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INTRODUZIONE
Il contesto migratorio italiano
I fenomeni migratori ricoprono un ruolo centrale nell’analisi
delle tendenze economiche e sociali che caratterizzano un
Paese come l’Italia, che si è trasformato negli ultimi
venticinque anni da paese di emigrazione in paese di
immigrazione. L’Italia, infatti, a partire dalla sua unificazione
del 1861, è stato un grande paese di emigrazione e si è
preoccupata maggiormente di gestire questo tipo di flussi.
Invece l’immigrazione straniera in Italia, un tempo assai
esigua, aumentò in modo progressivo e repentino in pochi
decenni, cioè proprio a partire dal 1974, quando i flussi
migratori cominciarono a dirigersi anche verso i Paesi
dell’Europa meridionale, le cui frontiere apparivano meno
“chiuse” rispetto a quelle dei Paesi dell’Europa centro-
settentrionale, che proprio da quell’anno soppressero la
possibilità dell’immigrazione legale di extracomunitari per
lavoro.
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Si trattò comunque di ingressi non voluti, non programmati,
ma in gran parte regolarizzati dai pubblici poteri dopo che
l’ingresso era avvenuto illegalmente.
Originariamente, infatti, l’immigrazione straniera in Italia non è
stata prevista ed efficacemente regolamentata dai pubblici
poteri ed è per questo motivo che è apparsa alla pubblica
opinione italiana come un fenomeno repentino, massiccio e
disordinato, e dunque non è stata voluta dall’intera società,
anche perché ciò è avvenuto proprio in un periodo in cui
l’Italia ha vissuto momenti di grave crisi socio-economica e di
forte disoccupazione. Anche a causa di queste peculiari
caratteristiche storiche dell’immigrazione straniera in Italia, a
molti è sembrato facile credere che il fenomeno migratorio
fosse un evento temporaneo. L’immigrazione in Italia, invece,
non è un’emergenza momentanea, è un fenomeno che non è
affatto destinato a cessare, ma che sarà ordinario e di lunga
durata. Muta allora profondamente il ruolo che l’Italia ha nel
sistema delle migrazioni internazionali: se prima era coinvolta
solo marginalmente dal fenomeno immigrazione, ora ne è
pienamente investita
1
.
Le prime leggi in materia: la n. 943 del 1986 e la n. 39
del 1990
1
Per un approfondimento v. F. BIONDI DAL MONTE - V. CASAMASSIMA, Immigrazione e sicurezza,
tra criminalizzazione e garanzia dei diritti, in S. PANIZZA - R. ROMBOLI (a cura di), Temi e questioni di
attualità costituzionale, Padova, Cedam, 2009, p. 39 e ss.
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La prima legge varata in tema di immigrazione risale al
1986: prima esistevano solo provvedimenti risalenti all’epoca
fascista ed in particolare il Testo Unico delle leggi di polizia
del 1931, difficilmente applicabili alla luce della Costituzione
repubblicana; mancava, in altre parole, qualsiasi tipo di
legislazione e di misura restrittiva.
La legge n. 943 del 1986
2
dettava le linee di principio generali
“in materia di collocamento e di trattamento dei lavoratori
immigrati” e norme contro le “immigrazioni clandestine”. La
legge era stata emanata a favore dei soli stranieri lavoratori.
Sulla carta, detta legge garantiva parità di diritti sociali e civili
(non politici) a quanti fossero legalmente residenti nel
territorio italiano e istituiva una commissione incaricata di
controllare l’applicazione degli accordi bilaterali stipulati per
disciplinare i flussi migratori, una consulta e un apposito
servizio “per i problemi dei lavoratori immigrati
extracomunitari e delle loro famiglie”. Demandava alle
commissioni regionali il compito, peraltro non semplice, di
programmare l’utilizzazione della manodopera straniera “sulla
base delle esigenze accertate del mercato del lavoro”, agli
enti locali l’onere di facilitare l’inserimento e la disponibilità di
idonei alloggi e alle Regioni l’incarico di promuovere corsi di
lingua e cultura italiana.
2
Per un esame della legge n. 943/1986 cfr. l’ampio commentario La disciplina dei lavoratori
extracomunitari in Italia, a cura di C. CESTER, in Le nuove leggi civili commentate, 1988, pp. 1009 ss.
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La legge denotava una scarsa capacità di analisi, da parte
della classe politica, del fenomeno e ancora meno di
previsione: pochissimi datori di lavoro hanno voluto
regolarizzare la condizione lavorativa degli immigrati disposti
a lavorare sottopagati senza diritti sindacali; la legge inoltre
faceva riferimento solo al lavoro dipendente come se si
trattasse di un modello migratorio simile in tutto a quello
interno degli anni Cinquanta, quando lavoratori del Sud si
trasferivano al Nord in cerca di lavoro.
Qualche anno più tardi è entrato in vigore il decreto-legge
n. 416 del 1989, convertito in legge n. 39 del 1990
3
, nota
come legge “Martelli” (dal nome dell’allora vicepresidente del
Consiglio con delega in materia di immigrazione), recante
“Norme urgenti in materia di asilo politico, di ingresso e
soggiorno dei cittadini extracomunitari e di regolarizzazione
dei cittadini extracomunitari ed apolidi già presenti nel
territorio dello Stato”. Tale legge si presentava formalmente
come provvedimento in materia di rifugiati e profughi,
argomento principale del testo di legge, che in effetti ampliava
e definiva lo status di rifugiato e il diritto di asilo politico a esso
collegato. La seconda parte del testo si poneva, invece, come
un tentativo, per quanto tardivo, di regolamentare l’aumento
esponenziale dei flussi migratori degli anni ’80, mediante
3
Per un esame analitico della legge n. 39/1990 e delle successive modificazioni e integrazioni cfr. B.
NASCIMBENE, La condizione giuridica dello straniero. Diritto vigente e prospettive di riforma, Padova,
1997.
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programmazione statale dei flussi di ingresso degli stranieri
non comunitari in base alle necessità produttive e
occupazionali del Paese. Si delineava, fin da subito, quella
che è diventata una costante della legislazione: la gestione
dell’immigrazione da un punto di vista economico.
Per quanto riguarda la lotta all’immigrazione clandestina, la
legge Martelli introduceva per la prima volta pene detentive e
pecuniarie, aggravate dalla circostanza del concorso per
delinquere per coloro che favoriscono e sfruttano
l’immigrazione irregolare . Pene lievi, se si considerano quelle
attualmente in vigore. La legge Martelli fissava inoltre i
parametri iniziali del meccanismo generalizzato
dell’espulsione, quale mezzo di controllo degli immigrati
socialmente pericolosi o clandestini, mediante provvedimento
del prefetto disposto con decreto motivato. Esso si
sostanziava nella intimazione ad abbandonare il territorio
dello Stato entro il termine di quindici giorni, con
l’accompagnamento alla frontiera solo in caso di violazione.
La permanenza dello straniero sul territorio italiano veniva
subordinata al rilascio di un permesso di soggiorno da parte
della questura o del commissariato di Pubblica sicurezza
territorialmente competente, che indicava il motivo della
permanenza, dal quale dipendeva la durata stessa del
permesso che andava da un minimo di tre mesi a un
massimo di due anni.
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La legislazione in materia si dimostrava subito contraddittoria,
nel voler essere molto garantista per i pochi che avrebbero
potuto usufruirne e molto restrittiva per tutti gli altri; essa
demandava agli enti periferici la soluzione della maggior parte
dei compiti operativi, ma era soprattutto sul piano
dell’applicazione che la “legge Martelli” dimostrava il suo
fallimento: solo poche regioni hanno emanato una
legislazione specifica e pochi Comuni hanno istituito le
consulte e gli uffici immigrati; gli enti locali si sono trovati
sovraccarichi di lavoro e non hanno realizzato le strutture di
accoglienza necessarie; le questure sono state “prese
d’assalto” e colte assolutamente impreparate.
Le iniziative tese a modificare la legge n. 39 del 1990 sono
state varie, di diverso contenuto e successo; tuttavia, fino alla
legge di riforma del 1998, gli interventi del legislatore non si
inquadravano nell’attuazione di un chiaro e lungimirante
indirizzo politico. Il frequente ricorso allo strumento del
decreto-legge, dettato da situazioni di urgenza e necessità,
ha confermato, in realtà, la mancanza di un disegno politico di
carattere generale. In una legislazione ampiamente
condizionata dall’esigenza di controllare gli ingressi, di
contrastare l’immigrazione clandestina, di allontanare gli
stranieri irregolari o clandestini, le “aperture” più significative
sono rappresentate sia dall’affermazione della necessità di
tutelare i diritti fondamentali della persona sia dalle
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regolarizzazioni o “sanatorie” a favore degli stranieri illegittimi
o clandestini, imposte soprattutto da ragioni di urgenza e di
opportunità.
La legge “Turco-Napolitano” e il T.U. del 1998
È solo con la legge n. 40 del 1998, recante la “Disciplina
dell’immigrazione e della condizione dello straniero”, che si è
inaugurata una nuova fase, forse virtuosa, comunque di tipo
organico nelle politiche per l’immigrazione. La legge ha inteso
evidenziare un radicale riordinamento della precedente
normativa, come visto, di tipo emergenziale del 1990.
La legge n. 40 del 1998, nota come legge “Turco-Napolitano”,
ha introdotto novità di rilievo nell’ordinamento giuridico
italiano, a livello statale e regionale con notevoli innovazioni
in materia di diritti sociali e civili per gli immigrati residenti. In
particolare, l’intento del legislatore era quello di conseguire
tre fondamentali obiettivi: realizzare una politica di ingressi
limitati, programmati e regolari; contrastare l’immigrazione
clandestina e lo sfruttamento criminale dei flussi migratori;
avviare realistici ma effettivi percorsi di integrazione per i
nuovi immigrati e per quelli già regolarmente soggiornanti in
Italia. Dei tre obiettivi perseguiti dalla legge quello più
nevralgico, delicato e importante era, senz’altro, “l’incremento
delle misure di effettiva integrazione degli stranieri regolari”,
13
che si poneva in coerenza con un paese democratico e
liberale.
Con la legge n. 40 del 1998 si è potuto affermare la fine di un
ciclo disordinato, lacunoso e disorganico in materia di
immigrazione e il varo di politiche avanzate sul piano
dell’emergenza, della seconda accoglienza, dell’integrazione
e della sensibilizzazione delle popolazioni locali, rispetto al
fenomeno migratorio.
Uno degli aspetti più significativi della riforma consisteva
nell’affrontare per la prima volta, in modo organico, temi,
distinti seppur evidentemente connessi, quali l’immigrazione e
la condizione dello straniero. Il primo poteva identificarsi
soprattutto con l’ingresso, il soggiorno, il lavoro dello
straniero; il secondo con i diritti, civili e politici in senso ampio,
riconosciuti allo straniero, nonché i doveri che gli sono
imposti.
La legge “Turco-Napolitano” è stata poi incorporata, con il
decreto legislativo n. 286 del 1998, nel “Testo unico delle
disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e
norme sulla condizione dello straniero”
4
. Il T.U. conteneva un
elenco di diritti, da riconoscere allo straniero, conformi a
standard internazionali e di carattere umanitario. Il legislatore
4
I commenti alla riforma sono molti: si ricordano, fra questi, P. BONETTI, La nuova legge italiana
sull’immigrazione. Una prima lettura, in studi emigrazione, 1998, p. 137 ss; B. NASCIMBENE, Disciplina
dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, in Diritto penale e processo, 1998, p. 421 ss.; e
Lavoro autonomo, reciprocità e diritti civili: i problemi non risolti dalla nuova legge sull’immigrazione, in
Gazzetta giuridica, 1998, n. 8, p. 1 ss.; L. PEPINO, Immigrazione, politica, diritto (note a margine della
legge n. 40/98), in Diritto immigrazione e cittadinanza, 1999, n. 1, p. 11 ss.
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ha previsto, inoltre, la predisposizione, ogni 3 anni, del
“documento programmatico” elaborato dal Governo,
contenente linee programmatiche della politica in materia di
immigrati e obblighi dello Stato. In particolare, si evinceva
che l’inserimento sociale e l’integrazione nella comunità
locale erano di competenza degli enti locali, i quali dovevano
rimuovere gli ostacoli che impedivano il riconoscimento dei
diritti e il perseguimento degli interessi dei soggetti migranti e
delle loro famiglie. Nel “documento programmatico” 1998-
2000, ad esempio si prevedeva che l’obiettivo era quello di
raggiungere relazioni positive e promuovere maggiormente il
processo di integrazione.
La legge “Bossi-Fini” e i successivi c.d. “pacchetti di
sicurezza”
Nel 2002, è stata emanata la legge n. 189, cosiddetta legge
“Bossi-Fini”, che è andata ad incidere in senso vessatorio e
punitivo sull’assetto legislativo del 1998
5
. Nonostante la
Bossi-Fini costituisse formalmente solo una modifica al Testo
unico, che riprendeva a sua volta l’impianto della Turco-
Napolitano, essa vi introduceva significative modifiche, da un
lato rendendo più difficoltoso l’ingresso ed il soggiorno
5
Fra i molti contributi in materia cfr. AA. VV., Il nuovo diritto dell’immigrazione. Profili sostanziali e
procedurali, Milano, 2003; U. DE AUGUSTINIS, S. FERRAJOLO, F. A. GENOVESE, E. ROSI, M. R.
SAN GIORGIO, La nuova legge sull’immigrazione, Milano, 2003; P. SCEVI, Manuale di diritto delle
migrazioni, Piacenza, 2003; C. CORSI, Le nuove disposizioni al testo unico sull’immigrazione: tra
inasprimento della disciplina e norme “bandiera”, in Foro amm. C. D. S., 2002, p. 3047 ss.
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regolare dello straniero e agevolandone l’allontanamento,
dall’altro riformando in senso restrittivo la disciplina del diritto
d’asilo.
Il meccanismo fondamentale di controllo dell’immigrazione
rimaneva la politica dei flussi, quantificata annualmente dal
governo mediante un decreto che fissava il numero di
stranieri che potevano fare ingresso in Italia per motivi di
lavoro. La Bossi-Fini ha fatto, tuttavia, un passo ulteriore,
prevedendo restrizioni all’ingresso in Italia di cittadini
appartenenti a Paesi che non collaborano adeguatamente col
Governo italiano, producendo in tal modo una disuguaglianza
sostanziale tra gli stranieri, basata esclusivamente sulla loro
cittadinanza.
La Bossi-Fini ha aumentato anche il numero delle cause
ostative al rilascio del visto, introducendo, oltre alla mancanza
dei requisiti e i motivi di ordine pubblico, il diniego a seguito di
condanna penale, anche patteggiata. L’estensione a questo
tipo di condanna, che deriva da un accordo tra le parti e non
da un accertamento di responsabilità, era un chiaro segno del
carattere repressivo della legge, che introduceva l’obbligo per
lo straniero che richiedeva il rilascio, così come il rinnovo del
permesso di soggiorno, a essere sottoposto a rilievi
fotodattiloscopici, procedura solitamente riservata ai
delinquenti colti in flagranza di reato e non prevista né per i
cittadini italiani né per i cittadini stranieri appartenenti ai Paesi
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dell’Unione europea. La l. n. 189 del 2002 si dimostrava ostile
anche verso il processo di stabilizzazione dell’immigrato,
dilatando da cinque a sei anni i termini per la richiesta della
carta di soggiorno, quella che consente la permanenza a
tempo indeterminato.
Ma è in materia di lotta all’immigrazione clandestina che la
legge Bossi-Fini si è esposta alle critiche più severe. Seppure
venissero aumentate le pene detentive e pecuniarie
connesse al favoreggiamento dell’immigrazione non regolare,
la principale novità è stata la riforma della procedura di
espulsione. Per comprenderne l’impatto è necessario chiarire
il quadro delineato dalla normativa precedente. La “Turco-
Napolitano” prevedeva tre tipi di espulsioni, due per motivi
giudiziari e una per ragioni amministrative, risultata poi quella
di maggior applicazione. L’espulsione amministrativa,
disposta dal Ministro dell’Interno o più comunemente dal
Prefetto per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello
Stato, consisteva in un decreto motivato contenente
l’intimazione a lasciare il territorio nazionale entro un termine
di quindici giorni. L’espulsione, eseguita con
accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza
pubblica, era prevista solo nel caso che lo straniero già
espulso si fosse indebitamente trattenuto nel territorio dello
Stato oltre il termine fissato dall’intimazione, oppure vi fosse
la concreta possibilità che volesse sottrarsi all’esecuzione del
17
provvedimento. Nel caso non fosse possibile l’immediato
accompagnamento alla frontiera, per mancanza di un mezzo
di trasporto adeguato o il compimento di attività di
accertamento sull’identità e la cittadinanza dello straniero, la
legge prevedeva che l’immigrato fosse trattenuto presso uno
dei “Centri di permanenza temporanea e assistenza”, istituiti
proprio a tale scopo. La ratio della norma era chiara: gestire
le procedure di rimpatrio in forma amministrativa, attribuendo
carattere residuale all’esecuzione forzata del provvedimento.
La Bossi-Fini ha ribaltato questo scenario, invertendone le
proporzioni. L’espulsione coatta è diventata il meccanismo
principale, rendendo residuale l’applicazione della sola
intimazione. Il nuovo assetto ha comportato un incremento
nel ricorso ai Centri di permanenza temporanea, divenuti di
fatto centri di detenzione, dai quali tutti i clandestini erano
costretti a passare, indipendentemente dal fatto di essere o
meno socialmente pericolosi.
Appena dopo le elezioni dell’aprile 2008, che hanno portato
nuovamente al governo la compagine di centro-destra, sono
stati varati alcuni provvedimenti di legge, che hanno introdotto
diversi cambiamenti nel Testo Unico. In particolare, la legge
n. 125 del 2008, nota anche come “primo pacchetto-
sicurezza”, ha modificato alcune disposizioni del codice
penale, del codice di procedura penale e del Testo Unico
sull’immigrazione.
18
La modifica più rilevante, ai presenti fini, che riguarda il
codice penale è stata quella che ha introdotto, all’art. 61 c.p.,
il n. 11), contenente l’aggravante comune dell’illegale
presenza nel territorio dello Stato nella commissione del fatto
di reato. Si può a tal proposito ricordare che la Corte
Costituzionale, con la sentenza n. 249 del 2010, ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale dell’aggravante di clandestinità
(ipotesi di cui al n.11-bis dell’art. 61 c.p.).
Relativamente al codice di procedura penale, la l. n. 125 del
2008 ha invece generalizzato il ricorso ai giudizi direttissimi e
immediati delitti previsti e puniti nel testo unico immigrazione,
attribuendo ad essi la priorità nella formazione dei ruoli di
udienza e nella trattazione dei processi.
Le modifiche operate nel testo unico dalla legge in commento
hanno riguardato, invece, l’introduzione di due aggravanti
speciali in ordine al delitto di favoreggiamento
dell’immigrazione clandestina; la previsione di un’ulteriore
condotta di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina
consistente nel dare alloggio ad uno straniero, privo di titolo di
soggiorno, in un immobile di cui si abbia disponibilità;
l’inasprimento delle sanzioni previste per il datore di lavoro
che occupa alle proprie dipendenze lavoratori stranieri privi
del permesso di soggiorno; il cambio della denominazione dei
“Centri di permanenza temporanea” in “Centri
d’identificazione ed espulsione” (da CPT a CIE).