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compatti, oltre a presentare confini fragili ed incerti, comprendono al proprio interno
spezzoni eterogenei e incongrui derivanti da altri schemi di riferimento ma si può
cercare di disporli criticamente entro un orizzonte di convergenze possibili e di
sinergie operative, provandosi almeno ad integrarli, nonostante il rischio di un certo
eclettismo, rispetto a livelli diversi di esercizio."(Bertolini e Massa, 1997, p23). In
questo consisterà il mio tentativo.
La parcellizzazione del quadro di riferimento e la scarsità di tentativi di creare un
ordine, o comunque dei punti di riferimento, in questo campo del sapere sembra,
comunque, ampiamente giustificata dalla "complessità" rinvenibile nell'ambito della
formazione degli adulti. Complessità
1
: ecco la montagna che mi sono trovata di
fronte non appena ho superato la superficiale prima impressione di chiarezza e
semplicità che mi sembrava pervenire dalla espressione "formazione manageriale".
Complessità che sto comunque imparando ad amare, essendo ormai la chiave di
lettura di molti fenomeni che ci circondano ed essendo soprattutto ciò che rende più
interessante la sfida della conoscenza. Complessità peraltro non equivale a
confusione e così, cercare di fare chiarezza non dovrebbe equivalere a ridurre la
complessità del fenomeno, per renderlo più alla portata delle nostre categorie
(tentazione in cui siamo sempre portati a cadere), ma avvicinarci ad esso, coglierne il
fascino, riconoscere la parzialità della nostra visione e la nostra incapacità di renderlo
nella sua interezza. Ecco perché sento, di fronte a tale impresa, che le mie forze sono
gravemente insufficienti, nonostante ciò tenterò di riportare quanto io ho saputo
cogliere di questo fenomeno, riconoscendo, fin d'ora, la limitatezza del mio sguardo.
Sembra doveroso, però, a questo punto cercare di individuare alcuni elementi di
questa complessità che é una caratteristica essenziale, non accidentale,
dell'argomento in questione. Penso che si possa parlare di complessità in tre direzioni
e il prenderle in considerazione mi piace paragonarlo ad un aprire tre porte che danno
accesso a tre differenti "dimensioni" della complessità che possono venire individuate
parlando di formazione manageriale. Volendo restare all'interno di questa immagine
aggiungo solo che io mi limiterò a restare sulla soglia senza entrare nelle stanze. Una
prima porta si apre sull'attuale panorama del mondo del lavoro. D. De Masi (in
U.Morelli, 1998) fa notare che le caratteristiche principali dell'azienda manifatturiera
disegnate da Taylor sono in via di declino. A tal proposito delinea un quadro
interessante, sottolineando le principali direzioni del cambiamento. Stanno venendo
1
Intorno al paradigma della complessità si è sviluppata una intera corrente di pensiero: il pensiero
sistemico della complessità. Esso “concepisce l'individuo come un "sistema", ovvero come il risultato
dell'interrelazione fra le parti che lo compongono e fra queste e i sistemi relazionali in cui è inserito".
(D.Demetrio, 1997, p.178). E.Morin è uno fra i maggiori teorici sistemici, egli "sviluppa e
approfondisce l'aspetto della "complessità", come impossibilità di ridurre il sistema alla somma delle
sue parti, e quindi ad unità elementari. La realtà, con i suoi caratteri di unicità e irripetibilità, di
contraddizione e di mutamento, di imprevedibilità e incertezza, di caso e disordine, si presenta come
una sfida all'agire educativo. Qualsiasi intervento in questo senso deve muoversi secondo una
prospettiva ecologica, in grado cioè di concepire ogni evento come parte di un contesto più ampio e
di leggere le interazioni e le retroazioni che a questo contesto lo vincolano" (D.Demetrio, 1997,
p.179). A tal proposito Gasparini spiega che "Non si tratta di negare in assoluto il valore euristico
della modellistica organizzativa così come si è sviluppata dalla teoria classica in poi, ma piuttosto di
riconoscere il carattere sistemico delle interazioni fra dimensioni, fattori, variabili che interessano,
dall'interno e dall'esterno, le organizzazioni" (G.Gasparini, in AA.VV., 1989, p.139). Più in generale,
in relazione al rapporto tra scienza e complessità, ho trovato estremamente interessante il pensiero
espresso da Quattrocchi: “Alla luce delle ricerche sulla creatività scientifica da Koestler in poi, la
scienza non può essere considerata unicamente come razionalità formalizzata e dottrina strutturata,
ma deve considerarsi teoria complessa, intreccio di invenzione, tentativo, saggio, esperimento che si
nutre delle intricate interazioni che corrono tra uomo e mondo” (P.Quattrocchi, 1984).
6
meno la standardizzazione e la sincronizzazione tipiche della produzione non
flessibile, che caratterizzava la società industriale. Sono diminuiti la conflittualità ed
il lavoro manuale. Il marketing, la pubblicità e la vendita hanno assunto un ruolo
trainante all'interno dell'azienda. Aspetti non meno rivoluzionari sono dati dal fatto
che oggi, noi, possiamo delegare alle macchine non più solo il lavoro fisico bensì
anche il lavoro intellettuale; dal fatto che acquista sempre maggior rilevanza la
dimensione estetica degli oggetti (oggi che la precisione tecnica supera di gran lunga
le nostre esigenze, criterio di scelta diviene il parametro estetico) e non da ultimo dal
fatto che ormai tutte le importanti decisioni manageriali sono interorganizzative: non
esiste un'organizzazione isolata ma un insieme di rapporti con le diverse
organizzazioni di cui il manager deve tenere conto. La formazione manageriale che
deve essere inserita in questo quadro non può prescinderne. Non si può progettare
una formazione che non tenga conto della complessità di tutte le variabili in gioco nel
mondo del lavoro perché sarebbe certamente priva di valore. Un tipo di formazione
identificabile con una sorta di addestramento è ormai del tutto anacronistica. Un
suggerimento che ci viene da più parti, ribadito da De Masi, sottolinea la necessità di
"formare gli uomini al lavoro creativo", "insegnare ai nostri allievi adulti soltanto ad
apprendere come apprendere, e poi lasciare a loro stessi la capacità di sviluppare
creativamente il proprio ruolo".
Una seconda porta sulla complessità la apriamo non appena prendiamo in
considerazione il soggetto della formazione: gli allievi, come ribadisce l'andragogia
2
,
non sono dei bambini ma uomini e donne con un concetto di sé ormai ben sviluppato,
una non indifferente esperienza alle spalle e una totale indipendenza e autonomia. Un
intervento formativo, per essere efficace, non può non tenere conto di tutto ciò. Ogni
qualvolta si avrà la tentazione di trattare gli allievi come dei bambini, ogni qualvolta
ci si dimenticherà di dare la giusta importanza alle esperienze passate dei soggetti in
formazione si avrà come risultato un non-apprendimento. Di fondamentale
importanza risulta anche stimolare l'interesse dell'adulto all'apprendimento, tenendo
conto del fatto che se si sottopone ad un intervento formativo, generalmente, è per
rispondere ad uno specifico bisogno/problema.
E' tenendo conto di tutte le variabili e di tutti gli elementi fino ad ora considerati che
si apre la terza porta sulla complessità. Si può, infatti, facilmente intuire che, proprio
perché tanti e così complessi sono gli elementi che si intrecciano parlando di
formazione manageriale, altrettante devono essere le scienze che in modo più o meno
2
“"andragogia" (che sostituisce all’interno della parola “pedagogia”, di derivazione greca e avente il
significato di “guida del fanciullo”, il termine greco “fanciullo” con il termine greco “uomo”) "non è
una parola nuova: fu usata per la prima volta in Germania nel 1833, ed é stata largamente usata negli
ultimi decenni in Jugoslavia, Francia e Olanda (nel 1970 l'università di Amsterdam ha istituito un
dipartimento di scienze pedagogiche ed andragogiche").Ma sono nuove la teoria e la tecnologia che il
termine designa. La teoria andragogica si basa su almeno quattro ipotesi principali che differiscono
da quelle della pedagogia. Cambiamenti nel concetto di sé. Quest'ipotesi assume che man mano che
una persona cresce e matura, il suo concetto di sé passa da un senso di totale dipendenza (come
avviene nel neonato) a un senso di crescente indipendenza e autonomia. Il ruolo dell'esperienza.
Questa ipotesi assume che man mano che un individuo matura, accumula una riserva crescente di
esperienza, che diventa una risorsa sempre più ricca per l'apprendimento, e costituisce allo stesso
tempo una base sempre più ampia a cui rapportare i nuovi apprendimenti. Disponibilità ad
apprendere. Questa ipotesi assume che via che un individuo matura, la sua disponibilità a imparare è
sempre meno il prodotto del suo sviluppo biologico e della spinta del sistema educativo, e sempre più
il prodotto dei crescenti compiti che deve svolgere per realizzare il proprio ruolo sociale.
Orientamento all'apprendimento. Questa ipotesi postula che il bambino è stato condizionato a un
apprendimento orientato sulle "materie", mentre l'adulto tende a orientarsi verso un apprendimento
centrato sui problemi”. (G.M.Knowles, in AA.VV., 1989, pp.81-82-83-84)
7
diretto se ne occupano. A questo punto sembra indispensabile parlare di "saperi della
formazione", guardando alla ""formazione", dunque, come campo di saperi, ma
anche come terreno di incontro e di scontro tra scuole e dottrine rivali o
tendenzialmente integrate. Come in pedagogia, anche nei saperi della formazione si
riproducono le antinomie, le contraddizioni e le contrapposizioni consuete tra
approcci disciplinari diversi, come pure tra scuole e dottrine, paradigmi e modelli,
talora sovrapponibili al punto che ogni tentativo di classificazione e distinzione tra
tali livelli appare ingenuo e non praticabile."(Massa, in Cambi e Frauenfelder, 1994,
p.288). Volendo prendere in considerazione le discipline che maggiormente incidono
in ambito formativo non possiamo non citare la psicologia, la sociologia, la teoria
dell'organizzazione e naturalmente la pedagogia. Può essere interessante ricordare
anche la relazione, meno diretta e non sempre presente, che si instaura con discipline
quali l'etnografia, l'etnometodologia, l'antropologia culturale e la semiologia.
Dopo aver dato un breve sguardo al complesso panorama della formazione aziendale,
ritengo ora utile illustrare il piano e le finalità della mia ricerca che sarà strutturata in
quattro parti. Inizialmente cercherò di individuare e mettere a fuoco i principali
modelli teorici presenti nel mondo della formazione manageriale; successivamente
porrò, invece, in evidenza quelle che sono le procedure e i metodi che caratterizzano
tale mondo. Illustrate luci ed ombre di quanto detto, tenterò di introdurre una
particolare prospettiva di esercizio della ricerca educativa e della cultura pedagogica:
la “Clinica della formazione”. Si tratta di un approccio innovativo “tale da
configurare nel contempo un modo di ripensare globalmente, con stile diverso, il
profilo epistemologico della pedagogia e degli altri saperi sulla formazione. E’ così
possibile riappropriarsi non solo degli aspetti latenti della formazione organizzata -
dinamiche di contesto, nesso tra rappresentazioni e affetti, strutture e dispositivi di
elaborazione, incidenze e discrepanze reciproche, rapporto contraddittorio tra modelli
di progettazione e sistemi d’azione -, ma estendere inoltre il concetto di formazione ai
significati da cui risulta sempre smosso e animato.”(M.Bruscaglioni, in Massa, 1993).
Nella quarta parte, infine, tenterò di avvicinarmi, utilizzando come strumento
l’intervista, alle “storie di formazione” di alcuni dirigenti d’azienda e cercherò, così,
di portare alla luce alcune delle rappresentazioni della formazione che da esse
emergono. Ciò che giustifica il passaggio dalla terza alla quarta parte è il forte
legame che esiste tra “Clinica della formazione”, “Storie di formazione” e
“Rappresentazioni della formazione”.
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A questo proposito sembrerà ovvio pensare che ciò che li lega è ciò che essi hanno in
comune, cioè la parola “formazione”, in realtà tale connessione è rintracciabile non
tanto in una parola comune ma in uno dei significati
3
particolari che questo termine
può assumere: “Quanto alla formazione come romanzo individuale, come
vicissitudine e come avventura educativa segnata fondamentalmente da processi
diffusi di socializzazione e di inculturazione, si tratta di quel significato vitale ed
esistenziale di formazione meglio depositato, più ancora che nella psicoanalisi e nelle
scienze sociali, nelle grandi produzioni artistiche, filosofiche e letterarie, o in tanta
parte dell’attuale rappresentazione cinematografica. La nostra clinica della
formazione intende appunto cogliere un tale significato sia direttamente, sia come
soggiacente al mondo stesso della formazione organizzata, sia ancora in rapporto
all’incidenza di quest’ultima sulla formazione diffusa e sulla conseguente formazione
individuale.” (Massa, 1993, p.17). Questo è dunque il programma dell’avventura che
mi accingo ad iniziare e che cercherò, per quanto mi sarà possibile, di rispettare
fedelmente.
3
Quello di “formazione” è “un termine dai molteplici significati, a seconda del contesto di riferimento
e dell’uso che se ne fa. Formazione ad esempio può persino far pensare al romanzo individuale in cui
si costruisce il modo di essere di ciascuno, al romanzo di formazione appunto (che è cosa diversa dal
romanzo pedagogico) presente in tanta parte della letteratura dell’Ottocento. Diremo che è qui in
gioco la dimensione vitale ed esistenziale del processo educativo, legata sia a quella che viene
chiamata formazione diffusa in un certo contesto sociale, sia soprattutto alla vita familiare, ai rapporti
con gli altri, alle vicissitudini personali, all’allargarsi dell’esperienza, al viaggio e all’avventura, alle
varie acquisizioni culturali, all’inserimento nel mondo adulto, al di là di qualunque intenzione
determinata. Qui formazione sta in fin dei conti per educazione in senso lato, o meglio per il suo
versante soggettivo. Da un punto di vista più tipicamente pedagogico e anche scolastico, il termine di
formazione viene invece ad indicare un processo istituzionalmente orientato, volto all’acquisizione
dei fondamenti della cultura (e magari di certe modalità comportamentali). Si parla in questo caso di
formazione generale, o anche relativa ad alcune aree fondamentali della cultura e della personalità di
volta in volta variamente indicate (ci si riferirà per esempio alla formazione scientifica, o alla
formazione religiosa, e così via). Accentuando il portato totalizzante (e quindi effettivamente
inquietante) dei grandi dei grandi dispositivi pedagogici, formazione sta anche, nell’uso tradizionale e
di quello comune, per educazione integrale rispetto ad un modello determinato, che implica appunto
una certa strutturazione organica della personalità (il caso ad esempio della formazione del soldato, o
del sacerdote, ma anche del cittadino o del militante di un qualche movimento carismatico, e così
via). Al di sotto di questi due ultimi significati occhieggia in qualche modo il vecchio paradigma
aristotelico della formazione come attuazione e come realizzazione di una essenza propriamente
umana, già presente in potenza all’inizio del processo, al tempo stesso fine e motore di esso. Oggi
però formazione, con riferimento tanto alla scuola quanto alla formazione professionale e a quella
aziendale, e per analogia alla formazione di adulti scolarizzati in contesti professionali organizzati e
alla formazione dei formatori, sta a indicare di solito una pratica finalizzata, settoriale, organizzata e
controllata rispetto a obiettivi ritenuti strategici per conseguenze sociali o produttive
determinate.(Massa, 1990, pp.566-567)
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II PREMESSA. Può l’adulto imparare?
Prima ancora di cimentarmi nella mia “impresa”, non volendo dare, nei limiti del
possibile, nulla per scontato, ho cercato di trovare una risposta alla domanda “può
l’adulto imparare?”, o meglio, ho cercato di trovare qualcuno che potesse aiutarmi a
rispondere. Ho così, tra l’altro, scoperto che la risposta a tale quesito non è poi così
banale come potrebbe sembrare, anzi da essa prendono vita una serie di altre
interessanti domande collegate tra loro come gli anelli di una catena. Prima di
stabilire se è possibile per un adulto imparare, infatti, è necessario precisare a chi ci si
riferisce con il termine “adulto” e, a tal proposito, è necessario stabilire se è possibile
giungere ad un’intesa sulla definizione di età adulta. Ecco cosa ha da dirci, in merito,
Demetrio: “Oggi ogni tentativo definitorio di età adulta è impercorribile. Non è forse
un caso che i dizionari più seri siano così parchi di sintesi concettuali e tali da
illuminarci sulla “cosa” adultità. Certo possiamo, come facciamo, servircene a mo’ di
convenzione linguistica per intendere: chi ha raggiunto la maggior età (la
convenzione è demografico/amministrativa); chi è entrato nel mondo del lavoro (la
convenzione è produttivo-economicistica); chi ha generato (la convenzione è bio-
sociale); chi, conseguentemente, si vede volente o nolente costretto a servirsi di
pratiche educative e accuditive (la convenzione è pedagogica) e via di seguito.
Nessuna di queste convenzioni è però in grado di fornirci un’idea esauriente di
adultità: a meno che, la via d’uscita, non ci faccia riscoprire immagini dell’adulto
deontologicamente efficaci. Immagini guida, modelli, icone corrispondenti, pur
sempre, così come storicamente è avvenuto, a rappresentazioni pedagogiche e non
alla “sostanza”, o identità scientificamente verificabile, dell’adulta condizione.
Tuttavia, la nozione ci occorre: ma dobbiamo ricostruirla ogni volta, in situazione,
accettando di ridurne la complessità intrinseca; ciò significa che dobbiamo rinunciare
all’impresa filosofica, alla ricerca delle “strutture” dell’identità adulta? Sì, ma per
concentrarci sulle modalità mediante le quali l’individuo organizza la propria vita
quotidiana, la pensa, la agisce: senza tralasciare di studiare i nessi tra vita interiore e
vita di relazione o i rapporti con gli eventi, le esperienze, le emozioni. Ciò significa
che se un’analisi della singolarità adulta (in quanto irriducibile) ci porta a scoprirne
l’esatto contrario e a operare, a un certo punto, solo per astrazioni, la riscoperta
dell’adultità può avvenire soltanto per via relazionale. Una qualche oggettività
scientifica si raggiunge (lo ripetiamo tanto per via quantitativa che qualitativa )
stabilendo, e valorizzando pur sempre le differenze, la varietà di nessi realizzabili che
il soggetto intrattiene con il proprio ecosistema di riferimento. Interpersonale,
naturale, tecnico, ecc. Scopriremo, in tal modo, che soltanto le adultità sono
osservabili (ma, non lo pretendiamo, anche classificabili), laddove si stabiliscono
rapporti significativi agli effetti delle dinamiche peculiari che abitano il corso della
vita post-puberale. Dinamiche di cambiamento, spostamento di attenzioni, variazioni
di stili comportamentali e mentali, ecc., da studiare quindi rispetto al lavoro,
all’amore, al gioco, al pensiero… In tal modo è il contenuto (la res) a suggerirci se la
manifestazione osservabile, rispetto a esso, presenta caratteri speciali che definiremo
adultistici. Di conseguenza, non è l’adulto (a questo punto pura astrazione) a creare
l’amore, il lavoro, il gioco ecc.: sono piuttosto queste circostanze dinamiche a
identificarlo come tale. Perché appunto l’attaccamento affettivo, il rapporto con
l’operatività, piuttosto che con l’attività, piuttosto che l’attività ludica (o con molte
altre situazioni: il sognare, il desiderare, il decidere, il confliggere, ecc.) sono tutte
occasioni in grado di mostrarci la tipologia di comportamenti, atteggiamenti, rituali,
che, a posteriori, descriveremo come adultomorfi.
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Nessuna situazione è, seguendo le ipotesi critiche più recenti, esclusiva prerogativa
dell’adultità. La condizione di adulto, insomma, non esiste in sé; esistono piuttosto le
condizioni capaci di stimolare reazioni tali da mettere in luce atti specifici. E ciò
andrà fatto, ovviamente, tenendo conto delle mille variazioni del corso della vita
adulta. In conclusione, né di condizione adulta, né tanto meno di identità adulta mi
sembra corretto parlare; dal momento che nell’uno come nell’altro caso la cautela
scientifica ci consiglia, forse, di isolare, di volta in volta, le tipologie relazionali che
quell’individuo o quel gruppo intrattengono con quell’oggetto o con
quell’azione.”(Demetrio, 1991, pp.14-15-16).
Preso atto di ciò, facciamo un ulteriore passo e cerchiamo di capire se e quali
possibilità ha l’età adulta di continuare a formarsi. Tale domanda che, come
accennavo in precedenza, potrà sembrare, ai nostri giorni, di una banalità estrema in
realtà non ha poi una risposta così ovvia e scontata se si pensa che, prima degli studi
dello psicoanalista E.H.Erikson, “all’età di mezzo, non venivano riconosciute
ulteriori occasioni e potenzialità trasformative. Del resto, testi e manuali di psicologia
dello sviluppo, anche recentemente editati, arrestano le loro argomentazioni alla
soglia dei vent’anni. Les jeux sont faits (non c’è più nulla da fare): sembrerebbe
questo il messaggio che talune scuole psicoanalitiche e comportamentistiche inviano
a noi adulti. Vent’anni fa venivano messi in crisi, dalla elaborazione di quelle
affascinanti utopie socio-politiche fondate sul principio che si educa (o meglio, ci si
può educare) lungo tutto l’arco della vita, consuetudini di pensiero e paradigmi
scientifici. Si trattò di un’intuizione non casuale. Indubbiamente segno dei tempi:
perché sia le esigenze dell’industrializzazione internazionale, sia le istanze di
liberazione dei popoli e delle minoranze (lotta all’analfabetismo, all’ignoranza, alla
povertà) si muovevano sulla scorta di una convinzione comune. E cioè che
l’individuo adulto ha il diritto di rimettersi sempre in marcia, di ricominciare da capo,
di cercare le risorse per adattarsi, il meglio possibile, al mutare degli eventi e per
costruire nuovi eventi nella sua vita. Il protagonismo adulto, i mille discorsi sulla
riforma dei sistemi educativi che avrebbero dovuto preoccuparsi, di più, delle
esigenze di apprendimento in un’età non più considerata una meta finale, ma dalla
quale ricominciare, diedero il via ad attenzioni psicopedagogiche che pochi pionieri
(tra costoro negli anni Trenta Charlotte Buehler) avevano anticipato. Sempre in
quegli anni, di conseguenza, un’altra categoria teorica veniva posta in primo piano e
conosceva, grazie ai lavori di Van Den Berg (1967), nuova fortuna: mi riferisco alla
parola cambiamento. Una delle nozioni più discusse fin dagli albori del pensiero
filosofico e che, giocoforza, non poteva non essere evocata nel tentativo di
ridisegnare il profilo dell’uomo di mezza età e di proiettarlo, consapevole o meno,
verso il futuro. I bisogni educativi e di sapere non possono più non apparirci infiniti e
interminabili, perché, da adulti e da anziani, avvertiamo che le nostre esigenze di
cambiamento corrispondono a pulsioni salutari, che coinvolgono la mente, il corpo,
le relazioni interpersonali.
In questi vent’anni cruciali, gli studiosi più attenti alla crisi dell’idea di adulto come
meta della crescita hanno tentato di connettere le due nozioni; hanno cercato di
spiegare il cambiamento in età adulta, ora provando a identificarne le fonti, ora a
valutarne gli effetti. Al punto che la nozione di cambiamento è apparsa come la più
appropriata a spiegare, rispetto all’età adulta, quelli che per l’infanzia e l’adolescenza
sono detti processi di crescita. Appariva del resto contraddittorio trattare di adulti
(approdo dello sviluppo) con categorie più adatte a spiegare le fatiche evolutive di
individui non ancora maturi. Ma non basta: si voleva, per la prima volta, circoscrivere
una cosiddetta scienza del cambiamento adulto definita da alcuni metabletica (da
metà-ballo: in greco, andare oltre, cambiare); da altri, e più ambiziosamente,
11
andragogia
4
(sempre dal greco: guidare, non più il bambino, pais, ma l’uomo adulto,
andros). Infine, un’altra parola veniva rivisitata, specie nella letteratura francofona, e
abbinata ai processi di cambiamento intenzionali rivolti a destinatari adulti.
Ricompare sulla scena l’idea di formazione, e, come appunto in Francia (e, di lì a
poco, anche in Italia), essa è diventata la nozione che si è sostituita, rapidamente, a
quella di educazione degli adulti. Non a caso, in questi anni Ottanta ormai conclusi,
quando si è parlato di formazione (di farla e di riceverla), è divenuto convenzionale
intendere quella rivolta o ai giovani in procinto di diventar adulti attraverso il lavoro
(cfr. la “formazione professionale”) o agli adulti già tali: in particolare a uomini e
donne coinvolti dalla “formazione aziendale” e, in senso lato, dalle più diverse
iniziative dette, ormai da chiunque, di “educazione permanente.” (Demetrio, 1990,
pp.11-12).
Prima di concludere questa premessa vorrei soffermarmi su alcune suggestioni e
riflessioni proposte da Demetrio che rappresentano il coronamento del discorso or ora
introdotto. “L’età adulta - egli afferma - è una rappresentazione simbolica,
socialmente utile e necessaria, la cui identità profonda resta teatro di incursioni ed
escursioni operate da altri motivi psichici, che è forse più opportuno per la sanità
dell’Io lasciare irrisolti. Anzi, come vedremo, la loro non risoluzione è opportuna:
quando corrisponde all’accettazione del fatto che essi costituiscono dei continuum
esperienziali modulati con stili diversi nel corso della vita; pur sempre motivi
conduttori di essa, il cui intreccio, in fondo, costruisce i cosiddetti “tipi” adulti. La
nozione di continuum, presente tanto in sociologia che in psicologia del profondo, sta
a indicare una componente del mondo psichico o relazionale dell’individuo che non
si estingue, pur trasformandosi, nel corso della vita. Non si tratta di attitudini o
tendenze ma, nella nostra accezione, di costrutti frutto della mediazione tra
interferenze sociali (per cui sono culturalmente mediati), che ne sollecitano
l’esercizio fin dai primi anni della esistenza, e propensioni della psiche. In altre
parole, la struttura interiore aderisce alle sollecitazioni esterne in modo positivo
perché l’espressione dei costrutti è utile e benefica per l’economia complessiva del
funzionamento del Sé. Ovviamente il Sé esibisce all’esterno in modo conscio o
inconscio, e vi sosta in modo più o meno prolungato, un continuum per volta, pur
intrattenendo con gli altri un rapporto controllato da quel regolatore interno che
abbiamo visto essere l’Io. Per questo, allora, le continuità vitali possono essere
esaminate in modo empirico e cioè rese visibili. Per questo possiamo osservare i
comportamenti di gioco, affettivi, operativi, conflittuali ecc. che, tutti insieme,
arrivano a comporre i cosiddetti tratti della personalità individuale. Nella età di
mezzo, i Continuum assumono colorazioni molteplici; risentono quindi di quella
condizione complessa che come abbiamo notato caratterizza il tratto di vita
convenzionalmente chiamato adulto. Si tratta ora di indicare una nostra, ovviamente
parziale, tipologia dei Continuum che possono essere raccolti e sviluppati in quelle
situazioni che vogliono rispondere ai bisogni educativi dell’età adulta in termini
formali (quando la posta in gioco, e lo scopo, è l’acquisizione di abilità e capacità) e
in termini non formali. Quando si tratta di iniziative che vanno incontro a bisogni
genericamente definiti di sviluppo della creatività, della attività ludica, della crescita
intellettuale o personale non finalizzate, se non a far conseguire agli adulti un più
alto, e complesso, senso di Sé in rapporto, eventualmente, a compiti socialmente
adulti: l’essere genitori, cittadini, nonni, educatori, ecc. E’ evidente che, innanzitutto,
4
Secondo Demetrio, “una teoria andragogica della formazione non è ancora a sufficienza accettabile
perché non può poggiare su una teoria, altrettanto validata, sulla specificità dell’età adulta”, infatti è
“l’estrema differenziazione tra livelli dello sviluppo esistenziale degli individui che non rende
possibile la riconduzione, sotto l’ombrello della parola andragogia, di ogni tipo di formazione in età
adulta” (Demetrio, 1990, p.78).
12
ciascuno è autore dei propri Continuum. Dal momento che essi fanno parte della
struttura profonda della psiche e delle sue propensioni comunicative, relazionali e
funzionali, non può esserci una pedagogia che forma ex novo queste qualità vitali.
Può esserci, però, e c’è sempre stata, una loro educazione e ri-creazione. Motivo,
questo secondo, che persegue la rigenerazione dei Continuum che ben si applica
all’età adulta perché è in questo mondo che essi talvolta vengono rimossi,
cristallizzati trascurati. Questo loro mancato sviluppo provoca, a nostro dire, un
arresto nel processo espansivo verso una maggiore complessità che contrassegna,
tendenzialmente, lo psichismo adulto superficiale. L’apicalità pedagogica, per il
formatore-educatore di adulti professionale o semplicemente un adulto che lavora
con/per altri adulti, corrisponde peraltro al momento in cui quello specifico
Continuum viene raccolto e tecnicamente trattato. Si crea cioè una situazione di
“piccolo laboratorio” di formazione focalizzata su che cosa e come quell’adulto, o
quel gruppo di adulti, è chiamato a esplorare dentro di sé o a esibire allo scopo di
trarne qualche vantaggio per la propria ri-significazione. E’ questo il processo che,
disorganizzando e riorganizzando il dato esperienziale di cui il Continuum è
portatore, induce una dinamica di cambiamento i cui effetti, se adeguatamente
conclusa, si riverberano sul grande laboratorio che è la vita adulta. Infatti, nel
momento in cui ciò che abbiamo sperimentato con soddisfazione in un piccolo
laboratorio si include, e integra, nelle regioni del Sé, viene a cadere la distinzione
introdotta. I Continuum qui identificati si riferiscono pertanto alla possibilità di
questa transazione dal piccolo al grande. Senza questa interazione e, poi, senza
questa assimilazione, ciò che accade in qualsiasi piccolo laboratorio educativo rivolto
agli adulti non ha il diritto di iscriversi e di essere interpretato come un’esperienza
pedagogica e quindi di cambiamento. Così come è opportuno ricordare che, in età
adulta, molte esperienze di crescita si compiono, lontane da ogni struttura ed
educatore professionale, in forme auto-gestite, dosate e diluite nel tempo della
propria vita a seconda degli eventi e delle necessità. In tal caso, il soggetto stabilisce
con i Continuum un rapporto auto-referenziale, nel senso che li raccoglie e riesamina,
per potenziarli e ricacciarli nelle profondità della propria psiche, in assoluta
autonomia. Ciò non sospende, comunque, una considerazione di carattere
pedagogico; sospende, semmai, ogni rapporto con le interferenze educative
provenienti dall’esterno del soggetto. Ma il risultato non cambia: se la pedagogia
studia la formazione umana, e da ciò ne progetta, dove può, il corso, giocoforza, ogni
nostro rapporto con il rinnovamento che sortisca effetti sulla multidimensionalità del
nostro Sé va incluso in un’area concettuale empirica ed epistemologica di carattere
pedagogico. Infine, un’ultima avvertenza, i Continuum che ora identificheremo
hanno un peso nello sviluppo del Sé adulto non solo agli effetti pratici dell’essere o
divenire adulti (individui più complessi e consapevoli della incompiutezza di questo
divenire), ma anche della sanità e del benessere psicologico. Per tale motivo, quando
ci addentreremo nelle dinamiche relative al cambiamento, molto sottili appariranno i
confini tra ciò che appartiene al pedagogico e ciò che attiene al terapeutico.”
(Demetrio, 1990, pp.127-128-129-130).
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Vediamo ora, in breve, quali sono i Continuum individuati da Demetrio:
“Il riconoscimento di Sé: pratica dello specchio. In età adulta è cruciale il fatto di
potersi identificare rispetto a luoghi, persone, compiti, capacità. L’individuo si
percepisce positivamente se attraverso l’esperienza del lavoro (nelle sue diverse
forme: professionali, di impegno sociale, politico, civile ecc.) e dell’amore (in
senso attivo e passivo) ha modo di riconoscersi e di essere riconosciuto dagli altri
rispetto anche al luogo fisico occupato, al suo spazio di vita entro il quale
scrivere quotidianamente i suoi itinerari , fissa il proprio habitat, ambisce a
mutarlo talvolta o, tal altra, a rinnovarlo. L’apicalità pedagogica è rintracciabile,
allora, nel fare in modo che il piccolo laboratorio sia utile a questi fini vitali. In
altre parole, consenta all’adulto di proseguire, o riprendere, la propria esperienza
identificatoria che inevitabilmente si incontra (o scontra) con ciò che
comunemente chiamiamo metaforicamente “guardarsi allo specchio”. Pratica che
ci pone di fronte a interrogativi importanti perché la nostra immagine ha sempre
bisogno di un suo maquillage restaurativo che, fuor di metafora, equivale alla
ricerca delle proprie ragioni di essere e di fare. A prescindere dai contenuti
pedagogici cercati dentro di sé o all’esterno, l’adultità, per arricchirsi, non può
fare a meno di transitare davanti a un’occasione (a uno specchio) che sia in grado
di incoraggiarlo a proseguire in ciò che ha già intrapreso, o a scoraggiarlo,
affinché altre strade vengano ricercate.
La ludicità: pratica della leggerezza. Lungi dal sospendersi in età adulta,
l’esperienza del gioco (Caillois, 1981) continua ad assumere un significato
fondamentale per lo psichismo cosiddetto maturo. Il gioco è molteplici cose
(Bellisario, 1988; Genovesi, 1989): è vissuto che si riscontra in molti luoghi
adulti. Nell’amore (innamoramento, trasgressione, tradimento, seduzione,
sadismo); nel lavoro (impegno creativo, invenzione, competizione, ricerca,
produzione artistica); e, più comunemente, nel cosiddetto tempo libero: viaggio,
vacanza, impresa sportiva. Che cosa accomuna le più diverse esperienze ludiche?
Il loro intrinseco valore libertario. Non può esservi attività ludica che soggiaccia
ai legami e alle imposizioni. E’ vero che ogni evento di gioco è governato da
“regole”, ma è proprio la loro ricreazione o invenzione, nel qui e ora, che
conferisce a questo vissuto psichico il potere di affrontare con leggerezza e
talvolta incanto magico situazioni anche difficili. Gioca, quindi, non solo l’attore
ma anche lo spettatore; ed è proprio in questa dialettica tra partecipazione e
implicazione diretta che rintracciamo l’apicalità pedagogica del ludico: perché il
giocatore, giocando, dimostra ai non giocatori che entrare in questa esperienza è
possibile. Non solo quindi il giocare è terapeutico, perché alleggerisce la vita
adulta introducendovi momenti distintivi totalmente segreti e privati o impulsi
alla creazione/ri-creazione; è intrinsecamente pedagogico perché la formula è
antica: “giocando si impara” ad affrontare la vita quotidiana, alternando la
seriosità alla distrazione e all’incanto generatore; e insegna pure a specializzarsi
in quelle tecniche ludiche che più aiutano il soggetto a riconoscersi. Non ci si
identifica perciò soltanto con la pratica dello specchio; anche la pratica della
leggerezza ludica conferisce alla donna e all’uomo, che sanno giocare, un
prestigio inequivocabile.
L’avventura: pratica della sfida. Ad-ventura – tensione per ciò che potrebbe o
potrà accadere sradicandoci dal mondo delle cose consuete – è emblema di una
sfida che l’individuo intrattiene con se stesso (sfidare le possibilità della propria
mente o del proprio corpo); con gli altri (sfidare il nemico, l’avversario, le leggi
degli uomini e degli dei); con la natura (sfidare il mare alla ricerca di terre
sconosciute, il cielo, la foresta). La pratica della sfida esige apprendimento:
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l’avventuriero, sia che si tratti di un esploratore che di un artista o di uno
scienziato, parte per le sue rispettive avventure munito di strumenti conoscitivi
che gli consentano di capire e di capirsi di più. Se il gioco è distensione,
l’avventura è tensione: e come è possibile apprendere la leggerezza ludica, così
anche la pesantezza esaltante dell’avventurarsi in qualche luogo del mondo o
della psiche può essere imparata, ancora una volta, per consentire al Sé di
arricchirsi e rispecchiarsi in un’altra scheggia dello specchio che, nel corso della
proprio vita, l’adulto cerca di comporre.
La magistralità: pratica riproduttiva. Questo Continuum appartiene
elettivamente all’età adulta – e si specializza nell’essere genitori, insegnanti,
educatori professionali, istruttori, imbonitori, predicatori, persuasori, ecc. – ma fa
la sua comparsa molto presto nel comportamento umano. A prescindere
dall’essere “buoni o cattivi maestri”, la magistralità rappresenta, perciò,
un’ulteriore apicalità pedagogica significativa: perché testimonia la presenza di
un’altra dimensione della psiche di tipo squisitamente relazionale, oggetto di
possibili interventi, consistenti nel migliorare quella che è una propensione
dell’adultità, ma anche una sua condizione sociale. Per il fatto stesso di essere
adulti ci si pone in una situazione di potere, di tipo persuasivo o autoritaristico,
che ingenera abitudini, perpetua vizi e virtù, consolida lo stato delle cose, oppure
è fonte di innovazione. La magistralità non è dunque un tratto soltanto
volontaristico: è una componente dello spazio relazionale occupato dall’adulto
che induce negli altri atteggiamenti di adesione, o di rifiuto, per gli stili educativi
praticati. La pratica educativa che gli adulti agiscono, consapevolmente o
inconsapevolmente, è perciò un’altra apicalità pedagogica, perché è terreno
fertile per chi si assume l’onere di lavorare su questo Continuum per accrescere il
livello di consapevolezza di chi è, in quanto adulto, agente e protagonista di
formazione.
La decisionalità: pratica della scelta. Il mondo adulto si regge sulla esperienza
decisionale. Essa è orientamento sperimentato nelle piccole come nelle grandi
occasioni che qualifica in senso storico e sociale l’adultità. La decisionalità è,
però, anche un Continuum perché è test di crescita tanto nell’infanzia quanto
nell’adolescenza e nella vecchiaia; la sua crisi è indice di degenerazione
dell’adultità stessa. Si entra nella condizione di adulto sulla base della assunzione
di scelte – la cui responsabilità o irresponsabilità è ovviamente variabile da
soggetto a soggetto, da cultura a cultura – ed è quindi manifestazione di un rito di
passaggio. Ci si sente adulti quando si comincia a decidere (Massa, Demetrio,
1989) e quando si è messi nelle condizioni di farlo: per questo la pratica della
scelta – del poter iniziare o continuare a riflettere sulle alternative possibili – è
l’ulteriore apicalità pedagogica da considerare oggetto di pratiche educative,
ovviamente non soltanto per l’età adulta.
La reciprocazione: pratica dello scambio. La socialità si fonda sull’assunzione di
comportamenti solidaristici che consentono agli individui di reagire
conflittualmente, o pacificamente, alle interferenze altrui o di affrontare il
rapporto, altrettanto ambivalente, con la natura. I gruppi e le comunità – da quelle
familiari a quelle amicali o professionali e più estesamente di interesse politico-
civile – sono una sede in cui l’adultità si mette alla prova e si sviluppa.
L’apprendimento delle regole di convivenza e di cooperazione, come sappiamo,
inizia prestissimo e costituisce, per tutto il corso della vita, un bisogno funzionale
alla sopravvivenza materiale e psicologica del singolo individuo. La perdita dei
legami societari, la loro crisi, e il disagio che da ciò ne deriva, equivale anche alla
minaccia di quella pratica essenziale costituita dalla dimensione della reciprocità.
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Il dare e il ricevere sono una dinamica formativa sulla quale si regge il tessuto
delle operazioni affettive e commerciali. La consultazione, la negoziazione, la
conflittualità, la contrattazione (sovente) sono fenomeni insiti, e non eliminabili,
nell’interazione sociale finalizzata al conseguimento di scopi e utilità pubbliche e
private. L’apicalità è qui rappresentata dal meccanismo dello scambio che si
rende pratica educativa, perché è il risultato di apprendimento e acculturazione
progressiva. Anche in questo caso, l’adulto vive momenti di scambio su più
fronti, sovente trovandosi impreparato ad affrontare compiti – educabili – che lo
pongono in condizioni di vantaggio o prestigio. La formazione degli adulti alle
pratiche relazionali (il lavoro di gruppo, l’assunzione di comportamenti adeguati
di leadership, la risoluzione di problemi a livello di gestione sociale ecc.), e di cui
anche il Continuum decisionale è una implicazione, è del resto ampiamente nota
e area specifica della formazione.
La proiettività: pratica del futuro. Il progetto è l’ultima continuità vitale che
consente all’individuo di diventare adulto e di mantenersi tale il più a lungo
possibile. Essa è in rapporto diretto con la prima (la riconoscibilità), perché senza
un progetto che concerna l’impegno in una qualsiasi attività del pensiero, o in
qualsiasi forma che possa consentire all’individuo di ricevere dagli altri un cenno
di consenso e approvazione, l’adultità è cristallizzazione. Il progetto testimonia la
presenza di una disponibilità – seppur minima – al cambiamento e in ciò risiede
la sua apicalità pedagogica. Per questo la pratica del futuro è riscoperta
quotidiana del puer aeternus – della sua voglia di conoscere e giocare – contro la
fissità del senex. “Domani ho ancora da fare” dice il primo al secondo, ed è
questo desiderio di continuare a conoscere, a conoscersi, che rappresenta per le
pratiche educative rivolte all’età adulta e alla vecchiaia una delle più grandi sfide
contro la morte del Sé, per molti prematura ma evitabile, di fronte al progressivo
ridursi delle possibilità di incontro con gli altri e il mondo dell’esperienza che
trasforma l’età adulta in senilità. L’identità adulta apparirà in tal modo non più
una fase della vita umana ma un sistema le cui componenti sono fra loro in
interazione e in potenziale sviluppo. L’azione educativa, o formativa che sia, ha il
compito di stimolare le diverse dimensioni del Sé alla luce della teoria sistemica
5
,
in base alla quale il lavoro su una parte si riverbera sulla stabilità delle altre.”
(Demetrio, 1990, pp.130-131-132-133-134-135).
5
Demetrio conduce le sue ricerche avvalendosi di un punto di vista sistemico (a tal proposito rimando
alla nota n.1). Egli sostiene che tal punto di vista, e in particolare i suoi sviluppi (Bocchi, Ceruti,
1985; Ceruti, 1986), “hanno indubbiamente aperto nuove strade alla ricerca sull’identità. Nozioni
prima tabù come “identità multipla”, “Sé pluridimensionale”, “Io polimorfo” stanno entrando nella
letteratura psicosociologica sulle manifestazioni dell’individualità e uscendo dal repertorio esclusivo
degli scritti terapeutici e clinici. In altre parole, ci si avvicina oggi all’Io diviso (Laing, 1969) o alle
Disidentità (Lai, 1988) senza più la preoccupazione di imbattersi soltanto con la malattia, perché
anche la normalità appare contrassegnata dalla categoria del molteplice.” (Demetrio, 1990, p.115).
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Concludo con un’ultima riflessione di Demetrio che assume quasi le caratteristiche di
un ammonimento: “chi ha il compito di formare adulti, nel costruire il dispositivo o
elaboratore che sia di cambiamento, non può non accingersi a conoscere in profondità
le biografie
6
(le storie di formazione) di chi ha la pretesa di modificare. Così come
dovrà interessarsi alle modalità con le quali costoro organizzano, e pensano, la loro
vita quotidiana.” (Demetrio, 1990, p.17).
6
Partendo da questa osservazione è possibile forse comprendere anche l’importanza che Demetrio
attribuisce al “pensiero autobiografico”. “L’educazione all’autobiografia contribuisce alla formazione
di una mentalità filosofica e scientifica, sia di una sensibilità maggiore alla solidarietà per gli altri,
sia, infine, di un habitus intellettuale i cui effetti si riverberano in campi diversi: dalla professione alla
vita privata, da un modo di interagire con gli altri alla “capitalizzazione” migliore di ciò si è e si può
ancora divenire.” (Demetrio, 1996, p.194). In generale, comunque è possibile osservare come “i
metodi di carattere autobiografico in senso lato godono oggi di un momento di grande fortuna proprio
perché consentono di cogliere (e quindi anche di progettare, elaborare, trasformare) vissuti,
esperienze e significati con i caratteri di singolarità, complessità, temporalità, totalità che li
contraddistinguono e che i metodi generalizzanti e uniformanti della ricerca quantitativa hanno eluso
per lungo tempo. Le discipline letterarie, storiche e socio-antropologiche hanno molto da dare, in
questo campo, alle scienze dell’educazione e della formazione: l’autobiografia è stata ed è un genere
letterario molto apprezzato e fortunato, un metodo di ricerca sociale, antropologica, psicologica,
linguistica ecc.”(Formenti, 1998, p.24). E’ possibile, pertanto, constatare anche come “le scuole di
pensiero, le proposte seminariali, le esperienze organizzate appositamente per apprendere l’arte
dell’autobiografia o la tecnica della raccolta delle storie di vita sono ormai numerose e seguono
procedure diverse per tempi e metodi. Troviamo così chi si preoccupa più del momento della scrittura
affinché il partecipante si dedichi nell’arco di alcune settimane alla ricostruzione dei propri vissuti
seguendo qualche scaletta (ad esempio: i momenti di svolta della mia vita, l’incontro con il lavoro e
la mia carriera, la relazione con il mio corpo e le mie malattie ecc.), oppure chi, più attento alle
inevitabili emozioni del ricordo, si occupa, con l’aiuto di letture di testi autobiografici, con la visione
di film sulla memoria, di trasfigurare in poesia, versi, disegni – attraverso storie inventate o ricordi
veri – la realtà trascorsa. Anche per drammatizzarla, farne emergere i personaggi, le ferite (anche),
ma sempre in una necessaria lontananza che tutto trascenda e sia di sollievo. Non mancano, poi,
percorsi di formazione più vincolati a esigenze locali: di aziende, ospedali, scuole. In tali casi i
seminari di formazione privilegiano il metodo della ricerca in itinere. Ricostruiscono, con piccoli
gruppi di partecipanti (dai 10 ai 15), sia le storie di vita personali che le cosiddette “biografie
organizzative” volte a riscoprire ad esempio il luogo di lavoro come una biografia collettiva alla
quale, talvolta, ci si rifiuta di partecipare e collaborare. La ricerca delle ragioni, delle difese che
vedono, per anni, lavorare gomiti a gomito donne e uomini (dell’industria, dei servizi sociali o
scolastici) senza conoscersi, ignorandosi nel sospetto e nel “dispetto” reciproco, diventa uno scopo
del metodo. Chi si coinvolge nella formazione autobiografica – dove il requisito è sempre la libera e
volontaria adesione, la disponibilità a lavorare su di sé anche da soli, a dedicare tempo a piccoli
esperimenti di osservazione e autoosservazione – discute di tutto questo, e non più da solo, per
trovare una via d’uscita alla crisi delle relazioni umane nell’organizzazione, con ricadute non da poco
sui diritti del cliente e dell’utente. Ancora più specifici sono poi i seminari che dedicano particolare
attenzione alle biografie cognitive: alla storia del proprio apprendimento, alla fatica di imparare, alle
specifiche difficoltà che si incontrano da adulti e non, di fronte all’acquisizione di conoscenza e
abilità mentali. Indipendentemente dalle finalità autobiografiche di corsi e seminari, all’educatore-
formatore autobiografico preme soprattutto che quanto accade in questi momenti brevi (incontri
intensivi di pochi giorni lontani dalla vita quotidiana o incontri a intervalli regolari nel corso di alcuni
mesi) costituisca un’esperienza diversa dal solito. Qualche cosa che valga la pena di ricordare, che
abbia arricchito la propria storia di vita affacciandosi ad un’altra finestra su di sé e il
mondo.”(Demetrio, 1996, p.200,201)
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III MODELLI TEORICI E RAPPRESENTAZIONI
Desidero iniziare la presentazione dei modelli che guidano la pratica formativa e che
da essa emergono in modo più o meno esplicito, innanzi tutto ricordando l'assoluta
assenza di ogni pretesa (alla luce di quanto più volte ribadito nell'introduzione) di
completezza ed esaustività e, in secondo luogo, riportando l'aneddoto con cui D.F.
Montesano cominciava un interessante capitolo del libro "La formazione" curato da
U. Morelli.
"Un giorno, agli inizi del secolo, il filosofo William James, che si dedicava nelle ore
libere alla divulgazione scientifica, stava spiegando, in una cittadina americana, in
che modo la terra gira intorno al sole, quando vide venire verso di lui una vecchietta
molto decisa che gli disse: "No, la terra non si muove, poiché é attaccata al dorso di
una tartaruga". James, rimanendo cortese, domandò allora su cosa era appoggiata
questa tartaruga, e la vecchietta rispose: "Ma su un'altra tartaruga, evidentemente!".
Allora James "Ma la seconda tartaruga, su cosa si appoggia?". "E' inutile, Mister
James, non riuscirà ad imbrogliarmi: sono delle tartarughe fino in fondo!"". Il perché
di questo aneddoto proprio a questo punto, forse, non ha bisogno di eccessive
spiegazioni, penso infatti che illustri in modo simpatico, ma per questo non meno
incisivo, come noi ricorriamo sempre a modelli, rappresentazioni, immagini e
concetti che abbiamo precedentemente elaborato, per guardare e spiegare il mondo.
Tali modelli diventano fondamentali nel determinare le nostre scelte e la direzione
della nostra vita e pertanto traspaiono nella dimensione pratica della nostra esistenza.
E' proprio per questo che non dobbiamo dimenticare quanto sostenuto da Bateson:
"Non puoi dire di non avere un'epistemologia. Quelli che dicono così non hanno
nient'altro che una cattiva epistemologia"(Bateson, 1977). Diviene così forse più
comprensibile il senso e l'importanza di un lavoro come quello di individuare i
modelli fondamentali che emergono nel mondo della formazione dirigenziale, quasi
come linee guida, non nettamente definite, attraverso le quali restituire un po'
d'ordine e chiarezza a tale mondo. Un simile lavoro inoltre risulta interessante se
messo in relazione con un'analisi degli aspetti inerenti l'agire formativo: solo così può
dirsi completo il quadro del rapporto interattivo che si instaura tra teoria e prassi, tra
l'agire e i modelli sottostanti.