2
In seguito alle riforme degli anni ’90 (principalmente 1993 e
1998) la situazione muta radicalmente e si assiste ad un
riconoscimento da parte dell’ordinamento positivo delle implicazioni
contenute in quel concetto di dirigenza enunciato dalla scienza
dell’amministrazione: in poche parole il modello preso come punto di
riferimento dal legislatore è quello del manager privato. Ciò è anche
conseguenza della metamorfosi realizzata nel sistema di rapporti tra
politica e amministrazione: il rapporto di osmosi tra le due sfere, che
caratterizzava il «sistema» italiano sin dall’epoca risorgimentale, cede
il passo ad una distinzione (funzionale) che riconosce competenze (e
responsabilità) esclusive alla dirigenza. Questo comporta una perdita
di potere per la sfera politica (cui sono attribuite funzioni di indirizzo
politico–amministrativo), compensata (in buona parte) dalla
caratterizzazione fiduciaria del rapporto con la dirigenza: la disciplina
degli incarichi dirigenziali stabilita dal legislatore si presta, infatti, a
questo «recupero» di potere del corpo politico nei confronti dell’alta
burocrazia.
Queste innovazioni nel rapporto tra politici e dirigenti sono state
oggetto di forti critiche da chi vi ha ravvisato una lesione
dell’autonomia e dell’indipendenza dei pubblici funzionari e, di
conseguenza, del principio costituzionale d’imparzialità
dell’amministrazione
1
.
Cercheremo quindi di vedere se, quello che da molte parti viene
definito come lo spoils system all’italiana, sia innanzitutto descrivibile
in questa maniera e se, cosa più importante, sia compatibile con
l’assetto dei rapporti tra politica e amministrazione previsto in
Costituzione. Cercheremo, in poche parole, di evidenziare i nodi
3
problematici sollevati dalla disciplina della dirigenza, tenendo conto
anche delle recenti modifiche legislative
2
.
Dato che la dirigenza rappresenta il momento d’intersezione fra
gli organi burocratici e gli apparati di governo, il lavoro inizierà
prendendo in esame la storia dei rapporti tra politica e
amministrazione dal periodo liberale, fino a giungere all’attuale
configurazione del rapporto.
Una ulteriore precisazione riguarda il campo d’indagine, che è
stato delimitato all’amministrazione centrale dello Stato, tralasciando
considerazioni riguardanti le amministrazioni periferiche, le autorità
indipendenti, gli enti e le società.
1
Oltre che un controsenso in un assetto di distinzione tra politica e amministrazione.
2
Introdotte dalla legge 145/2002 (Disposizioni per il riordino della dirigenza statale e per favorire
lo scambio di esperienze e l’interazione tra pubblico e privato).
140
SUNTO
La figura del dirigente pubblico presentava, fino ad una decina di anni
fa, una sostanziale ambiguità di fondo, che traspariva in qualsiasi
tentativo di regolamentazione giuridica.
Difatti, da un lato, la nozione che del dirigente si aveva nella
scienza dell’amministrazione era quella di un soggetto, posto in
posizione di soprordinazione rispetto ad altri per la competenza e la
professionalità riconosciutagli, il quale detiene, anche
sostanzialmente, il potere decisionale e direttivo, facendosi altresì
carico delle responsabilità che il reale esercizio di quest’ultimo
comporta. In altre parole, nel linguaggio comune, è «dirigente» colui
che è al vertice di una determinata amministrazione: il moderno
manager.
D’altro lato, vi era una figura specifica di dirigente, quella di
dirigente pubblico, così come regolamentata e disciplinata
dall’ordinamento positivo e che nulla aveva in comune con la nozione
di cui sopra: si trattava di un funzionario, preposto ad un ufficio
direttivo dell’amministrazione centrale, che tuttavia rimaneva in
posizione di subordinazione gerarchica nel ministro titolare del
dicastero. Quest’ultimo, infatti, assumeva la responsabilità sostanziale,
quantomeno sul piano politico (art. 95, secondo comma, Cost.), di tutti
gli atti amministrativi, anche di quelli formalmente imputabili a
pubblici dirigenti.
In questo senso, il concetto di dirigenza si configurava come
dogmatico e rispecchiava una continua tensione tra ciò che in astratto
implicava e la figura in concreto delineata dall’ordinamento.
141
In seguito alle riforme degli anni ’90 (principalmente 1993 e
1998) la situazione muta radicalmente e si assiste ad un
riconoscimento da parte dell’ordinamento positivo delle implicazioni
contenute in quel concetto di dirigenza enunciato dalla scienza
dell’amministrazione: in poche parole è la figura del manager privato
che viene presa a modello dal legislatore. Ciò anche in conseguenza
della metamorfosi realizzata nel sistema di rapporti tra politica e
amministrazione: il rapporto di osmosi tra le due sfere, che
caratterizzava il «sistema» italiano sin dall’epoca risorgimentale, cede
il passo ad una distinzione (funzionale) che riconosce competenze (e
responsabilità) esclusive alla dirigenza. Questo comporta una perdita
di potere per la sfera politica (cui sono attribuite funzioni di indirizzo
politico–amministrativo), compensata (in buona parte) dalla
caratterizzazione fiduciaria del rapporto con la dirigenza: la disciplina
degli incarichi dirigenziali stabilita dal legislatore si presta, infatti, a
questo «recupero» di potere del corpo politico nei confronti dell’alta
burocrazia.
Detto ciò, lo scopo del presente lavoro sta nell’analizzare i
rapporti tra potere politico e dirigenti così come si vengono a
configurare in seguito alle recenti riforme: ciò ci permetterà di
valutare se, quello che da molte parti viene definito come lo spoils
system all’italiana, sia innanzitutto descrivibile in questa maniera e se,
cosa più importante, sia compatibile con le disposizioni costituzionali
riguardanti la pubblica amministrazione, su tutte quella relativa al
principio d’imparzialità.
Dato che la dirigenza rappresenta il momento d’intersezione fra
gli organi burocratici e gli apparati di governo, il lavoro inizia
prendendo in esame la storia dei rapporti tra politica e
142
amministrazione nel periodo liberale. Nel primo capitolo, infatti, dopo
un breve cenno all’organizzazione amministrativa conseguente
all’unificazione del Regno d’Italia, viene trattato uno dei temi più
dibattuti dell’epoca, quello relativo all’imparzialità e all’ingerenza dei
partiti politici nell’amministrazione. Il pensiero liberale si rendeva
conto della necessità di risolvere questo «problema», derivante dal
nuovo assetto costituzionale dello Stato, e a tale scopo alcuni dei suoi
più illustri esponenti (Minghetti e Spaventa) proponevano diverse
soluzioni, tra cui quella di «separare» politica e amministrazione. La
risposta del legislatore, però, fu (solamente) la creazione della IV Sez.
del Consiglio di Stato, che avrebbe dovuto sanzionare le illegalità
della P.A.
Da segnalare l’attualità della questioni trattate, evidente,
peraltro, anche nelle considerazioni svolte nei paragrafi sui c.d.
«funzionari politici».
L’Assemblea Costituente ripropone la questione dei rapporti tra
politica e amministrazione e la Carta costituzionale che viene
approvata sembra, a prima lettura, presentare antinomie e
contraddizioni nei sui principi. In realtà ciò è conseguenza della «non
scelta» della Costituzione, che non delinea un preciso modello di
rapporti tra politica e amministrazione. Così dal modello gerarchico
tipico della tradizione italiana si cerca (inizialmente senza successo,
nel 1972) di transitare verso un modello maggiormente il linea con le
previsioni del secondo comma dell’art 97, riletto anche alla luce della
proposta Mortati. Bisogna aspettare la stagione riformistica degli anni
’90 perché il rapporto tra politica e amministrazione si rinnovi e si
configuri in termini di «distinzione funzionale»: le funzioni delle due
sfere vengono distinte in modo da riconoscere alla dirigenza
143
competenze (e responsabilità) esclusive impensabili nel precedente
assetto gerarchico.
Il nuovo schema organizzativo comporta anche riflessi sulla
teorica del principio d’imparzialità, che sembra arricchirsi di ulteriori
significati.
Il secondo capitolo vuole ripercorrere le linee guida e le
problematiche suscitate dalle riforme degli ’90 nella disciplina della
dirigenza che possono essere sintetizzate in questa maniera: alla
tendenza alla fiduciarietà, evidente nelle scelte legislative, si
contrappone il richiamo all’imparzialità effettuato dalla dottrina e dal
giudice amministrativo.
Riconoscendo i limiti di una impostazione in termini
strettamente di causa–effetto, la fiduciarietà viene posta in relazione
con le riforme amministrative (privatizzazione dei rapporti di lavoro e
distinzione tra politica e amministrazione) e le riforme dei sistemi
elettorali (l’introduzione di un sistema tendenzialmente maggioritario)
che hanno caratterizzato l’ultimo decennio.
A questo punto vengono analizzati, in maniera sintetica, i
principali istituti della disciplina della dirigenza, risultante dalla
normativa del 1993 come modificata nel 1998: la privatizzazione del
rapporto di lavoro, l’accesso, il ruolo unico, la disciplina del
conferimento degli incarichi e la responsabilità dirigenziale.
L’obiettivo è sia quello di poter porre le basi per il confronto con le
nuove disposizioni (2002), esaminate nel terzo capitolo, sia quello di
iniziare ad evidenziare i nodi problematici che emergono.
La dottrina, in questo senso, ha rilevato alcuni «difetti»
nell’assetto venutosi a creare: da segnalare, su tutti, il potere di
144
condizionamento di cui sembrano godere i ministri nei confronti della
dirigenza grazie alla facoltà di «non–rinnovo» dell’incarico.
Alle critiche sollevate in dottrina si aggiungono anche le
censure alla disciplina mosse, in varie occasioni, dal giudice
amministrativo (T.A.R. Lazio). Vengono ripercorse, in ordine logico,
tutte le fasi della vicenda che hanno portato alla «non–risposta» della
Corte Costituzionale nell’ordinanza n. 11/2002.
Nel terzo capitolo vengono prese in esame le novità introdotte
dalla recentissima legge di riordino della dirigenza (n. 145/2002).
La nuova disciplina mantiene fermo il riparto di funzioni
delineato nel 1998 e la distinzione fra rapporto di lavoro e rapporto
d’ufficio del dirigente.
Le novità più rilevanti riguardano sicuramente il conferimento
degli incarichi dirigenziali.
Ferma restando la temporaneità dell’incarico, scompare il
riferimento al criterio della rotazione, viene ridefinito (in maniera più
chiara) il rapporto tra provvedimento di conferimento e contratto
individuale, vengono ritoccati i limiti temporali massimi degli
incarichi (3 anni per quelli di dirigenza generale e 5 per gli altri) e,
innovazione più criticata, viene cancellato il limite temporale minimo
(di due anni) stabilito in precedenza. Questa ultima disposizione,
accompagnata alla facoltà di «non–rinnovo» – lasciata inalterata dalla
riforma, senza prevedere obblighi di motivazione e, tanto meno, senza
ancorarla esplicitamente al sistema di valutazione – ha, secondo la
dottrina, precarizzato ulteriormente la posizione del dirigente, la cui
indipendenza e autonomia (e di conseguenza l’imparzialità
dell’amministrazione) sono fortemente posti a rischio.
145
Relativamente alle cariche apicali, già soggette a possibilità di
spoils system da parte del governo entrante, la legge si limita a
stabilire l’automaticità della cessazione di tali incarichi.
Sembra, invece, davvero meritevole di censura l’operazione di
spoils system una tantum prevista dalla disciplina transitoria, che non
pare avere altre giustificazioni se non quelle di ordine politico.
Da segnalare, ancora, l’aumento delle quote di incarichi
conferibili ad esterni, e quindi la dilatazione dell’area suscettibile di
funzionare in termini di «in–and–outers», e le nuove disposizioni in
tema di responsabilità dirigenziale, che, comunque, non sembrano di
maggiore impatto rispetto alle precedenti, data la non obbligatorietà
dell’attivazione dei meccanismi di valutazione.
Positiva, al contrario, la nuova disciplina degli accessi, che
reintroduce il corso–concorso come (una delle) modalità di
reclutamento della dirigenza.
In chiusura di capitolo, non essendoci sentenze riguardanti la
costituzionalità della nuova normativa, prendendo come punto di
partenza le osservazioni svolte dalla Corte Cost. nell’ordinanza
11/2002, ci si è limitati ad esporre il giudizio della dottrina (in
particolar modo di Cassese) sull’assetto generale che si è venuto a
creare.
Il capitolo conclusivo si propone di offrire spunti critici di
valutazione del «sistema» italiano.
Prescindendo dal fatto se la nuova riforma si collochi o meno su
una linea di continuità con la precedente, i principali aspetti da
approfondire sembrano essere quello della fiduciarietà e della
temporaneità degli incarichi.
146
L’impossibilità di definire in maniera univoca la nozione di
fiducia ha portato la dottrina ad elaborare alcuni di indicatori della
fiduciarietà, in modo da catalogare le nomine dirigenziali, secondo
una scala di incidenza della fiducia, che, ovviamente, come ogni
classificazione risente di un certo grado di rigidità. Il gradino più alto,
rappresentato dai «rapporti fiduciari», è caratterizzato dalla possibilità
di revoca ad nutum del dirigente.
È proprio il principio della temporaneità degli incarichi che
stempera la rigidità di tale classificazione, poiché esso incide
sull’autonomia e l’indipendenza del dirigente, rafforzando l’elemento
fiduciario. Le considerazioni svolte nel relativo paragrafo mettono in
luce tutti gli aspetti problematici che ne conseguono, soprattutto per
come è stato introdotto nel nostro ordinamento.
Alla luce di quanto detto, sembra che la definizione di spoils
system all’italiana, con le dovute precisazioni, possa essere utilizzata
per descrivere un «sistema» di relazioni tra vertici politici e vertici
burocratici nel quale la fiduciarietà (e la temporaneità degli incarichi)
gioca(no) un ruolo molto importante, come nel nostro.
In conclusione, di fronte ad orientamenti che esprimono un
sostanziale sfavore per la «fiduciarietà» e scelte legislative che
enfatizzano fortemente il nesso fiduciario, si tratta probabilmente di
optare per una soluzione il più possibile equilibrata, che tenga insieme
e contemperi le differenti esigenze e le motivazioni che stanno alla
base dell’una e dell’altra. Si tratta di un problema di «bilanciamento»
tra i principi di garanzia ed efficienza, in modo tale da far si che il
trade off che li caratterizza cessi di essere soltanto un limite, per
presentarsi come valore potenziale degli ordinamenti democratici.