialmente i tre termini sono sinonimi per identificare la stessa cosa. Ius in bello è la
dicitura più arcaica, diritto internazionale umanitario è quella più di moda dopo Ginevra 1949,
diritto internazionale dei conflitti armati è la forma usata da coloro che sostengono che
l’aggettivo “umanitario” non sia solo un modo per addolcire il ramo del diritto incaricato di
dare un senso alla conduzione delle ostilità, ma causi anche un inevitabile collegamento per
assonanza coi diritti umani, che c’entra poco con i problemi in questione. Con buona pace
delle distinzioni capziose, e degli eufemismi naif, i tre termini verranno usati come sinonimi.
2
J.Dinstein, “The conduct of hostilities under the Law of international armed conflict”, second
edition, Cambridge University press, 2010. Pag 18-19. Secondo Dinstein, che peraltro rifiuta la
nomenclatura “diritto internazionale umanitario”, così come “ius in bello”, in favore di “diritto
dei conflitti armati internazionali”, non si può oggi tracciare una linea divisoria tra
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Consuetudine internazionale: fonte primaria del diritto internazionale che
vincola tutti gli Stati a prescindere da ratifiche o sottoscrizioni. Le
consuetudini internazionali sono il frutto di due elementi: uno oggettivo, la
diuturnitas, e uno soggettivo o psicologico, l’opinio iuris et necessitatis. Con il
primo si intende la ripetizione generale e costante nel tempo di un
determinato comportamento. Il secondo consiste invece nella convinzione, o
nell’opinione che il comportamento in questione sia reso obbligatorio
dall’esistenza di una norma che lo richiede
3
4
. Sulla questione spiega Luzzatto:
“i soggetti che assumono un ruolo particolarmente attivo nell’attuare i
comportamenti considerati, lo fanno indubbiamente con il preciso intento di
promuovere la modificazione del diritto vivente nel senso voluto, mentre
coloro che prestano acquiescenza o comunque si allineano possono essere
mossi, più che dalla convinzione che si tratti di un comportamento previsto da
una norma, dalla semplice persuasione di essere di fronte a qualcosa che
risponda ad esigenze della convivenza sociale.
5
La consuetudine internazionale può essere però derogata, tra le parti, dal
diritto pattizio
6
, in virtù del principio di specialità.
Convenzioni dell’Aja del 1907 e Convenzione di Ginevra del secondo dopoguerra, come si è
fatto tradizionalmente. Il diritto umanitario, a seguito del I Protocollo addizionale 1977 e della
opinione della Corte Internazionale di giustizia sulle armi nucleari del 1996 risulta quindi un
amalgama tra il diritto dell’Aja e quello di Ginevra.
3
J.Dinstein. vedi nota 1. Citando la sentenza “North sea continental shelf” del 1969 (ICJ Report
3, 1969), definisce l’opinio iuris come “a belief that this practice is rendered obligatory by the
existence of a rule of law requiring it”
4
Si veda anche l’articolo 38, punto 1 paragrafo b, dello Statuto della Corte internazionale di
Giustizia. “[La Corte, la cui funzione è di decidere in base al diritto internazionale le
controversie che le sono sottoposte, applica]: “la consuetudine internazionale, come prova di
una pratica generale accettata come diritto;”
5
AAVV, “Istituzioni di diritto internazionale, Giappichelli terza edizione 2006: Riccardo
Luzzatto “ Il diritto internazionale e le sue fonti” pag 52.
6
Salvo che si tratti di una norma consuetudinaria appartenente al jus cogens, perciò
ontologicamente inderogabile. Vedi articoli 53 e 64 della Convenzione di Vienna sul diritto dei
trattati 1969.
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DIRITTO INTERNAZIONALE DEI CONFLITTI ARMATI AEREI
Trattato internazionale: è la principale fonte del diritto internazionale.
Consiste nell’incontro della volont{ di due soggetti dotati di personalit{
giuridica internazionale diretta a disciplinare i rapporti intercorrenti tra essi.
Solitamente si segue lo schema: negoziazione, firma, ratifica e scambio delle
ratifiche. A differenza della consuetudine che ha valore vincolante erga omnes,
il trattato ha solo effetti tra le parti contraenti.
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I sezione: DALLE
ORIGINI AL SECONDO
DOPOGUERRA.
IUS AD BELLUM.
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DIRITTO INTERNAZIONALE DEI CONFLITTI ARMATI AEREI
ggi viviamo in un contesto internazionale che si fonda nell’art. 2 comma
4 della Carta delle Nazioni Unite, il quale impone agli Stati il divieto di
ricorrere alla forza per risolvere le dispute internazionali.
Precedentemente all’adozione della Carta, la situazione era molto diversa, e lo
ius ad bellum era una branca fondamentale della legislazione internazionale di
pace.
L’uso della forza era infatti un modo universalmente accettato di soluzione
delle controversie internazionali ed il diritto si occupava di identificare il
modo legittimo per entrare in guerra.
La legislazione internazionale poneva come cardine dell’intero sistema il
concetto di “stato di guerra”, definibile come lo stato intercorrente tra due
nazioni che si scambiavano una dichiarazione formale di guerra. Nel
momento in cui avveniva l’instaurazione dello stato di guerra, il ius ad bellum,
lasciava spazio al ius in bello.
Possiamo suddividere gli ani che vanno dal 1848 al secondo dopoguerra in due
grandi periodi:
1. 1848-1919: anni in cui gli Stati godettero di un ampio diritto ad usare il mezzo
militare per risolvere i loro problemi di vicinato.
2. 1919-1946. In questo trentennio si assistette invece ai primi tentativi, coronati
dal totale fallimento, di limitare l’uso della forza nelle relazioni internazionali.
I Convenzione dell’Aja 1899
ino al termine della Prima guerra mondiale, l’unica limitazione all’uso
della forza era la I Convenzione dell’Aja firmata nel 1899, intitolata “Per la
risoluzione pacifica delle controversie internazionali”. A prima vista, la I
O
F
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Convenzione presenta una grande differenza rispetto alla Carta Onu: la
violenza bellica non é vietata e condannata in se stessa, ma é subordinata alla
mancata riuscita della mediazione, o dell’arbitrato internazionale, o dei buoni
uffici. Si può infatti notare come la I Convenzione si preoccupava di favorire
l’esperimento di soluzioni diplomatico-conciliative alle crisi internazionali.
Leggendo l’art 1 si capisce facilmente la debolezza del sistema proposto dalla
Convenzione:
“With a view to obviating, as far as possible, recourse to force in the relations
between States, the Signatory Powers agree to use their best efforts to insure the
pacific settlement of international differences.”
Significativo è l’inciso “as far as possible”: nel limite del possibile; gli Stati
erano cioè soggetti ad un obbligo di rinunciare alla forza, ma solo nel limite
del possibile. Allo stesso tempo, gli strumenti previsti dalla I Convenzione per
favorire una risoluzione pacifica delle crisi internazionali non erano
obbligatori, ma entrano in gioco solo per volont{ delle parti. L’art 2 imponeva
alle parti litiganti di rivolgersi ad uno Stato terzo a mezzo di mediazione, o di
buoni uffici, prima di mettere mano alla spada.
Dispositivi di datata origine, ma di scarso impiego effettivo, anche perché gli
artt 6 e 7 dichiaravano apertamente che, salvo patto contrario, l’accettazione
della mediazione, o dei buoni uffici, non erano vincolanti, e non comportavano
automaticamente l’interruzione o il congelamento dei preparativi di guerra
delle parti.
Grande merito della I convenzione dell’Aja fu l’istituzione della Corte
permanente d’arbitrato con sede all’Aja, attiva tutt’oggi, che fu l’antesignana
delle moderne corti internazionali.
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DIRITTO INTERNAZIONALE DEI CONFLITTI ARMATI AEREI
Innegabile vantaggio del sistema di arbitraggio era la sua vincolatività per le
parti rispetto a mediazione e buoni uffici, ma grande svantaggio era la
necessaria volontà delle parti di delegare la decisione alla Corte permanente.
Riguardo alla scarsa volontà degli Stati di compromettere alla Corte la
risoluzione delle proprie controversie basta citare qualche dato: dal 1902 al
1945, anni passati alla storia per due guerre mondiali, e per almeno cinque
conflitti ad alta intensità, la Corte decise in merito a 17 cause di carattere
bagatellare; basti citarne un paio: “1910, Venezuela vs USA” per i diritti di una
compagnia di battelli a vapore sul fiume Orinoco, o “1928, USA vs Paesi Bassi”
circa la sovranità su un isola dall’inutile valore economico non distante dalle
Filippine.
Il giudizio sull’efficacia della pionieristica I Convenzione dell’Aja del 1899 non
può che essere parzialmente positivo, infatti se da un lato essa rappresentò il
primo tentativo su vasta scala di limitare il ricorso alla guerra, dall’altro gli
strumenti approntati per raggiungere lo scopo erano inadeguati e poco efficaci.
III Convenzione dell’Aja 1907
ino al 1919, l’adempimento fondamentale che si frapponeva tra la pace e
l’instaurazione dello stato di belligeranza, era la dichiarazione di guerra.
Possiamo definire quest’ultima come strumento di diritto consuetudinario, che
a partire dal Rinascimento precedeva necessariamente l’entrata in guerra vera
e propria.
Il primo trattato che si occupò di positivizzare la disciplina consuetudinaria
riguardo l’entrata in guerra fu la III Convenzione dell’Aja del 1907
“Concernente l’apertura delle ostilit{”; già nel preambolo, si stabilì che
F
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l’obiettivo “preservare la sicurezza delle relazioni pacifiche”, non poteva essere
raggiunto senza avere certezza dell’instaurazione dello stato di guerra.
In particolar modo, l’art. 1:
“le potenze contraenti riconoscono che le ostilità tra esse non devono cominciare
senza un avvertimento preliminare e non equivoco, che avrà sia la forma di una
dichiarazione di guerra motivata, sia quella di un ultimatum con dichiarazione
di guerra condizionale”.
Si deduce dall’art 1 come non fosse necessario per la potenza contraente di
dimostrare l’esistenza di un valido titolo giuridico per entrare in guerra.
Degno di menzione è anche l’art 2 che specificava:
“lo stato di guerra deve essere notificato senza indugio alle potenze neutrali e
non produrrà effetto nei loro confronti che dopo ricevutane notificazione […].
Tuttavia le potenze neutrali non potrebbero invocare la mancanza di
notificazione, se fosse stabilito in modo non dubbio ch’esse conoscevano lo stato
di guerra.”
Chiave di volta dell’intero sistema era l’instaurazione dello stato di guerra,
infatti solo da quel momento cominciava l’applicazione del ius in bello che
avrebbe disciplinato e tutelato lo status dei combattenti e le modalità di
conduzione delle ostilità. Considerando il fatto che solo gli Stati avevano la
capacità giuridica di dichiarare guerra, si può intuire che non sempre il ricorso
alle armi rientrava nella “guerra” così come configurata dalla Convenzione
dell’Aja.
19
DIRITTO INTERNAZIONALE DEI CONFLITTI ARMATI AEREI
Per esempio, in caso di guerra civile, i ribelli, non essendo dotati di personalità
giuridica internazionale e non potendo dichiarare guerra, non potevano
beneficiare delle tutele previste per i legittimi combattenti dal ius in bello.
Uguale ragionamento poteva essere fatto per i popoli soggetti a regime
coloniale, o alle minoranze etniche che avessero deciso di ribellarsi, con la
conseguenza che lo Stato poteva non rispettare le norme a tutela dei
combattenti che non fossero di natura consuetudinaria.
Una curiosa antinomia del sistema “dell’Aja” risulta palese nel momento in cui
si paragona il diritto a dichiarare guerra, col diritto a ricorrere a procedimenti
di autotutela diversi dalla guerra: lo Stato che avesse inteso per esempio
realizzare un blocco, od una rappresaglia, avrebbe dovuto dimostrare di avere
un titolo giuridico per agire, cosa che non sarebbe stata necessaria in caso di
dichiarazione di guerra.
La Convenzione pur avendo efficacia inter partes, avendo avuto ratifica da
parte della maggior parte dei paesi dell’epoca, comprese le maggiori potenze,
divenne l’asse portante del sistema delle relazioni internazionali.
Il primo collegamento tra arma aerea e ius ad bellum si ebbe nell’agosto 1914,
mese in cui l’ambasciatore tedesco a Parigi consegna al governo francese la
dichiarazione di guerra. Questo il testo:
“Signor Presidente. Le autorità civili e militari tedesche hanno registrato una
serie di atti palesemente ostili commessi sul territorio della Germania, da parte
degli aviatori francesi. Molti di questi hanno violato apertamente la neutralità
del Belgio, volando sopra il territorio di quello Stato; un aviatore ha tentato di
distruggere degli edifici nelle vicinanze di Wesel; un altro è stato visto sorvolare
il distretto dell’Eifel; un altro ancora ha lanciato bombe sulla ferrovia vicino a
Karlsruhe e Norimberga.
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Mi sono state date le istruzioni e ho l’onore di informare Vostra Eccellenza che:
in presenza di questi atti di aggressione, l’Impero Tedesco considera se stesso in
stato di guerra con la Francia, in conseguenza degli atti di quest’ultima.”
La dichiarazione era perfettamente in linea con il disposto dell’art. 1 III
Convenzione dell’Aja, infatti era presente in modo chiaro la volontà di entrare
in guerra ed allo stesso tempo la motivazione retrostante. La dichiarazione di
guerra della Germania alla Francia del 1914, fu uno dei rari esempi di stato di
guerra causato (seppur per ragioni di facciata) dall’abuso del mezzo aereo.
Caso pratico: guerra aeronavale senza
dichiarazione: Pearl Harbor.
l celeberrimo attacco aeronavale dell’Impero Giapponese del 7 dicembre
1941 che portò gli Stati Uniti ad entrare nel secondo conflitto mondiale,
presenta una particolarit{ di grande rilevanza: l’offensiva aerea fu portata a
termine senza una preventiva dichiarazione di guerra.
Il ministro degli esteri di Tokyo informò il proprio ambasciatore a Washington
Nomura, di consegnare presso la Segreteria di Stato USA, il testo della
dichiarazione di guerra, che sarebbe stato spedito in cifra all’ambasciata, la
mattina del 7 dicembre. L’idea giapponese era quella di dare la comunicazione
al governo americano entro le 13.00 ora di Washington, 7.30 ora delle Hawaii,
mezz’ora prima dell’apertura attesa delle ostilit{ prevista per le ore 8.00.
Sfortunatamente, ci furono non pochi problemi da parte dell’ambasciata a
decrittare il testo della dichiarazione spedita da Tokyo nella notte tra il 6 ed il
I
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DIRITTO INTERNAZIONALE DEI CONFLITTI ARMATI AEREI
7 dicembre, così che l’ambasciatore Nomura poté consegnare il documento al
governo USA solo alle 14.20 ora di Washington, 8.50 ad Oahu, quando l’attacco
aereo era gi{ in corso da quasi un’ora.
Il Giappone aveva ratificato la III Convenzione dell’Aja sull’apertura delle
ostilità
7
, obbligandosi di conseguenza a notificare al belligerante nemico,
l’apertura delle ostilit{ nei suoi confronti.
Si può certamente dire che lo Stato nipponico abbia commesso un illecito
internazionale con il suo comportamento. Nonostante questo, la particolarità
della situazione, sta nel fatto che ad essere violata non è stata una norma di ius
in bello, ma una disposizione di ius ad bellum. Fino ad allora, la Società delle
Nazioni si era posta a tutela degli Stati vittime di un’aggressione armata, anche
se con scarso successo
8
. Si consideri però che il Giappone, benché tra i
fondatori del Covenant, era all’epoca uscito dalla Lega delle Nazioni e di
conseguenza non poteva dirsi obbligato dalle decisioni della stessa.
Non si può nemmeno scusare il Giappone, sostenendo che la dichiarazione di
guerra abbia un mero valore dichiarativo e non sostanziale; dal mio punto di
vista, ammettendo che tale atto sia una semplice formalità e non condizioni, di
fatto, l’instaurarsi dello stato di guerra, si sta sviando dal problema principale
9
.
La dichiarazione può anche essere anche semplice galateo tra Stati, ma
firmando un trattato internazionale, che impone all’articolo 1 di compiere tale
gesto, si assume l’obbligo di adempiere al patto.
7
Sito della Croce rossa: www.icrc.org/ihl.nsf/Pays?ReadForm&c=JP.
8
Il particolare mi riferisco alle sanzioni adottare contro l’Italia per la guerra d’aggressione nei
confronti dell’Abissinia.
9
Si consideri anche che se fosse realmente così, ad intricare ancora di più la situazione, ci si
mette anche il fatto che i decrittatori statunitensi, conoscendo da tempo i cifrari giapponesi,
vennero a conoscenza di gran parte del testo della dichiarazione di guerra gi{ un’ora prima
della preventivata consegna delle 7.30.
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Ritengo che le strade per trovare una via d’uscita al nodo gordiano della
mancata notifica della dichiarazione siano sostanzialmente due: sostenere la
scusante della forza maggiore, o ipotizzare che la condotta giapponese
concorra ad integrare un crimine contro la pace. Benché codificato dalla
Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati nel secondo dopoguerra
10
, la
causa di giustificazione della forza maggiore, rappresenta sicuramente una
delle più antiche consuetudini del diritto internazionale.
Essa è invocabile se l’atto si compie a causa di un evento imprevedibile, non
sotto la sfera di controllo dello Stato, che renda di fatto impossibile
uniformarsi a tale obbligo.
Si potrebbe sostenere quindi che la presentazione della dichiarazione con
un’ora e mezza di ritardo, sia dovuta a quello che i Paesi anglosassoni
chiamano “act of God”.
Non credo sia una posizione sostenibile per più di qualche secondo: il ritardo
non è dovuto ad una catastrofe biblica sull’oceano Pacifico che abbia tagliato i
cavi telegrafici, o all’esplosione contemporanea di tutte le macchine
decrittatrici all’ambasciata nipponica, bensì all’incapacit{, o all’inadeguatezza,
o alla negligenza, o alla imperizia del personale d’ambasciata, o degli strumenti
tecnologici a loro disposizione.
Anche l’idea del governo di Tokyo di telegrafare in cifra, a più di 10000 km una
dichiarazione di guerra, da consegnare non prima di mezz’ora dell’attacco alle
Hawaii, non contribuisce certo a far considerare la mancata notifica della
stessa al governo Usa, un atto di dio.
10
AAVV: “Istituzioni di diritto internazionale”, Giappichelli 2006, terza edizione, sezione
“illecito e responsabilit{” di L.Fumagalli, pag 294.