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Introduzione
La parola dimorfismo, di origine greca, significa letteralmente “fenomeno per
cui una specie animale o vegetale presenta due tipi di individui con
caratteristiche diverse”.
L’unione del nome “dimorfismo“ all’aggettivo “sessuale“ non è da intendersi
semplicemente come differenza di aspetto e forma in quelli che sono i caratteri
fenotipici primari e secondari che distinguono i sessi.
Il dimorfismo sessuale si apre su un orizzonte riguardante le differenze fra i
due sessi ben più articolato e complesso, che comprende l’aspetto cognitivo, il
comportamento e la sfera delle emozioni.
Anche l’incidenza di molte psicopatologie presenta notevoli discrepanze fra
uomini e donne: questo argomento, che verrà affrontato nella presente tesi, fa
riferimento sia all’approccio biologico-deterministico, secondo cui le differenze
di genere e il comportamento umano patologico e non patologico, si evolvono
partendo da una base genetica innata e immodificabile, sia all’approccio socio-
culturale, secondo cui l’influenza dell’ambiente e delle esperienze plasma
l’essere umano e ne determina il ruolo maschile / femminile in base a stereotipi e
rappresentazioni sociali culturalmente condivise da una stessa società.
Saranno vagliati gli studi principali di entrambi gli orientamenti sopra citati,
per offrire una panoramica sull’incidenza di certe psicopatologie, che
frequentemente sfavorisce uno dei due sessi piuttosto che l’altro, e sulle cause
attribuite a queste discrepanze.
Nel primo capitolo verrà presentata una panoramica degli studi e delle teorie
scientifiche che sostengono l’ipotesi secondo cui il comportamento degli uomini
e delle donne presenta aspetti dimorfici a causa di un determinismo biologico
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che ha lo scopo di indirizzare i due sessi verso funzioni socialmente
diversificate.
Tale determinismo doterebbe, già alla nascita, di strutture biologiche,
neurologiche e anatomiche diverse, atte a privilegiare, negli uomini, i
comportamenti necessari alla protezione e al sostentamento del nucleo familiare,
e, nelle donne, i comportamenti prosociali necessari all’accudimento della prole.
Nel secondo capitolo verranno esposte le teorie socio-culturali, secondo le
quali la caratterizzazione sessuale dei comportamenti maschili e femminili
subirebbe l’influenza degli stereotipi sociali collegati al genere e culturalmente
condivisi.
Secondo quest’ottica, gli stereotipi creerebbero i ruoli di genere, ai quali, il
maschio e la femmina, sarebbero chiamati a conformarsi fin dalla nascita, e che
li spingerebbe ad adottare i comportamenti che vengono socialmente ritenuti
adeguati, in base al genere d’appartenenza.
Gli interrogativi che ci siamo posti, a questo punto, sono stati i seguenti:
1) se la biologia sancisce, alla nascita, il comportamento umano dimorfico non
patologico, potrebbero esserci, nelle strutture predeterminate degli uomini e
delle donne, anche dei fattori innati che li predispongono a deficit psicologici
peculiari del sesso d’appartenenza?
2) Se gli stereotipi e le rappresentazioni sociali costruiscono, diversificandoli, i
ruoli di genere, potrebbero esercitare un’influenza tale, da tipizzare anche le
psicopatologie, dal momento che i maschi e le femmine mostrano una sorta di
vulnerabilità genere-specifica?
Sulla base di tali considerazioni, passeremo in rassegna alcuni comportamenti
psicopatologici che presentano dimorfismo sessuale nell’incidenza e/o nelle
caratteristiche sintomatologiche, e le spiegazioni che ci forniscono sulle cause
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della loro eziopatogenesi sia l’ottica biologico-deterministica, sia quella socio-
culturale.
Per la classificazione delle psicopatologie verrà fatto riferimento al DSM IV-
TR, di cui saranno presi in esame i seguenti disturbi clinici dell’asse I:
i disturbi dell’umore (cap. 3);
i disturbi d’ansia (cap. 4);
l’autismo e la schizofrenia (cap. 5).
La scelta dei disturbi da analizzare è stata operata sulla base delle
psicopatologie che presentano incidenza o gravità più accentuate, che siano
ubiquitarie, cioè si riscontrino in tutte le società e culture, e che non siano dovute
a condizioni mediche generali o a deterioramento cerebrale conseguente a traumi
o malattie degenerative.
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CAPITOLO 1
L’APPROCCIO BIOLOGICO – DETERMINISTICO AL DIMORFISMO
SESSUALE
1.1 L’approccio biologico-deterministico
Nell’ottica biologico–deterministica il tema delle differenze sessuali è affrontato
sul piano dei costituenti biologici, fisiologici e naturali.
Analizzare la questione della differenza maschile–femminile secondo
l’approccio biologico vuol dire applicare un paradigma interpretativo centrato
sulla concezione che la differenza sessuale è un aspetto puramente “naturale”
che, in quanto tale, risulta radicato nel sesso inteso proprio come dato biologico
(Busoni, 2000).
1.1.1 Uomo/Donna o Maschio/femmina?
Il significato dei termini maschio/femmina rimanda ai fattori biologici,
fisiologici e naturali che caratterizzano le differenze sessuali, mentre nei termini
uomo/donna è implicito il riferimento alle differenze che sono pertinenti agli
aspetti sociali e culturali.
Nell’ottica dell’approccio biologico al tema della differenza sessuale, i due
termini diventano invece intercambiabili poiché tutto ciò che concerne la
mascolinità e la femminilità risiede nel sesso genetico–cromosomico,
embrionale, endocrino e nel dimorfismo sessuale del cervello.
Ciò significa che oltre agli aspetti fenotipici ed organici, anche le
caratteristiche di personalità, le attitudini, i comportamenti ed i sistemi di
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credenze maschili e femminili devono essere considerati come biologicamente
determinati.
Essi vengono infatti ricondotti ad una dimostrata differenza fra i cervelli di
uomini e di donne non solo rispetto ai dati morfologici, anatomici o di struttura,
ma soprattutto relativamente ai processi di funzionamento.
I maschi sembrerebbero infatti caratterizzati da una iperspecializzazione
dell’emisfero cerebrale destro, sede di centri deputati allo svolgimento di attività
visuo–spaziali, mentre le donne invece manifesterebbero un’iperspecializzazione
dell’emisfero sinistro che è deputato allo svolgimento di attività verbali e
comunicative (Taurino, 2005).
Secondo quanto riportato da Pinel (2006), invece, la causa della superiorità
femminile in queste abilità sarebbe riferibile ad un cervello “meno lateralizzato”
dovuto ad una maggiore comunicazione interemisferica.
1.1.2 Sesso versus Genere
Nell’approccio biologico il tema delle diversità maschio/femmina–uomo/donna
è collegato al significato semantico del termine “ sesso” che in relazione appunto
al tema della differenza sessuale utilizza criteri di categorizzazione su dati
biologico–naturali (Taurino, 2005).
Il sesso di appartenenza diventa quindi l’elemento determinante, la base di
partenza geneticamente preordinata, da cui scaturiscono gli atteggiamenti tipici
del maschio e della femmina.
Il comportamento affiliativo, la cura della prole, l’aggressività, il bisogno di
predominio sarebbero frutto dell’espressione genetica.
In quest’ottica, ad esempio, il comportamento di attaccamento alla prole,
osservato subito dopo il parto, è il risultato diretto dei cambiamenti ormonali
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Conclusioni
Può esistere una risposta univoca alle nostre domande iniziali, cioè se siano le
cause biologiche innate o l’influenza dell’ambiente e della cultura, a determinare
la vulnerabilità genere-specifica nei confronti di certe psicopatologie?
Probabilmente, no.
Se la biologia, da un lato, ci affida ad un destino predeterminato, in cui può
esserci madre o matrigna, a seconda di ciò che è iscritto nel nostro codice
genetico, d’altro canto possiamo dire la stessa cosa dell’ambiente culturale in cui
veniamo al mondo e degli eventi esperienziali che incontreremo nella nostra vita.
Sebbene certe psicopatologie colpiscano con maggiore frequenza uno dei due
sessi piuttosto che l’altro, non è mai stata riscontrata una concordanza al 100%
fra i gemelli monozigoti, e questo è un dato estremamente rilevante, poiché
introduce variabili ambientali che esistono al di fuori di ogni individuo, e che
senza dubbio hanno un peso altrettanto determinante di quello biologico.
Non si possono certo negare le evidenze scientifiche sul dimorfismo
cerebrale ed ormonale, che si estrinsecano nei comportamenti umani patologici e
non patologici; tali differenze non sono sotto il controllo completo
dell’ambiente, poiché nasciamo già, sotto molti aspetti, dimorfici.
Non possiamo però nemmeno negare l’influenza operata dai fattori
ambientali e dai condizionamenti culturali sul genere, e quanto questi ultimi, che
hanno in sé un retaggio storico plurimillenario, oggi, come non mai, stridano in
una realtà sociale mutata ed in continuo divenire, in cui la cristallizzazione dei
ruoli non è più possibile né funzionale.
Esistono numerosi esempi, nella storia collettiva o in quella personale, che
mettono in luce come individui, che hanno radici culturali, o familiari, comuni,
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rispondono in maniera estremamente differenziata agli eventi della vita, siano
essi traumatici o propizi (Jervis, 2001).
Date queste considerazioni, forse è il caso di dire che, né la biologia, né
l’ambiente socioculturale, hanno un potere assoluto sull’altro, né, tantomeno,
sulla risposta individuale del soggetto.
Questa trattazione è stata condotta separando le cause biologiche da quelle
socio-culturali relative al dimorfismo sessuale, ma nella realtà dei fatti esse non
sono né antagoniste, né antitetiche.
Ciò che non deve essere dimenticato, nel valutare la diversa incidenza delle
psicopatologie fra maschi e femmine, è che mente e cervello non sono due
concetti dicotomici e mutuamente escludentisi, ma vanno considerati come entità
inseparabili e, semmai, reciprocamente influenti.
Tuttavia, dall’analisi dei disturbi che sono stati presi in esame, emerge che il
determinismo biologico e l’influenza socio-culturale rivestono un peso diverso
nell’eziopatogenesi delle varie psicopatologie che abbiamo vagliato.
Considerando i dati epidemiologici, può essere lecito affermare che i disturbi
d’ansia ed i disturbi dell’umore costituiscono i mali psicologici del secolo; tale
pandemia colpisce prevalentemente la popolazione femminile.
Se all’insorgenza di tale disturbo si attribuiscono esclusivamente cause
biologiche, si rischia di scivolare ed uniformarsi ad una atavica mentalità
sessista, che ritiene che le donne siano soggetti, per nascita, implicitamente
vulnerabili e deficitari nella sfera del controllo delle emozioni e dell’affettività.
Quando si afferma, ad esempio, che nella depressione le fluttuazioni
ormonali giocano un ruolo decisivo, si tende a considerare un difetto la ciclicità
costituzionale femminile.
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Il rischio che si corre, è quello di mantenere in vita l’arcaico pensiero
aristotelico, attraverso il quale la donna veniva letta – e spesso, viene tuttora – in
termini di difetto e di manchevolezza (Duby & Perrot, 1990).
Senza negare le evidenze scientifiche relative alle alterazioni fisiologiche
riscontrabili nei soggetti affetti da depressione o da disturbi d’ansia, risulta
comunque difficile identificare se esse siano le cause primarie delle patologie
oppure soltanto una loro conseguente manifestazione.
Se ansia e depressione, pur essendo patologie storicamente identificate anche
in tempi remoti, hanno raggiunto una diffusione epidemiologica così estesa
nell’attuale contemporaneità, è impossibile estrapolarle dal contesto socio-
culturale in cui esse hanno raggiunto un’espansione così significativa.
Nel campo della salute femminile in particolare, si assiste, da un lato,
all’incremento delle psicopatologie ansiose e depressive, dall’altro alla graduale
scomparsa di disturbi considerati genere-specifici, quale il disturbo isterico di
personalità; sembrerebbe quasi che l’isteria, che oggigiorno, in un’epoca di
liberalizzazione della sessualità femminile, seppure incompleta, abbia meno
ragione d’esistere, sia stata soppiantata da altri disturbi più congruenti all’attuale
contesto storico.
Nel tentativo di spiegare le cause della maggiore incidenza di ansia e
depressione nel genere femminile, non si possono trascurare i cambiamenti
socio-culturali collegati al ruolo della donna nella società.
Nell’epoca post-moderna esistono numerosi fattori di rischio per la salute
psicologica della donna: condizioni di lavoro precarie e mal retribuzione,
mansioni meno soddisfacenti nella scala gerarchica occupazionale, tempo libero
ridotto o inesistente; sono questi, per citarne alcuni, i fattori che influiscono
negativamente sul concetto di sé e sulla propria autostima, e costituiscono il
preludio delle sindromi depressive (Reale, 2007).
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Nel quarto capitolo abbiamo visto come l’ansia sia un costrutto fortemente
interrelato allo stress: e se, attualmente, i ritmi quotidiani di vita sono divenuti
frenetici per tutta la popolazione in generale, certamente non si può trascurare il
fatto che, per le donne lavoratrici, tali ritmi siano oltremodo logoranti, poiché è
rimasto loro anche il carico esclusivo della responsabilità dei figli e delle
mansioni domestiche (Ruspini, 2003; Pruna, 2007).
A ciò si aggiunga che le donne sono spesso impiegate in occupazioni
particolarmente stressanti, come ad esempio, le professioni di cura, e che sono
statisticamente i soggetti maggiormente colpiti da comportamenti di mobbing e
stalking, che le sottopongono ad un continuo stato di all’erta e di paura
(Pellegrino et al., 2005; Reale, 2007).
Pur non negando l’esistenza di una possibile predisposizione genetica alla
base dei disturbi ansiosi e depressivi, che sembrerebbe confermata dagli studi
epidemiologici relativi alla concordanza fra gemelli monozigoti, non bisogna
dimenticare che tali psicopatologie fanno la loro comparsa sintomatologica in età
adulta, cioè quando le influenze socio-ambientali, con annesso il carico dei
pregiudizi sessisti e degli stereotipi di genere, possono aver favorito
l’espressione genetica di ciò che altrimenti avrebbe potuto rimanere una
semplice e sopita predisposizione.
Quando si riscontrano delle anticipazioni sull’età di esordio delle malattie, i
dati riportano che ciò si verifica particolarmente a carico del genere maschile,
come accade nel disturbo ossessivo-compulsivo, fra i disturbi d’ansia, e nella
schizofrenia (DSM IV-TR, 2000).
Nell’autismo, le percentuali di incidenza della malattia fra i generi, si
invertono radicalmente, rispetto ai disturbi d’ansia e dell’umore: il rapporto fra
maschi e femmine è addirittura di 5:1, come riporta il DSM IV-TR.
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L’autismo è una psicopatologia che esordisce molto precocemente, al di sotto
dei tre anni di età, tanto che spesso viene citata con l’appellativo di “infantile”
anche se, trattandosi di un disturbo pervasivo dello sviluppo, la sua
sintomatologia caratterizzerà il soggetto per tutto il corso della vita (Zappella &
Ianes, 2009).
Per spiegare le cause di questa sindrome, non esistono attualmente
convincenti teorie socio-culturali: quelle che sono state proposte nel secolo
scorso e che attribuivano l’eziopatogenesi dell’autismo all’incapacità materna di
instaurare un legame affettivo con il proprio figlio, sono state quasi del tutto
inficiate ed abbandonate.
Gli studi neurobiologici sui neuroni a specchio (Rizzolatti & Luppino, 2001;
Rizzolatti & Craighero, 2004; Rizzolatti & Sinigallia, 2006) si incontrano con la
teoria di Baron-Cohen che vede, nell’autismo, l’espressione di un cervello
maschile estremo: attualmente tali studi sembrerebbe i più convincenti e adatti a
spiegare una malattia che insorge molto tempo prima che le influenze ambientali
possano apporre il proprio significativo contributo.
In ogni caso, l’esempio di Temple Grandin, citato nella presente trattazione,
dimostra che l’intervento di adeguati programmi comportamentali sui soggetti
autistici può condurre ad efficaci modificazioni della sintomatologia e della
severità del disturbo, confermando che anche su una malattia con basi biologiche
apparentemente preponderanti, le condizioni ambientali e culturali possono
apportare dei cambiamenti (Grandin, 1996).
La teoria di Baron-Cohen (2003), che considera il cervello autistico come un
cervello maschile estremo, poiché già nel soggetto maschio nella norma le
capacità empatiche sono notevolmente ridotte rispetto a quelle delle donne,
potrebbe addirittura capovolgere, verso un vantaggio tutto femminile, l’idea
aristotelica di donna intesa come soggetto costituzionalmente deficitario.
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In base a tale rivoluzionaria teoria, infatti, il cervello femminile, con le sue
capacità intrinsecamente empatiche, costituirebbe un efficace fattore di
protezione contro il rischio di sviluppare il disturbo autistico (Baron-Cohen,
2003).
Al termine di questa panoramica conclusiva, è lecito affermare che nessun
disturbo mentale può essere attribuito esclusivamente alla differenza di
meccanismi biologici di base oppure al ruolo di genere rivestito da un individuo
nella società, sebbene possano esserci delle patologie mentali in cui una delle
due soluzioni sembri avere un peso preponderante rispetto all’altra.
Natura e cultura, aspetti innati e apprendimento, si amalgamano e si fondono,
creando l’individuo: se la biologia predispone il soggetto ad un destino, quel
destino può essere consolidato e amplificato, oppure, perché no, totalmente
cambiato, dalle influenze socio-culturali.
Fatte queste premesse, è quindi fonte di speranza il pensare che, dove il
genotipo contenga le informazioni che potrebbero imprigionare l’uomo o la
donna, il maschio o la femmina, in una condizione patologica o comunque in
grado di limitare le possibilità di espressione dell’individuo, possa intervenire
una cultura che dia loro gli strumenti per liberarsene.