2
a partire dal secondo dopoguerra: valgono per tutti gli esempi della Carta delle Nazioni Unite
(1945) e delle Convenzioni di Ginevra (1949).
Tra i precursori dell’idea della legittimità di diritto internazionale della guerra, Antonio Balladore
Pallieri : “Il fatto stesso che la guerra sia lecita o illecita a seconda che si contenga o meno entro
certi limiti, dimostra che (…) non sorge fuori e contro il diritto internazionale (…). Se invece, come
in realtà accade, l’attività bellica è regolata da norme giuridiche internazionali, e compresa in
schemi giuridici internazionali, e se gli Stati in guerra continuano a sollevare pretese giuridiche tra
loro sul modo in cui devono comportarsi, e proteste se non si comportano nel modo dovuto, si deve
anche con assoluta certezza escludere che gli Stati, quando ricorrono alla guerra commettano solo
un insieme di atti illeciti o rivoluzionari, contrastanti col diritto vigente”.
4
Nella storia dei trattati è riscontrabile in più di un occasione il tentativo di codificare delle regole di
condotta tali da poter dare una maggior chiarezza delle situazioni soggettive poste in essere in
tempo di guerra. Tanto per citare i casi che, risalendo nel tempo, si sono distinti per la loro
importanza ricordiamo le Convenzioni di Ginevra del 1864 e del 1906 sul trattamento dei feriti di
guerra, la Dichiarazione di Pietroburgo del 1868 sui proiettili esplosivi, la Convenzione di
Washington del 1922 sui sottomarini e l’impiego dei gas.
Ognuno di questi trattati, a prescindere da quella che è stata la loro efficacia in seno alla comunità
internazionale, trovava la sua ragion d’essere nell’omogeneizzare ( o perlomeno tentare di
omogeneizzare ) quella diversità di comportamenti, condotte, protocolli ufficiali che ogni Stato
impiegava in relazione alla guerra ed ogni altro momento di crisi internazionale.
Ovviamente, nel tempo gli sforzi di creare le regole di diritto internazionale bellico hanno risentito
delle ideologie, degli equilibri politici, delle pressioni che determinati Stati erano in grado di fare su
altri, ma il minimo comune denominatore è sempre stato quello di trovare una soluzione a questi
problemi nel consesso internazionale.
La Storia del secondo dopoguerra è piena di casi pratici in cui è possibile analizzare quali siano
state le conseguenze di tutti gli interventi sia convenzionali, sia consuetudinari che giurisprudenziali
che hanno avuto luogo nel diritto internazionale.
In particolar modo, nella presente trattazione si prenderà ad esempio il caso del Nicaragua, per cui
la Corte Internazionale di Giustizia ha pronunciato una Sentenza
5
che ha segnato una svolta nel
modo d’intendere l’uso della forza nell’ambito della comunità internazionale, a prescindere dalla
valenza politica della stessa
6
.
4
Antonio Balladore Pallieri, Diritto Bellico, 2^ ed., Padova, 1954, pagg. 5 ss.
5
infra nota 22
6
infra paragrafo 1.3
3
I cambiamenti dovuti poi alla caduta dell’ URSS e la definitiva cessazione della “guerra fredda “,
sono stati forse i più significativi, dal momento che nel giro di pochissimo tempo hanno messo la
comunità internazionale nella condizione di dover ripensare e rinnovare il proprio ruolo, ma
soprattutto hanno introdotto (soprattutto attraverso la dottrina), innovativi elementi riguardo alla
concezione dell’uso della forza, come ad esempio la “guerra umanitaria”.
Uno degli esempi di scuola più ricorrenti in tal senso è il conflitto in Kosovo del 1999 e le
operazioni seguite agli attacchi della NATO, ove si ripropongono questioni sulla legalità dell’uso
della forza in ambito internazionale e sulle problematiche inerenti il peace-keeping, dette anche
operazioni per il mantenimento della pace.
Proprio in questo caso concreto, è interessante proporre un punto di partenza, di per sé eloquente,
che è costituito dalle Sentenze
7
che la Corte Internazionale di Giustizia ha emesso su richiesta della
Repubblica Federale di Jugoslavia nei confronti di Belgio, Canada, Francia, Germania, Italia, Paesi
Bassi, Portogallo, Regno Unito, Spagna e Stati Uniti, ossia tutti gli Stati che, ciascuno in diversa
misura, hanno partecipato alle operazioni di attacco prima e di peace-keeping dopo. Le
rivendicazioni della Jugoslavia contro i citati Stati sono sempre state le stesse, ossia di aver
esercitato l’uso della forza:
“en violation de son obligation internationale de ne pas recourir à l’emploi de la force contre un
autre Etat, de l’obligation de ne par s’immiscer dans les affaires intérieures d’un autre Etat, de
l’obligation de ne par porter atteinte a la souveraineté d’ un autre Etat (…)”.
8
Anche in questo caso, come poi nella quasi unanimità dei casi che la trattazione intende analizzare,
bisogna scindere la valenza politica della richiesta di una sentenza di questo genere da parte di uno
Stato quale era la Repubblica Federale di Jugoslavia , da ciò che potrà tornare utile sul piano
giuridico per una riflessione sull’uso della forza.
Per una miglior analisi di tutte queste dinamiche, è necessario un excursus sull’evoluzione della
legittimità dell’uso della forza, alla luce dei mutamenti che si sono avuti, specie dalla guerra fredda
ai tempi nostri. In questa prospettiva sarà inevitabile dover parlare del ruolo della più grande
organizzazione internazionale oggi esistente, l’ONU, e dell’importanza che essa ha ricoperto
nell’elaborazioni dei concetti che sono oggetto di discussione, soprattutto attraverso le sue
istituzioni, politiche e militari.
7
Tutte queste sentenze sono intitolate “Affaire relative à la liceité de l’emploi de la force” e si riscontrano
temporalmente tra il 1999 ed il 2004.
8
Testo della richiesta introduttiva d’istanza, in data 29 aprile 1999, presso la Corte Internazionale di Giustizia di New
York, nel caso “Affaire relative à la liceité de l’emploi de la force” , 15 dicembre 2004, in C.I.J., Recueil.
4
I. 2: L’uso della forza nel diritto internazionale: dall’arbitrarietà ai tentativi di
normalizzazione
I. 2. 1.: La creazione della comunità internazionale: la Società delle Nazioni
“L’ordinamento giuridico internazionale è caratterizzato da una radicale contraddizione: da una
parte esiste un obbligo generale di soluzione pacifica della controversie, dall’altra, gli Stati sono
pienamente liberi di scegliere i mezzi che ritengono più idonei per tale soluzione. Solo singoli
trattati prevedono meccanismi specifici di soluzione delle controversie: non esiste dunque alcuna
regola generale che prescriva un modo o l’altro di soluzione pacifica”.
9
Così Cassese riassume il
problema delle dinamiche della comunità internazionale. Infatti, facendo un excursus storico delle
tappe evolutive del diritto internazionale riguardo all’uso della forza, il minimo comune
denominatore dell’esperienza giuridica è quello di non aver trovato una soluzione di diritto radicale
e definitiva al problema dell’uso della forza. Questi, sono nella loro natura troppo divisi
politicamente ed ideologicamente per poter raggiungere un accordo di massima e valevole per tutti.
Tuttavia, ciò non significa che i passi evolutivi intrapresi nel corso del tempo non debbano essere
considerati come elementi positivi di confronto e di avvicinamento reciproco.
L’istituto dell’uso della forza ha rappresentato nel corso del tempo il tipico mezzo di risoluzione
delle controversie internazionali, conseguente al momento politico e di mediazione.
È chiaro che tale potere rientra in quelli tipici di uno Stato sovrano, tale per cui esso non è mai stato
messo in discussione, dato che dal punto di vista della soggettività internazionale, gli Stati ne sono
la massima espressione. Come molti altri settori del diritto internazionale, il XX secolo è stato il
periodo in cui maggiormente si è riflettuto delle problematiche inerenti al tema e per cui l’impegno
nella “codificazione” (ma soprattutto nella meditazione di nuovi concetti ed elaborazioni sia
dottrinali che pratiche) ha visto un’escalation molto probabilmente giustificata dagli eventi che
hanno caratterizzato il secolo scorso.
Un primo cambiamento a questa prassi, si ebbe dopo la Prima Guerra Mondiale, quando alla
conferenza di pace di Versailles, il presidente americano Woodrow Wilson propose, tra le altre
cose, la creazione di un organizzazione internazionale capace di monitorare la situazione
contemporanea e tentare di limitare l’uso della forza. Il presidente americano intendeva respingere
la politica di potenza fino ad allora attuata in Europa, superando per la prima volta le ormai
centenarie politiche isolazioniste che avevano caratterizzato fino ad allora gli Stati-Uniti.
10
9
Antonio Cassese, Diritto Internazionale Nel Mondo Contemporaneo, Il Mulino, Bologna, 1984, pag. 240
10
Cfr. Henry Kissinger, L’Arte Della Diplomazia, Saggi Paperback, Milano, 1996.
5
L’organizzazione prese il nome di Società delle Nazioni (1919)
11
, ed il suo Trattato Istitutivo
prevedeva all’art. 10: “ i Membri si impegnano a rispettare e proteggere contro ogni aggressione
esterna l’integrità territoriale e l’attuale indipendenza politica di tutti i Membri della Società”
È evidente il tentativo ispiratore, ossia quello di riuscire a porre fine ad una certa politica di
aggressione che si era posta in essere già nel periodo precedente alla Prima Guerra Mondiale, ma
che non era destinata ad essere terminata, nonostante i numerosi accordi stipulati tra le due guerre
alfine di ribadire ancor più fortemente il nuovo corso del diritto internazionale.
12
Il nuovo soggetto di diritto internazionale poneva, proprio per la sua originalità e per gli obiettivi
che si prefiguravano, delle problematiche in ordine proprio alla sua personalità. In particolare, gli
scettici commentatori contemporanei già si ponevano il dubbio di come si potesse conciliare
l’irrinunciabilità alla sovranità statale, con il perseguimento di fini di pace. Con queste prospettive,
questa l’opinione dei contestatori, l’efficacia di una tutela profonda dei fini ispiratori era totalmente
impossibile. Un esempio fra tutti del pensiero critico, fu quello del futuro Presidente Luigi Einaudi,
convinto federalista, e che nella Confederazione di Stati non vedeva la riuscita di un’ideale
internazionale: “Ora, se l’esperienza storica dovesse essere la maestra della vita, tutti i discorsi
sulla “società delle nazioni” (…) sarebbero senz’altro apparsi vani, quando si fosse ricordata la fine
miseranda dei tentativi sinora compiuti e durati talvolta per pochi anni e tal’altra per secoli di
“società delle nazioni” intesa nel senso (…) di confederazione di Stati sovrani, ed il successo
magnifico e duraturo di quell’altro tipo di società delle nazioni, il quale culmina nella
trasformazione di preesistenti Stati sovrani in province di un unico più ampio Stato sovrano.
L’esperienza storica prova, cioè, che ciò che oggi si considera come ideale non è possibile, non è
duraturo e può essere funesto; e che soltanto è possibile, duraturo e benefico ciò che dai più oggi si
considera ripugnante”
13
.
Alla luce di queste riflessioni, il divieto posto dalla Società delle Nazioni è certamente limitato alle
relazioni internazionali degli Stati: la prospettiva degli estensori non riguarda ancora situazioni nelle
quali l’ingerenza della sovranità statale è ancora un dogma difficile da superare in termini
ideologici.
11
La creazione dell’organizzazione societaria, costituisce il progetto della parte I del Trattato di Versailles, firmato il 25
gennaio 1919.
12
E’ infatti da ricordare il Patto Briand-Kellogg (27 agosto 1928) attraverso cui le parti contraenti si impegnarono a
rinunciare alla guerra come strumento di politica internazionale, e al contrario promuovere la dialettica internazionale
attraverso mezzi pacifici. Tuttavia, in quella sede non fu sciolto il nodo delle “measures short of war” ossia il prototipo
contemporaneo delle operazioni di mantenimento della pace.
Parimenti è da ricordare il Trattato di Locarno (1925) vieta le operazioni di guerra ad eccezione di tre casi: a) legittima
difesa; b) misure da prendersi ex art. 16 dello Statuto della Società delle Nazioni; c) azione conseguente a decisione
dell’Assemblea o del Consiglio della Società delle Nazioni.
13
Luigi Einaudi, La Guerra E l’Unità Europea, Il Mulino, Bologna, 1986, pag. 20
6
Lo stesso documento istitutivo della Società, rispetto alla Carta delle Nazioni Unite di ventisei anni
dopo (la cui efficacia esecutiva è indiscussa), si ripresenta come un mero catalogo di
raccomandazioni di buona condotta internazionale.
Ancor meno possibile che si potessero ivi prefigurare situazioni odierne quali conflitti interni o
possibilità di repressione di moti indipendentisti o antagonisti (“fatti insurrezionali”) o si
proponesse un problema che nemmeno i precursori della dottrina delle relazioni internazionali
potevano pensare nel 1919: il fenomeno della cosiddetta “internazionalizzazione dei conflitti
interni”. Con tale locuzione ci si riferisce generalmente a situazioni nelle quali, pur in presenza di
un problema interno ad uno Stato, le ripercussioni dello stesso si fanno sentire nell’intera comunità
internazionale, al punto che uno Stato estero potrà sentirsi in dovere di violare la c.d. domestic
jurisdiction, pur di porre fine alla situazione in atto. Tipico è il caso che si è posto in essere nel
tempo di gross violations (crimini di genocidio, apartheid, schiavitù, tortura, trattamenti disumani,
ecc), che riguardano proprio il caso del Kosovo, cui riguardo si parlerà nel proseguo della
trattazione.
I. 2. 2.: Dalla fine della Seconda guerra mondiale alle Nazioni Unite
Maggiore e più incisivo fu il sistema delle Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), che prese il
posto lasciato vuoto dalla Società delle Nazioni che, con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale,
aveva fallito nel suo scopo politico-internazionale. Al termine del conflitto, i vincitori firmarono a
San Francisco questo nuovo patto, la cui primaria finalità era “ salvare le future generazioni dal
flagello della guerra, che per ben due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili
afflizioni all’umanità”.
14
La finalità di assicurare pace e stabilità internazionale (come sarà altresì ribadito negli articoli
seguenti del trattato) non rimarrà una semplice formula di rito, ma otterrà un riconoscimento
esecutivo nel Capitolo VII della stessa Carta, rubricato “ Azione rispetto alle minacce alla pace,
alle violazioni della pace ad agli atti di aggressione”. (artt. 39-51).
Significativo al riguardo è l’Art, 39, ove si legge: “ Il Consiglio di Sicurezza accerta l’esistenza di
una minaccia alla pace, di una violazione alla pace, o di un atto di aggressione, e fa
raccomandazioni o decide quali misure debbano essere prese (…) per mantenere o ristabilire la pace
e la sicurezza internazionale”.
Nell’articolo è evidente come la volontà di ribadire il divieto dell’uso unilaterale della forza sia
sempre più forte.
14
Preambolo della Carta ONU (26 giugno 1945).
7
Ma a questo elemento, certamente innovativo, se ne aggiunge un altro che probabilmente viene per
la prima volta ribadito con fermezza : il monopolio dell’uso della forza al Consiglio di Sicurezza, il
cui potere esclusivo di azione non potrà essere prevaricato nemmeno da altre istituzioni della stessa
ONU.
15
Nel nuovo consesso delle Nazioni venutosi a creare, viene inoltre in evidenza l’art. 2, §4, dello
Statuto allegato alla Convenzione di San Francisco: “i Paesi membri s’impegnano ad astenersi nelle
loro relazioni internazionali dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale e l’indipendenza
politica di un altro Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni
Unite”. Il testo denota un’interpretazione piuttosto estensiva del concetto di “guerra”, termine fino a
quel momento utilizzato nell’ambiente diplomatico e dei negoziati. Ora, la sostituzione con la
locuzione “uso della forza”, magari più incerta nel suo campo di delimitazione, pare certamente
foriera di sviluppi improntati al pacifismo e al dialogo internazionale.
Le conseguenze di tale innovazione non furono solo di natura politico-diplomatica, ma anche
giuridica: da questo momento in poi, si è assistito di fatto all’estensione dell’ambito di efficacia del
diritto bellico, applicabile ad ogni azione armata, diminuendo quella che già in dottrina era il
divario fra guerra e le ostilità, regolari ed irregolari.
16
Proprio in relazione a questo problema di nomenclatura, però, non viene a mancare una dottrina che
fatica a credere che sia stato raggiunto il “sogno” di un mondo pienamente regolato dal diritto
internazionale e dalle sue maggiori istituzioni. Così Lelio Basso scrisse: “ Nonostante l’attuale
alterazione del funzionamento dello schema contrattualista ad opera della concentrazione e della
istituzionalizzazione del potere internazionale, bisogna però rilevare come il divieto all’uso della
guerra, se è l’unico principio corrispondente all’esigenza della sopravvivenza del genere umano
(…), è in gran parte, nella pratica della ONU, rimasto lettera morta data la mancata attuazione del
sistema delle misure collettive previste dalla Carta e data la mancanza di una definizione
dell’aggressione, con la conseguente indeterminatezza della legittima difesa, a cui tale definizione è
strettamente legata”.
17
Difatti l’“uso della forza” deve ancora fare i conti con un problema di ordine generale di non poco
conto. Nel sistema delle fonti, che sappiamo costituito principalmente da trattati e consuetudini, la
nuova concezione sull’uso della forza continua ad esistere come regola di origine pattizia , quindi
più esposta a rischi di una trasgressione da parte degli Stati, in quanto obbligatoria per le sole parti
contraenti. I tentativi di codificazione del diritto bellico hanno origine remota, mentre la tematica
umanitaria che ad essa s’intreccia, ha età piuttosto recente.
15
Cfr. Rosario Sapienza, in “Diritto Internazionale: casi e materiali”, Giappichelli, Torino, 2002, pag. 192.
16
Così Maddalena Capasso, voce: Guerra, in Novissimo Digesto Italiano,UTET,Torino, vol. VIII , 1961, pag. 52 .
17
Lelio Basso, in Relazioni Internazionali, Feltrinelli, Milano, 1973, pag. 242.