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PREMESSA
Nel decennio successivo alla fine della Guerra Fredda, la comunità internazionale ha
riservato sempre maggiore attenzione alle situazioni di gravi violazioni dei diritti umani. In
modo particolare, si è proposto il problema relativo alla legittimità, nel diritto internazionale,
dell'uso della forza allo scopo di porre rimedio a tali situazioni.Con l'entrata in vigore della
Carta delle Nazioni Unite, il divieto di ricorrere all'uso della forza è norma di diritto
internazionale consuetudinario. Sono previste però due eccezioni, e cioè la legittima difesa
e il ricorso a misure coercitive autorizzate dal Consiglio di sicurezza nell'ambito del
sistema di sicurezza collettiva.Il mondo occidentale ha quindi sentito il "bisogno" di
intervenire in quegli stati in cui si perpetravano violazioni massicce dei diritti umani, e ciò
grazie soprattutto al declino dell'impero sovietico e alla assunzione, da parte del Consiglio,
del ruolo relativo al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale; tutto questo
ha permesso alla comunità internazionale di ricondurre le violazioni dei diritti umani
nell'ambito del sistema di sicurezza collettiva. I diritti umani, in questo senso, non vengono
più considerati come una materia rientrante nella domestic jurisdiction di uno Stato.
Numerosi sono quindi stati gli interventi compiuti in quest'ottica, in paesi quali la Somalia, il
Ruanda, Haiti, ecc.
Tra i vari interventi, la "guerra umanitaria" condotta dai paesi della Nato contro la
Repubblica Federale Jugoslava nell'aprile del 1999 è quella che più di tutte ha fatto
discutere.
Se per gli interventi posti in essere in precedenza vi è stato almeno un tentativo di
"copertura" giuridica, per la guerra della Nato in Kosovo ciò non è stato possibile.
L'intervento della Nato in Kosovo non poteva essere giustificato a livello giuridico: si sono
allora dovuti indicare valori ancora più "alti". A proposito dell’intervento in Kosovo si è
parlato anche di "guerra morale", di una guerra finalizzata alla tutela dei diritti umani delle
persone innocenti. E' sicuramente difficile capire le ragioni strategiche di una guerra e di
indicarne le conseguenze che essa potrà avere sul sistema delle relazioni internazionali
nei prossimi anni. E' difficile indicare le cause e gli effetti di un evento così complesso e
poco trasparente quale è stato l'intervento per il Kosovo. Basti pensare alle varie
motivazioni adotte dalle potenze occidentali o alla "farsa" delle trattative di Rambouillet.
Occorre aggiungere poi, per inquadrare il fenomeno, anche il contesto delle incertezze e
e
delle instabilità che caratterizzano il panorama mondiale dalla fine della Guerra Fredda,
che si è pure riflesso nell'inerzia del Consiglio di sicurezza il quale, nel caso del Kosovo
non è riuscito a proporre una soluzione pacifica del problema.
In questo contesto di incertezze, la Nato ha sentito il dovere di intervenire con mezzi
militari per arginare la "catastrofe umanitaria" realizzata da Milosevic contro il proprio
popolo.Ciò le era permesso dal "New Strategic Concept" e, in special modo, da
quell'articolo che le consente di intervenire e di gestire quelle crisi "non articolo 5", cioè
quelle non previste dal Trattato istitutivo e dette fuori area. Complesso è capire quali
possano essere stati i disegni strategici che possono aver spinto le potenze occidentali, in
primis gli Stati Uniti, a muovere guerra alla Jugoslavia. Quello che è certo è che il motivo
umanitario è apparso insufficiente a giustificare l'uso della forza. E il mezzo della guerra è
sembrato certo sproporzionato rispetto al fine dichiarato di tutela dei diritti e, in generale,
della vita di civili innocenti. Con la guerra nel Kosovo si è messa alla "prova" la capacità
del diritto e delle istituzioni internazionali di operare come strumenti di riduzione della
violenza e di regolazione dell'uso della forza da parte degli Stati. Gli Stati che hanno
deciso di intraprendere la "guerra umanitaria" hanno introdotto una radicale innovazione
sia nelle fonti del diritto internazionale sia negli standard di legittimazione dell'uso della
forza.
Il consenso degli Stati non sembra più essere la fonte primaria della legalità
internazionale, come dovrebbe esserlo in base al principio della loro "eguale sovranità" e
come parrebbe essere confermato, tra l'altro, nella stessa Carta delle Nazioni Unite. Oggi
sembra invece che nelle relazioni internazionali riemerga la legge del più forte.
Negli ultimi tempi la protezione dei diritti dell’uomo viene usata come criterio o, meglio,
rappresenta quella condizione che consente di usare la forza in modo legittimo, al posto
del principio stabilito dall’art.39 della Carta dell’Onu (capo VII) che stabilisce essere la
tutela e il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale il compito
fondamentale del Consiglio di sicurezza. E’ anche vero che nello stesso art.39 sono state
fatte rientrare quelle violazioni dei diritti umani, poste in essere nei vari paesi, poiché esse
rappresentano delle minacce alla pace e alla sicurezza internazionale. Infatti, le situazioni
di violenza interna, oltrepassando i confini, possono intaccare la sicurezza di altri Stati con
ondate migratorie, ecc., risultando come “emergenze umanitarie”. Sembra che l'intervento
a fini umanitari possa prescindere, in caso di massicce violazioni dei diritti umani, dal
principio di sovranità degli Stati e dal connesso principio di non ingerenza nelle loro
f
questioni interne. La protezione dei fondamentali diritti umani dovrebbe scalzare il principio
della sovranità degli Stati e di invalicabilità delle loro frontiere.
La dottrina dei diritti dell'uomo, con la sua portata universalistica, rischia di venire
interpretata dai potenti paesi occidentali, come una nuova ideologia che serve ad
aggredire le diversità culturali degli altri paesi.
La dottrina della "guerra giusta", con tutte le sue elaborazioni, tende ad incarnarsi nella
pretesa "umanitaria", per la quale l'uso della forza e l'uccisione di civili innocenti è
congruente con la tutela dei diritti umani. Questa nuova filosofia dell'"Ingerenza
umanitaria" ha però trovato l'opposizione del mondo non occidentale.
Gli effetti di questa guerra "umanitaria" della Nato in Kosovo sugli equilibri politici del
pianeta si vedranno nei prossimi anni. E questi effetti dipenderanno, molto probabilmente,
dall'assetto del diritto internazionale e dal ruolo che vorrà assumere l'Onu come organismo
internazionale.
1
CAP.1 LA GUERRA
1. INTRODUZIONE
Le nostre conoscenze sulla guerra sono molto limitate e tanto più scarse quanto più
invece parrebbe importante riuscire ad approfondire quello che è, nella storia
dell’umanità, l’evento a più sconvolgente che possiamo immaginare.
Nulla ha coinvolto nelle sue vicende in modo altrettanto intimo e totalizzante gli
esseri umani quanto la guerra, con l’impegno assoluto che impone, la morte, il dolore, le
sofferenze, la mobilitazione di ogni risorsa, la distruzione di ogni tipo di bene, senza
consentire particolari distinzioni tra civili e combattenti, tra giovani e vecchi, tra uomini
e donne, tra bambini e malati
1
. In effetti, la guerra rappresenta certamente l’evento più
drammatico e sconvolgente che possa colpire milioni di persone in un solo e stesso
istante, ma essa è anche l’evento dal quale discenderà la definizione della pace. La fine
d'ogni guerra colloca gli stati in una nuova e diversa situazione d’equilibrio; a partire da
quella, i rapporti tra gli stati che avevano combattuto tra loro assumono una forma di
ordine che assomiglia a quella dell’ordine che caratterizza i rapporti politici interni ad
uno stato, una volta che la lotta politica si concluda. La guerra produce vincitori e vinti,
vale a dire stati destinati a governare e stati obbligati ad obbedire
2
. Nessun’altra impresa
umana comporta, quindi, un così globale e anormale impiego di risorse, materiali e
morali, in nessun altro caso altrettanto rapidamente consumate e trasformate in
distruzione. La guerra produce dolore e sofferenza, pur senza riuscire a spiegarne le
ragioni, senza mostrare la capacità di dare una stabile soluzione ai problemi per
risolvere i quali era scoppiata. La principale consolazione che ogni guerra porta con sé è
la sentenza che quella sarà l’ultima, perché la sua conclusione garantirà la pace futura.
Da rilevare poi il fatto che la guerra comporta alcune mostruosità, per raggiungere degli
obiettivi che invece mostruosi e insensati non sono: la vittoria delle forze libere su
quelle oppressive, oppure l’indipendenza nazionale
3
. Per dare l’idea di questo fenomeno
di ampia portata e delle sue vaste e sconvolgenti conseguenze, è sufficiente
l’affermazione di Micheal de Montagne (1553-1592): “Quanto alla guerra, che è la più
1
L. BONANATE, La guerra, Laterza, Roma-Bari 1998, cap.1.
2
L. BONANATE, Né guerra né pace, Franco Angeli Libri, Milano 1987, cap.1.
3
L. BONANATE, Né guerra né pace, cit., cap.6.
2
grande e pomposa delle azioni umane, mi piacerebbe sapere se vogliamo servircene
come prova di qualche nostra prerogativa o, al contrario, come testimonianza della
nostra debolezza e imperfezione, poiché invero sembra che la scienza di distruggerci e
ucciderci a vicenda, di rovinare o perdere la nostra stessa specie, non abbia molto che di
farsi desiderare dalle bestie che non la posseggono”
4
. La scienza della guerra si impegna
nello sforzo di arrecare morte e dolore nel modo più devastante e metodico possibile.
Bisogna dire che, anche oggi, la nostra capacità di offrire una visione complessiva e
sistematica della guerra appare ancora terribilmente primitiva o approssimativa. Ad
esempio, al termine della guerra del Golfo (1991, invasione iraquena del Kuwait)
nessuna fonte autorevole è riuscita a contabilizzare in modo incontestabile il numero
stesso delle vittime. La ragione che rende complessa ed evanescente una qualsiasi
sistemazione concettuale del fenomeno guerra, che si presti anche alla sua
storicizzazione, consiste nella enorme varietà di manifestazioni che essa ha avuto
5
.
2. CONCEZIONI DELLA GUERRA: GROZIO E HOBBES
Tra le varie considerazioni e giudizi sulla guerra, merita particolare attenzione la sua
definizione ad opera di Grozio, il cui nome è legato alla tradizione storica del diritto
internazionale. Affronta il problema del diritto internazionale che a suo giudizio,
consiste nella contrapposizione tra diritto e guerra: la guerra, di per sé, è il contrario del
diritto, ne è la negazione, ma il diritto la vuole regolamentare e limitare. Silent leges
inter arma, ammette Grozio e con lui tutta la successiva teorica del diritto
internazionale. Le leggi che vengono sospese sono solo quelle civili, non quelle
immutabili che la natura detta, né quelle, volontarie, che gli stati si accordano di
regolamentare nel cosiddetto “diritto di guerra”. Quindi la guerra non è più l’antitesi del
diritto, ma un campo di attività da regolamentare, né più né meno di altri. Ma in questo
caso non è possibile disporre di un’autorità super partes che codifichi e tuteli i diversi
impegni giuridici dei consociati; l’unica fonte di produzione giuridica diventa la
consuetudine, cristallizzata dalla pratica dei rapporti internazionali. La “comunità
internazionale” si viene a formare sulla base del consenso che unisce i diversi stati: essa
4
M. DE MONTAGNE, Saggi, trad. it. Adelphi, Milano 1992, II, XII, p.614.
5
L. BONANATE, La guerra, cit., cap.1.
3
non sarà altro che il substrato sociale da cui le consuetudini hanno origine, come la
società è il substrato dello stato. Secondo Grozio, la guerra è uno strumento di
conservazione e, quindi, non una violazione dell’accordo che dà origine alla comunità
internazionale, ma ne diventa uno strumento di consolidamento. La guerra viene
assimilata ad una procedura giudiziaria, come se due stati in guerra riproducessero la
stessa situazione di due litiganti davanti ad un tribunale. Da questa impostazione,
Grozio analizza il fenomeno bellico alla luce del diritto. La guerra è di per sé uno
strumento di conservazione della società, non una parentesi o una malattia del struttura
sociale internazionale, ma un vero e proprio stato: ciò che la definisce non è l’azione
militare, ma la sua immanenza come regola di comportamento
6
Per quanto concerne Hobbes, bisogna dire che egli manifesta il proprio interesse per i
problemi politici, che lo spinge ad esporre in modo globale il suo pensiero sull’uomo,
sullo stato, sulla religione e le superstizioni che ne possono derivare, nella più nota delle
sue opere, il Leviatano (1651). Benché il vocabolario di Hobbes sembra più adatto a
descrivere i rapporti bellicosi tra stati che non quelli inter-individuali, il posto che egli
assegna nella sua opera alle relazioni internazionali è più che marginale, quasi nullo.
Però, alcuni dei presupposti tradizionali della teoria delle relazioni internazionali
discendono proprio dalla sua impostazione del problema della pace e della guerra.
Hobbes è il grande teorico di uno stato che deve essere assoluto per garantire la pace
sociale, così turbata negli anni in cui egli vive. Il pericolo della guerra civile è colto in
tutta la sua gravità, in quanto viene assimilato all’anarchia naturale delle relazioni
internazionali. L’uso che Hobbes fa degli esempi internazionali è strettamente
funzionale al suo progetto di politica interna; il motivo che spinge gli uomini ad uscire
dallo stato di natura, sulla base della loro eguaglianza, è che la situazione sarebbe
altrimenti insostenibile. La teoria politica hobbesiana si organizza intorno al concetto
fondamentale di “stato di natura” in cui gli uomini, a causa della loro eguaglianza e
della limitata possibilità di appropriarsi delle risorse naturali, conducono una continua e
reciproca lotta per la sopravvivenza. Questa situazione naturale sconfina nella guerra
che gli uomini sempre si muovono, per competizione, per paura, per desiderio di gloria.
In questo periodo non esiste progresso se non nell’arte bellica, e gli uomini sono l’uno
rispetto all’altro homo homini lupus. Secondo Hobbes, nella natura umana ci sono tre
6
L. BONANATE, Diritto naturale e relazioni tra gli stati, Loescher Editore, Torino 1976, pp.78-100.