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INTRODUZIONE
Notturno: una definizione
Δέδυκε μὲν ἀ σελάννα καί Πληΐαδες·
μέσαι δὲ νύκτες, παρά δ’ ἒρχετ’ ὢρα, ἒγω δὲ μόνα κατεύδω.
È tramontata la luna con le Pleiadi,
la notte è al mezzo, il tempo scorre, e io dormo sola.
(Saffo, fr. 168b Voigt)
Per chiarire cosa intendiamo con notturno, prendiamo la definizione che ne dà
un dizionario:
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notturno agg. e s. m. (dal latino nocturnus) – agg. Della notte; che avviene o si svolge
di notte […] s.m. 1. mus. Composizione strumentale breve, soprattutto pianistica, di
carattere romantico-sentimentale 2. estens. Scena notturna rappresentata in pittura, in
letteratura, nel cinema 3. lit. Ufficio canonico in tre parti, detto anche mattutino, che un
tempo si recitava di notte
Limitiamoci ai tre ambiti ai quali si riferisce il sostantivo: quello musicale,
quello artistico-letterario e quello religioso. Sul piano della letteratura (e più nello
specifico della poesia) possiamo notare che tutti i componimenti che vengono
definiti “notturni”, o che comunque hanno a che fare con l’elemento notturno,
sono più o meno esplicitamente legati ai tre campi sopra citati. Troveremo quindi
riferimenti alla musica (basti pensare all’uso di certi artefici metrico-retorici), la
quale a sua volta richiamerà atmosfere e stati d’animo specifici, che di solito sono
legati alla solitudine, al mistero, alla decadenza, al romanticismo e alla riflessione
su di sé.
L’aspetto musicale si lega anche al notturno inteso come ufficio canonico, in
quanto quest’ultimo è caratterizzato da una precisa successione di canti di salmi
e inni fissata in epoca antica. Più in generale si sottolineerà che la notte ha sempre
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Sabatini-Coletti, Dizionario della lingua italiana, Milano, Rizzoli, 2006.
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costituito un elemento importante nella liturgia di qualsiasi religione, dalle più
antiche al cristianesimo. È anche interessante notare che, nel caso specifico che
tratteremo, Dino Campana definisce i propri canti “orfici” in chiaro riferimento ai
riti orfici. Questi erano culti misterici dell’antichità classica oscuri e carichi di
simbolismo legati alla figura mitica di Orfeo, cantore per antonomasia (e qui
riemerge l’elemento musicale) che discese negli Inferi (luogo dove domina
appunto l’oscurità, la notte).
È impossibile perciò non notare come tutti questi elementi (ambientazione
notturna, musica e spiritualità) ricorrano sempre intrecciati in modi più o meno
complessi tra di loro. Essi non potevano di conseguenza non diventare temi
ricorrenti nell’arte e nella letteratura. Poiché tratteremo dell’opera poetica di
Campana e, com’è noto, la poesia nasce dal canto, procederemo a spiegare più nel
dettaglio cosa s’intende per notturno in musica. Infatti molte caratteristiche del
notturno musicale verranno riprese poi nel notturno letterario.
In campo musicale, nel Settecento con “notturno” si designava un tipo di
composizione per piccola orchestra o per strumenti a fiato, destinata a essere
eseguita di notte nei parchi o nelle corti dei ricchi mecenati in occasione di feste
mondane. Molto diffuso in ambiente francese (nocturne) e tedesco (Nachtmusik),
probabilmente il termine fu tratto per una comoda analogia dall’omonimo ufficio
della Chiesa cattolica. Il notturno indicò poi più generalmente una forma di
composizione di carattere delicato, patetico e lirico, con una componente di sogno
e di movimento lento che ben si adattava alla sensibilità del Romanticismo.
Sebbene nella sua forma più familiare il brano fosse composto da un unico
movimento per pianoforte solista, esso non obbedisce a una precisa forma
prestabilita, né vi sono indicazioni speciali di misure e tempo, rimanendo così una
forma di libera ispirazione. Senza dubbio i notturni più famosi sono quelli del
compositore polacco Frederic Chopin, di spiccato carattere elegiaco e
sentimentale, mentre un altro nome importante è quello di Claude Debussy.
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È indubbio che la forma del notturno attraverso le sue innumerevoli
trasformazioni nel tempo abbia creato uno speciale colore di cui si ritrovano i
segni anche in opere che non vanno sotto questo titolo. Il notturno come atmosfera
e stato d’animo lo si trova un po’ dappertutto in tutte le arti fin dai loro albori (per
la letteratura lo troviamo ad esempio già in Omero e nella lirica di Saffo).
L’ambientazione notturna diventa poi spesso spunto per una riflessione su se
stessi o su altri temi di carattere introspettivo e sentimentale (si pensi ad esempio
ad alcuni idilli di Leopardi).
Inoltre possono essere condotte letture del notturno a diversi livelli. A un livello
più letterale, possiamo limitarci infatti all’analisi più superficiale di tutti quegli
elementi concreti ricorrenti. Così le stelle, la luna, il cielo che si scurisce, l’aria
tiepida della sera, la natura che si fa silenziosa e tutta una lunga serie di oggetti
strettamente legati all’ambiente che circonda l’autore diventano i soggetti
principali del componimento. Essi possono occupare uno spazio più o meno
ampio, ma sono sempre presenti e in qualche modo danno l’avvio all’azione e
collaborano alla genesi della poesia. Proprio per la loro ricorrenza tutti questi
elementi finiscono per costituire una specie di tòpos, una situazione tipica con
caratteristiche fisse che, se mai venissero a mancare, comporterebbero un
cambiamento sostanziale della definizione dell’opera. In qualsiasi composizione
di un qualunque autore che definiamo “notturno” ci aspettiamo infatti di veder
comparire la luna o le stelle o anche animali legati alla notte.
In altri casi, passando a un’interpretazione meno letterale, tutti gli elementi
appena citati passano dall’essere il semplice sfondo dell’azione ad assumere la
veste di personaggi veri e propri, che spesso anche dialogano con il protagonista,
cioè il poeta. Come non ricordare il celeberrimo Alla luna di Leopardi? In questa
trasformazione gli elementi naturali possono anche risultare più o meno
personificati. Così D’Annunzio nella sua La sera fiesolana invoca la Sera (con
tanto di maiuscola) come una divinità della natura o una bellissima donna dal
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volto perlaceo: «Laudata sii pel tuo viso di perla, / o Sera, e pe’ tuoi grandi umidi
occhi ove si tace / l’acqua del cielo!».
Tutti questi caratteri collaborano a definire un’atmosfera notturna, uno stato
d’animo allo stesso tempo oggettivo, in quanto risultato di determinati elementi
posti in una certa situazione, e soggettivo, frutto della visione del fruitore e
strettamente collegata al suo sentire. In questo particolare tipo di atmosfera
possiamo a volte rintracciare una sfumatura di spiritualità. La sera è di solito un
momento in cui la caotica vita quotidiana rallenta per lasciare spazio al silenzio e
alla riflessione su se stessi e su ciò che ci circonda. Diventa quindi una sorta di
luogo misterioso, quasi magico, dove razionale e irrazionale sfumano l’uno
nell’altro e dove si verifica un continuo passaggio dal mondo reale esterno a
quello irrazionale, dominato dal sentimento e dell’interiorità del poeta.
Per questo il notturno finisce per assumere su di sé anche una nota di religiosità,
da non intendere però solo in senso intimamente cristiano. Abbiamo, sì, parlato
anche di notturno come uno degli uffici della Chiesa cattolica, ma sarebbe
riduttivo limitare in questo modo tale sfumatura religiosa. Il momento di
passaggio dalla luce alle tenebre ha avuto una valenza molto importante in tutte
le religioni di tutte le epoche, in particolare quelle più primitive e fortemente
legate al culto della natura (da ricordare che, però, anche il Cristianesimo erediterà
simboli e rituali da questi culti). Quindi indubbiamente è presente un senso di
comunione spirituale con tutti quegli elementi naturali caratterizzanti il paesaggio
notturno; ma questa spiritualità può essere intesa anche come un rituale più intimo
e soggettivo. Abbiamo già parlato della riflessione che spesso ispira l’ambiente
notturno: ebbene, anche questa profonda analisi interiore potrebbe essere vista
come un rituale antico, complesso e soprattutto carico di simbolismo.
La dimensione interiore, che già emerge nel periodo romantico, diventerà poi
preponderante nel Novecento, superando il semplice bozzetto naturale di un
paesaggio serale e spesso mettendo in secondo piano gli oggetti topici
dell’ambientazione notturna (ma, nonostante questo, stelle, luna, ecc. non
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scompariranno mai del tutto). Il semplice dipinto di un panorama al calar della
sera non basterà più, si cercherà di continuo di andare oltre alla mera apparenza e
di scoprire il significato più profondo di quelli che da semplici elementi naturali
diventeranno simboli di notevole peso. Non basta immergersi in un’atmosfera che
ispiri al poeta qualche bel verso: essa deve contribuire a tirare fuori la sua
interiorità e aiutarlo a scoprire se stesso. Deve far sì che veda riflessi nei simboli
canonici del notturno i propri dissidi interiori, la propria anima: un’osservazione
che diviene anche (e soprattutto) una conoscenza di se stessi.
Proprio per questo motivo, spesso si abbandona la descrizione ben definita che
segue una logica precisa e riconoscibile, mentre i contorni dell’opera si fanno più
sfumati, finendo per seguire la logica del sogno. Come avremo modo di vedere
più nello specifico, spesso il notturno porta con sé un che di onirico: si passa dalla
cruda concretezza della realtà a scene totalmente irrazionali e accostamenti
apparentemente illogici di cose ed idee. Com’è ovvio, è soprattutto in questo tipo
di poesie che l’elemento simbolico e spirituale emerge maggiormente. Così il
notturno finisce per diventare anche un’esperienza al limite del sogno, dove è
difficile distinguere gli oggetti reali dalle idee più astratte, amalgamandosi il tutto
in qualcosa di non ben definito e definibile che può andare incontro a
interpretazioni molto differenti a seconda della sensibilità e del background
culturale del fruitore. Non è un caso probabilmente che aspetti di questo tipo siano
tipici di molti poeti del primo Novecento, come appunto Campana: ricordiamo,
infatti, che L’interpretazione dei sogni di Sigmund Freud fu pubblicata proprio
nel 1900. Indubbia è anche l’influenza del concetto di inconscio elaborata dallo
psicanalista austriaco.
Infine, in altri casi più rari, il notturno può rappresentare non solo la situazione
interiore del poeta, ma anche fare riferimento a una condizione reale e “fisica” in
cui egli si trova. L’esempio più lampante è senz’altro il Notturno di D’Annunzio:
a causa di un danno alla vista riportato in guerra, durante la convalescenza il poeta
fu costretto a rimanere a lungo immobile con entrambi gli occhi bendati.
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Nonostante tutto, utilizzando strisce di carta o cartigli su ciascuna delle quali era
vergata una singola riga di testo, riuscì a scrivere questa sorta di diario continuo,
in cui pensieri e ricordi si mescolano in una scrittura fortemente lirica. La
rievocazione “cieca” dello scrittore isolato nel buio dei propri ricordi che fa i conti
con il proprio io si mescola qui all’esperienza del dolore (la tragica scomparsa
dell’amico), senza ovviamente essere esente da caratteri onirici.
Questo tentativo di dare una definizione di notturno non esaurisce ovviamente
tutti gli aspetti che esso può presentare a seconda della prospettiva dal quale lo
osserviamo, ma tutti gli elementi fin qui analizzati riemergono più o meno
esplicitamente nei Canti Orfici di Dino Campana. È però difficile scindere
nettamente il tema del notturno da tutti gli altri grandi temi che dominano l’unica
opera del poeta marradese. Così, ad esempio, sarà faticoso tralasciare del tutto il
problema dell’orfismo o i numerosi tratti biografici che affiorano qua e là nella
sua complessa poetica. Di seguito cercheremo, quindi, di analizzare come
Campana tratta il notturno e i vari aspetti che esso assume in alcuni componimenti
dei Canti Orfici,
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tenendo ben presenti le linee finora tracciate e facendo
riferimento alle varie redazioni precedenti, in particolare a quella di Il più lungo
giorno, laddove ritenuto necessario ai fini del discorso.
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Per il testo si è utilizzata l’edizione curata da Fiorenza Ceragioli (Dino Campana, Canti Orfici, a cura di
Fiorenza Ceragioli, Milano, BUR Rizzoli, 2011), che riproduce il testo pubblicato da Ravagli a Marradi nel 1914
(preferito dallo stesso Campana rispetto alla ristampa del 1928 con la prefazione di Binazzi).