6
politiche comunitarie, sia nella fase “ascendente”, di
partecipazione alla formazione, che “discendente”, di corretta
applicazione degli atti normativi sovranazionali, rilevando
l’ostilità che le Regioni hanno incontrato nell’instaurare
rapporti diretti con le istituzioni comunitarie, in vista della
tutela del loro legittimo interesse ad incidere su decisioni che
avevano effetti sempre più accentuati sulla disciplina di settori
che la Costituzione affidava espressamente alla loro
competenza.
Successivamente, evidenzieremo il percorso evolutivo
battuto dall’ente Regione verso una più ampia presa di
coscienza della sua presenza da parte dei soggetti istituzionali
comunitari e nazionali.
A questo riguardo dobbiamo, infatti, ricordare che agli inizi
degli anni 80 si è aperta una nuova stagione per le Regioni, sia
sul versante comunitario che nazionale, che ha visto l’acuirsi
della crisi dei sistemi giuridici e istituzionali fondati sullo
strapotere degli organi centrali di governo e la
nascita/rafforzamento di istituzioni di tipo regionale. Sul
versante nazionale ciò è potuto avvenire perché sono state
avviate, già a partire dalla seconda metà degli anni70 e negli
anni80, ma soprattutto agli inizi degli anni90 una serie di
riforme che hanno progressivamente ristretto l’ambito della
competenza dello Stato e portato ad un accentramento di
poteri, sia legislativi che amministrativi, nelle mani degli
7
organi di governo periferici; sul versante comunitario, invece,
il fattore scatenante è da ricercarsi nello sviluppo delle
politiche regionali della Comunità, nella nascita di organismi a
forte connotazione regionalista (vedi Comitato delle Regioni) e
nell’introduzione del livello amministrativo regionale nei
processi decisionali della Comunità.
Dopo aver esaminato ciò che accade in termini di rapporti,
tra Regioni e Comunità Europea, sposteremo la nostra
attenzione sulla legge delega 59/97 e conseguente decreto
attuativo 112/98, per approdare al progetto di riforma del titolo
V della parte II della Costituzione.
8
CAPITOLO I
Il processo di evidenziazione delle Regioni nell’Unione
europea.
1.Excursus storico sull’evoluzione delle regioni in ambito
comunitario.
Il discorso inerente ai rapporti tra Regioni e comunità europea ha
subito con il processo di integrazione politico-comunitario e, da
ultimo con la firma del trattato di Maastricht, un nuovo slancio in
direzione di un ruolo più incisivo dell’ente regione.
Sembra infatti che, per una maggiore valorizzazione delle autonomie
regionali, si debba confidare non solo negli interventi e nei mutamenti
di tendenza dei poteri centrali dello Stato, ma anche in buona misura,
in tale processo e nell’accelerazione che esso ha avuto in questi ultimi
tempi.
Questo perché i rapporti tra Regioni e ordinamento comunitario
sono presenti, nei trattati istitutivi, in termini di “estraneità”, di
“indifferenza”.
L’originaria estraneità tra ordinamento europeo e Regioni è
chiaramente delineata nel Trattato istitutivo del 1957, dove la presenza
di stati federali e di Regioni è del tutto ignorata.
Le ragioni di questo stato di cose sono diverse, fra le principali
possiamo ricordare: la strutturazione della Comunità su base statale; la
9
caratterizzazione del diritto comunitario come strumento finalizzato
all’unitarietà e all’uniformità; l’originaria impostazione dei rapporti
tra ordinamento comunitario e ordinamenti statali come ordinamenti
tra loro separati e reciprocamente indipendenti
1
; il prevalere di una
concezione che tendeva ad assimilare le problematiche comunitarie a
quelle internazionali e in cui i rapporti comunitari erano recepiti come
rapporti esterni allo Stato, e come tali rientranti nell’esercizio del
potere estero, e quindi di competenza esclusiva dello Stato centrale
(esclusività del cd. “potere estero dello Stato”).
Da questa serie di motivazioni si riesce a capire che, almeno
inizialmente, le Regioni non hanno avuto un ruolo proprio
nell’ordinamento comunitario e hanno visto sminuire la loro presenza
anche nell’ordinamento nazionale, poiché sia la partecipazione alla
formazione delle decisioni che la responsabilità per l’attuazione del
diritto comunitario erano di competenza diretta ed esclusiva dello
Stato centrale.
Inoltre, si deve poi aggiungere che il concetto di Regione era inteso
in un significato esclusivamente socio- economico, e solo negli ultimi
anni si è affermata l’esigenza di tener conto anche del loro aspetto
istituzionale.
Le evoluzioni più recenti hanno in parte modificato questo stato di
cose, sia sul versante comunitario che su quello nazionale.
Sul versante nazionale, infatti, gli ultimi decenni sono stati
caratterizzati dalla messa in discussione dei tradizionali sistemi
1
Come è noto questa reciproca impermeabilità si riallacciava alla configurazione internazionalistica della
Comunità, organizzazione fondata su un Trattato stipulato tra Stati sovrani: poiché gli obblighi assunti
con i Trattati istitutivi della Comunità sono obblighi di diritto internazionale, come tali gravanti solo sugli
Stati, solo questi rilevano di fronte alla Comunità, restando invece secondarie le articolazioni che questi
hanno al loro interno.
10
giuridici e istituzionali fondati sull’accentramento statale e dalla
nascita/rafforzamento di istituzioni di tipo regionale, laddove queste
non erano già elemento costitutivo della specifica tradizione
nazionale, assieme al sempre maggior interesse che le istituzioni
comunitarie hanno mostrato nei confronti di ciò che avveniva
nell’ordinamento interno degli Stati membri.
Sul versante comunitario, è a partire dalla seconda metà degli anni
settanta e soprattutto degli anni ottanta che l’attenzione della
Comunità comincia ad incrinarsi sotto la spinta di due esigenze: quello
di assicurare l’efficacia delle politiche comunitarie e quella di
garantire l’osservanza del principio democratico nella loro definizione
e attuazione, il che comporta un ripensameto del ruolo che in esse
sono destinate a ricoprire tutti i livelli di governo infracomunitari, ivi
compresi quelli locali.
Per quanto riguarda la prima sollecitazione, essa si ricollega alla
circostanza che non poche delle politiche comunitarie erano venute ad
incidere o condizionare le competenze riconosciute in sede nazionale
alle regioni, ma soprattutto la loro attuazione in numerosi casi
richiedeva l’intervento di amministrazioni regionali e locali.
Ciò deriva, in primo luogo, dallo sviluppo delle politiche regionali,
sulla base del riconoscimento, da parte del Trattato di Roma del 1957,
che uno degli obbiettivi fondamentali era quello di “garantire uno
sviluppo armonioso, riducendo le differenze esistenti tra le varie
Regioni e l’arretramento delle regioni meno favorite” concretizzatosi
nel 1975 con l’istituzione del FESR e nella concomitante creazione
del Comitato per le politiche regionali.
11
Infatti, la Regione ha trovato collocazione nel contesto comunitario
soprattutto come destinataria delle politiche a finalità strutturale. Tali
politiche, destinate a ridurre i divari di sviluppo tra regioni ricche e
regioni povere della Comunità, non hanno complessivamente prodotto
i risultati che ci si attendeva e come causa, non esclusiva, di una tale
complessiva insufficienza può essere certamente indicata quella
derivante dall’assenza di un’organica politica regionale, da parte della
Comunità: quello che si è erogato, infatti, ha riguardato interventi
finalizzati a favorire l’attuazione di progetti spesso sprovvisti di un
quadro di riferimento generale. Un motivo però altrettanto decisivo è
stato il mancato apporto nell’elaborazione delle misure di politica
regionale dei diretti interessati, cioè le Regioni. D’altra parte, non
poteva essere altrimenti poiché la Regione, realtà politica ed
amministrativa, era inesistente nell’Europa Comunitaria come
soggetto giuridico e quindi poteva essere solo destinataria di misure
comunitarie, imposte dall’alto.
Ignorata dal Trattato di Roma e dalla normativa derivata,
consapevole del proprio peso, essa ha però incominciato a manifestare
la propria volontà di partecipare alla costruzione dell’Europa. Il
processo di progressivo avvicinamento delle Regioni alla Comunità
Europea non è Stato né rettilineo né uniforme. Al fine di evitare che
le notevoli differenze esistenti fra le varie Regioni dei singoli Stati
membri potesse produrre effetti non del tutto positivi, le
organizzazioni più rappresentative di tali realtà territoriali hanno
cercato di qualificarsi facendo riferimento a termini ritenuti più idonei
a meglio ricoprire le varietà di un fenomeno spesso assai difforme.
12
Sono cosi sorti, tra gli anni80 e 90, accanto il Consiglio dei Comuni e
delle Regioni d’Europa (Ccre)
2
sorto già negli anni50, il Comitato dei
poteri regionali e locali e l’Assemblea delle Regioni d’Europa (Are)
3
,
organismi tra i primi a trovare una qualche udienza presso il Consiglio
d’Europa, il primo che ha mostrato interesse verso i problemi delle
Regioni. Con il passar del tempo il tentativo di avare udienza presso le
istituzioni comunitarie ha incominciato ad essere ripetuto con
crescente determinazione, prima da parte delle Regioni di singoli
Stati, poi successivamente in modo più coordinato da parte delle
Regioni appartenenti a Stati diversi. Il processo di avvicinamento ha
avuto, comunque, tempi lunghi, dovendo superare la resistenza
frapposta da parte di taluni Stati membri, contrari all’idea regionalista.
Successivamente ed in tempi relativamente recenti, si è assistiti ad
una progressiva presenza delle Regioni a Bruxelles: rappresentanze
permanenti, Camere di commercio, Associazioni patronali hanno
ospitato in varia forma la presenza di numerose Regioni che
intendevano stabilire contatti con le istituzioni comunitarie.
Dopo varie discussioni e proposte mai veramente sviluppate, è a
metà degli anni Ottanta, nel contesto del dibattito da cui scaturisce
l’Atto Unico Europeo, che il problema regionale diviene centrale
nell’agenda europea. Come precisato nella Dichiarazione comune del
2
Questo organismo ha la funzione di cooperare tra l’altro con i poteri locali e regionali al fine di ottenere
aiuti europei in materia di sviluppo economico locale e regionale ed organizzare una cooperazione
europea nel campo della protezione dell’ambiente.
3
Autocostituitasi come Consiglio delle Regioni europee e composta esclusivamente di Regioni, l’Are è
divenuto l’organo principale per la negoziazione e la formulazione delle rivendicazioni regionali in vista
del vertice di Maastricht.
L’Are è particolarmente attaccata all’omogeneità della sua composizione e definisce la Regione come
“la collettività territoriale esistente al livello immediatamente inferiore a quello dello Stato centrale,
dotata di una rappresentanza politica esercitata da un’Assemblea regionale elettiva” (art.3, 2 co. Dello
statuto dell’Are).
13
Consiglio, della Commissione e del Parlamento europeo del 18 giugno
1984, “le tre istituzioni comunitarie concordano sull’opportunità, sia
pure nel rispetto delle competenze interne degli Stati membri e del
diritto comunitario, di una più stretta collaborazione tra la
Commissione delle Comunità Europee e le autorità regionali o,
eventualmente, locali. Ciò permetterà di tenere in maggiore
considerazione gli interessi regionali nell’elaborazione dei programmi
di sviluppo regionale”.
Le linee maggiori di questo nuovo atteggiamento attengono: a)alla
sempre più frequente utilizzazione della dimensione funzionalistica
regionale nelle politiche comunitarie, dove le Regioni sono da
intendere quali aree economico- sociali omogenee in cui concentrare
una specifica politica comunitaria, ai sensi delle disposizioni
contenute nel Titolo V del Trattato CEE, come novellato dall’AUE;
b)al frequente riferimento all’accezione istituzionale delle Regioni
quali enti pubblici esponenziali delle proprie collettività, considerate
un contesto privilegiato per la partecipazione dei cittadini e primario
strumento per rafforzare la legittimità democratica delle istituzioni;
c)al ricorso a nuovi concetti come compartecipazione comunitaria e
partenariato, che implicano la formale associazione delle Regioni al
processo decisionale comunitario e all’attuazione delle relative
politiche; d)all’inserimento nel Trattato CEE (artt.130B-ora159- e 8C,
ora 15) del principio in base al quale l’attuazione di tutte le politiche
regionali e del mercato interno deve tenere conto degli obiettivi della
coesione economica, della riduzione del divario di sviluppo e degli
obiettivi del FERS.
14
Nel primo senso, lo sviluppo maggiore è dovuto all’art. 23 dell’AUE
che ha introdotto nel Trattato il Titolo IV (artt.130A-ora 158- e130E,
ora 162), contenente la nuova politica comunitaria per assicurare la
“coesione economica e sociale”, correttivo dello sviluppo liberistico
che la Comunità cerca di assicurare all’economia europea e funzionale
alla realizzazione del Mercato Unico. Come afferma l’art. 130A-ora
158-, c.2°, la Comunità mira a “ridurre il divario tra le diverse Regioni
e il ritardo delle Regioni meno favorite”. A tal fine, lo strumento
comunitario per eccellenza è rappresentato dai Fondi a finalità
strutturale, e tra questi, particolarmente il FERS destinato (art, 130C,
ora 160) a “contribuire alla correzione dei principali squilibri regionali
esistenti nelle Comunità, partecipando allo sviluppo e
all’adeguamento strutturale delle Regioni in ritardo di sviluppo
nonché alla riconversione delle Regioni industriali in declino”. Si
capisce facilmente che il riferimento alle Regioni non è in senso
istituzionale, ma economico-sociale.
L’importanza delle innovazioni introdotte dall’AUE si coglie anche
comparandole con la precedente situazione in cui il Trattato prevedeva
solo (art.2) una generica previsione per la realizzazione di “uno
sviluppo armonioso delle attività economiche nell’insieme della
Comunità, un’espansione continua ed equilibrata”, senza alcun
riferimento a politiche regionali. Ancora nei primi anni Ottanta, i
regolamenti sui fondi strutturali quando si riferivano alla Regioni (reg.
CEE n. 1787/84 sul FERS, artt. 1 e 2) lo facevano in modo generico e
senza prevedere alcun ruolo regionale nei processi di decisione e di
attuazione, lasciando un’eventuale scelta in tal senso alla libera
15
decisione degli Stati membri, a tal punto che si parlava correttamente
di una partecipazione eventuale e puramente esecutiva delle Regioni.
L’entrata in vigore dell’AUE è stata seguita, nel 1988, dalla nuova
normativa dei Fondi strutturali; infatti sia nel Regolamento di base n.
2052/88, che nel Regolamento di attuazione n.4253/88 e nei singoli
regolamenti specifici l’ente regione emerge attraverso il concetto di
“partnership”
4
. Quando si parla di quest’ultimo non ci si può riferire
solo al livello centrale ma anche all’ente regione, come del resto si è
verificato in pratica nella formulazione sia dei Programmi che dei cd.
“Quadri comunitari di sostegno”.
Un esempio concreto è offerto dall’art.14 del Regolamento di
attuazione, che prevedeva espressamente la possibilità che le domande
di contributo fossero presentate alla Commissione non solo dallo
Stato, ma anche da qualsiasi organismo da esso designato a tal fine.
E’ così che l’originaria percezione della Regione da parte
dell’ordinamento comunitario, quale area economico- sociale
omogenea, in cui concentrare una specifica politica comunitaria di
riequilibrio trapassa gradualmente verso una concezione di tipo
istituzionalista.
Quanto appena detto, si è potuto conseguire anche grazie
all’emanazione di una serie di atti normativi, alla presenza sempre più
massiccia delle Regioni all’interno delle strutture istituzionali e alla
differenziazione fra rapporti comunitari e rapporti internazionali, che
hanno reso le Regioni più visibili e presenti all’interno
dell’ordinamento comunitario e hanno riportato l’attenzione della
4
Guizzi V., Manuale di diritto e politica dell’Unione Europea, Napoli, 2003.
16
Comunità europea nei confronti del regionalismo che è andato a
diffondersi progressivamente nei Paesi membri.
E’ importante ricordare, che ancor prima dell’adozione dell’AUE, la
prima riforma del Fondo europeo di sviluppo regionale (reg. 1787 del
19.6.1984), prevedendo un nuovo istituto giuridico, “il contratto di
programma”, ha contribuito all’evidenziazione delle Regioni nelle
vicende comunitarie.
L’art. 13 del citato Regolamento faceva riferimento ad un accordo
tra la Commissione e gli Stati membri, ma esso non pregiudicava la
possibilità di evidenziare le autorità regionali che erano espressamente
previste per la fase di esecuzione del programma.
Il Regolamento n. 2088 del 23 luglio 1985
5
relativo ai Programmi
integrati mediterranei (PIM), richiamava le autorità regionali per la
fase di esecuzione, ma lo schema di contratto di programma per
l’attuazione dei PIM aveva portato a compimento il processo di
evidenziazione dell’ente Regione perché prevedeva, come parti
contraenti, la Commissione, da una parte, e, dall’altra, accanto al
Governo, la Regione.
Ed invero, la Regione era la vera protagonista dell’attuazione dei
PIM in quanto era definita “l’autorità responsabile”. L’art. 9 del citato
Regolamento 2088/85 prevedeva che il comitato amministrativo fosse
5
Si tratta, come sappiamo, di un regolamento orientato a garantire un regime transitorio di interventi nelle
Regioni mediterranee di Francia, Italia e Grecia per bilanciare gli effetti inizialmente negativi per le
economie locali derivanti dall’adesione alla Comunità di Spagna e Portogallo.
Il regolamento sui PIM appare più innovativo delle previsioni del Titolo V del Trattato sulle politiche
comunitarie poiché non si limita a riferirsi alla Regioni- aree, ma implica un chiaro riferimento alle
amministrazioni substatali, come le Regioni nel caso italiano, per la prima volta formalmente riconosciute
nel processo decisionale comunitario.
I PIM, infatti, recita l’art.5 devono essere elaborati dalle autorità regionali e, dopo una fase di verifica e
approvazione da parte della Commissione, sono oggetto di apposito contratto di programma tra la
Commissione, lo Stato membro interessato e le Regioni di questo: è il primo atto formale in cui le
Regioni compaiono con posizioni e responsabilità di dignità pari ad altri soggetti contraenti.
17
presieduto dall’autorità regionale competente e svolgeva funzioni
importanti nell’esecuzione dei programmi e dei sottoprogrammi..
Oltre ai già citati regolamenti sui PIM e sui fondi strutturali con
decisione n.487/88 del 24 giugno 1988
6
, la Commissione ha istituito il
Consiglio consultivo degli enti regionali e locali, a cui è riconosciuto
però solo un limitato ruolo consultivo privo di incidenza effettiva nel
processo decisionale comunitario poiché esso non ha titolo per
richiedere di essere ascoltato né per presentare proposte. Nonostante
ciò, la sua istituzione ha costituito un passo decisivo verso
l’associazione degli enti regionali e locali all’elaborazione e
attuazione della politica regionale della Comunità: essi possono essere
consultati dalla Commissione su qualsiasi questione relativa allo
sviluppo regionale. I suoi membri, 42 per l’esattezza, che devono
avere un mandato elettivo a livello regionale o locale, sono nominati a
titolo personale dalla Commissione su proposta dell’Assemblea delle
Regioni d’Europa, del Consiglio dei comuni e delle Regioni d’Europa,
dell’Unione internazionale delle città e dei poteri locali, dunque sono
sottratti alla scelta dei governi centrali. In tal modo la Commissione ha
la possibilità di collegarsi direttamente con gli enti territoriali per
l’attuazione della propria politica regionale superando le
frammentazioni e le ripartizioni interne di competenze esistenti nei
singoli ordinamenti statali.
Un’impostazione molto avanzata è stata fornita dal Parlamento
europeo; che nel 1988, con la Relazione De Pasquale
7
, delineò una
6
V. GUCE L 247 del 6.9.1988.
7
V. doc. PE A2-218/88 e Risoluzione del 17 novembre 1988, (in GUCE C 289 del 19.12.1988) alla
quale è allegata formalmente la <Carta comunitaria della regionalizzazione>.
18
Carta comunitaria della regionalizzazione, nella quale, oltre
all’affermazione di principio sull’esigenza che in tutti i paesi vi fosse
una articolazione regionale, vi era un capitolo specifico sulla
partecipazione delle regioni al processo decisionale degli Stati e della
Comunità europea.
In questo capitolo si affermava, all’art. 24, l’esigenza che le Regioni
partecipassero in questo campo “all’assolvimento dei compiti dello
Stato”, nel successivo art. 25 si stabiliva che le Regioni
“contribuiranno alle prese di posizione degli Stati in seno alle istanze
comunitarie”.
Obbligo degli Stati era quello di garantire alle Regioni informazioni
rapide e dettagliate su tutti i progetti comunitari e si indicava la
possibilità di una istituzionalizzazione della rappresentanza delle
Regioni.
La Risoluzione del Parlamento europeo del 17 novembre 1988
auspicava che i meccanismi di concertazione settoriale fossero agili ed
efficaci e garantissero una “pronta e adeguata risposta delle Regioni
alle consultazioni effettuate”.
L’art. 26 chiedeva agli Stati un preciso coinvolgimento delle
Regioni nell’applicazione delle norme e delle politiche comunitarie,
cioè nella cosiddetta fase discendente.
L’art. 27 enunciava il principio della partecipazione delle Regioni
che dovevano essere associate all’attività degli organismi consultivi
istituiti dalle istituzioni comunitarie.
Ma il salto di qualità si è avuto con il trattato di Maastricht, che ha
rappresentato una tappa fondamentale per il riconoscimento delle
19
Regioni quale soggetto attivo, non più passivo, sulla scena
comunitaria; come soggetto territoriale, politico- amministrativo e non
semplicemente come area più o meno uniforme sotto il profilo
economico e sociale, destinataria passiva di provvedimenti decisi da
lontano e dall’alto.
Espressione di questo rinnovato ruolo partecipativo è rappresentato
dal Comitato delle Regioni (art.198 del Trattato di Maastricht, ora
263), grazie al quale le Regioni compiono un’ulteriore passo avanti
nel loro riconoscimento quale ulteriore livello comunitario accanto a
quello della Comunità e degli Stati membri, e vengono per la prima
volta chiamate non più solo all’attuazione delle politiche comunitarie,
bensì all’elaborazione stessa di tali politiche.
2.Il Comitato delle Regioni.
Decisivi sviluppi per il ruolo delle Regioni nella politica comunitaria
sono giunti, come abbiamo più volte ribadito, con il Trattato di
Maastricht. Quest’ultimo, nonostante fosse stato preceduto da un
acceso dibattito sul tema in questione e dalla presentazione di
numerose proposte, è approdato alla creazione del Comitato delle
collettività regionali e locali
8
, consentendo così finalmente un contatto
diretto e pieno tra la Comunità e Regioni, permettendo tra l’altro un
netto miglioramento delle qualità degli interventi comunitari in sede
regionale, grazie alla possibilità di controllare meglio gli esiti della
8
Si veda articoli 198 A- 198 C TCE, ora articoli 263- 265 del testo consolidato dopo li Trattato di
Amsterdam.