2
aiuto: l’individuo in stato di bisogno si dibatte tra sentimenti contrastanti, da
una parte percepisce l’effettivo bisogno strumentale di chiedere aiuto esterno
per risolvere il problema che lo attanaglia, dall’altra però avverte i costi
psicologici derivanti da questa scelta, che possono ridurre drasticamente la
disponibilità a cercare l’assistenza necessaria. I costi psicologici sono stati
analizzati suddividendoli in costi personali, che influiscono sull’autostima e sul
concetto che ogni uomo ha di sé, e costi sociali, che si ripercuotono sulle
relazioni interpersonali e le percezioni che gli altri hanno di noi. Nel corso
della dissertazione saranno descritte le variabili che, secondo Fisher e colleghi
(1982) e numerosi autori successivi che hanno approfondito l’argomento, sono
in grado di determinare se una certa esperienza di ricezione dell’aiuto sarà
sostenitiva o minacciosa per colui che usufruisce del sostegno sociale. Si
parlerà di condizioni situazionali, come caratteristiche di chi fornisce assistenza
(impersonalità, somiglianza, attrattiva dell’helper) e caratteristiche dello stato
di bisogno (ego-centralità, livello, e consenso sul bisogno d’aiuto) , e di
caratteristiche idiosincratiche del ricevente, quali fattori demografici (età,
status socioeconomico, genere) e fattori di personalità (autostima, motivazione
al successo, timidezza, auto-coscienza).
Dopo aver trattato, nel primo capitolo, il comportamento di richiesta d’aiuto in
generale, nel secondo capitolo il focus di analisi sarà circoscritto ad un ambito
specifico di applicazione delle dinamiche del chiedere e ricevere sostegno
sociale: il contesto dell’organizzazione. Si assume l’organizzazione come sede
privilegiata di relazioni tra individui a lavoro, caratterizzate da un diverso
grado di intensità. È naturale che in questo ambito, come in tanti altri contesti
di vita reale, si verifichino episodi di richiesta e profferta di aiuto, sia nelle
relazioni più intime, come possono essere quelle tra colleghi, sia in quelle più
formali, come, ad esempio, quelle che intercorrono tra il lavoratore e il suo
superiore. Il setting lavorativo rappresenta ancora un campo poco esplorato per
quanto riguarda la richiesta d’aiuto. Solo negli ultimi tempi, a cominciare dagli
anni ’90, alcuni ricercatori hanno dato vita ad una serie di studi pionieristici sul
comportamento proattivo sul posto di lavoro che comprende, oltre alla richiesta
d’aiuto, altre due modalità di condotta che hanno, con questa, molte
3
caratteristiche in comune: si tratta della richiesta proattiva di feedback e della
richiesta proattiva di informazioni. Nel capitolo verrà analizzato il
comportamento proattivo prendendo in considerazione il modello realizzato da
Crant nel 2000, onnicomprensivo della maggior parte degli approcci teorici
esistenti sull’argomento, che costituisce un valido tentativo di mettere ordine in
un panorama concettuale alquanto eterogeneo. Ispirandosi ad una definizione
basilare comune a tutti gli approcci secondo cui il comportamento proattivo si
traduce nel rifiuto dello stato delle cose e nel prendere l’iniziativa per
migliorare la situazione contingente, quindi in un cambiamento attivo
dell’ambiente organizzativo, alcuni teorie misurano la condotta proattiva
attraverso costrutti generali quali, ad esempio, la personalità proattiva,
l’iniziativa personale, o l’auto-efficacia; altre teorie, invece, analizzano domini
specifici in cui si esplica la proattività, come la socializzazione, l’innovazione,
il coping. Successivamente, saranno descritti più nel dettaglio i tre principali
comportamenti proattivi, richiesta di feedback, di informazioni, e di aiuto,
considerando analogie e differenze, e caratteri fondamentali di ognuno.
Maggiore attenzione sarà rivolta al comportamento di richiesta d’aiuto sul
posto di lavoro e ai suoi effetti sui processi di auto-presentazione e
sull’immagine pubblica dell’individuo, dovuti ai già citati costi psicologici
associati alla richiesta. Infine, saranno annoverati le potenziali cause (o
antecedenti) che inducono gli individui a ricercare e a fornire sostegno sociale
a lavoro come, ad esempio, la competenza sociale, l’attrattiva fisica, o la
percezione di reciprocità, e si rifletterà sulla possibilità di ricevere un aiuto
(prevalentemente strumentale) non gradito, con le inevitabili ripercussioni sulla
prestazione lavorativa e sulle relazioni interpersonali all’interno
dell’organizzazione.
Nel terzo capitolo sarà analizzata la variabile che rappresenta il focus vero e
proprio di questo lavoro di tesi, quella del genere, considerata come un ponte
tra fattori demografici e fattori di personalità. Si cercherà di tracciare le linee
guida degli approcci teorici più significativi rispetto a tale argomento, come la
teoria della socializzazione, la teoria dell’apprendimento sociale, il contributo
femminista, prendendo le mosse dagli albori della nozione di genere e
4
riflettendo sull’evoluzione che ha subito nel tempo. Infatti si è verificato un
passaggio radicale dal concetto di sesso a quello di genere, fino ad arrivare ai
ruoli di genere, vale a dire quei comportamenti attesi, di uomini e donne,
acquisiti interiorizzando i valori culturali esterni, che fanno riferimento più che
al concetto di genere biologico a quello di genere psicologico.
Sarà dato spazio, inoltre, al concetto di stereotipo sessuale e alla forte influenza
che gli stereotipi di genere esercitano sulla società moderna, accentuando
notevolmente le effettive differenze tra uomini e donne. Saranno elencate le
principali fonti di influenza che inducono l’assunzione di specifici
atteggiamenti e tratti di genere da parte di maschi e femmine. Si passerà poi ad
approfondire la relazione tra le differenze di genere e il concetto di sé, in
particolar modo le diversità tra un modello del sé interdipendente, associato
alla sfera della femminilità, e un modello del sé indipendente, usualmente
connesso alla sfera della mascolinità. Seguirà la descrizione del modello
teorico di Baumeister & Sommer (1997) che nasce come critica al postulato
secondo cui le differenze di genere dipendono da differenti modalità di
costruzione del sé. Questo tipo di differenze le ritroveremo anche
nell’argomentazione dedicata al comportamento d’aiuto e alla richiesta di
sostegno sociale, in cui si farà riferimento alla teoria del ruolo sociale in base
alla quale il comportamento d’aiuto è governato dai ruoli di genere. Dopo una
breve disquisizione sulle differenti modalità di dare e ricevere aiuto rispetto
alla sfera interpersonale, si tratterà delle relazioni di genere nel contesto
lavorativo, che si sviluppano all’ombra degli stereotipi sessuali vigenti nella
società contemporanea, finendo con una riflessione sull’orientamento sociale
attivo, stile di coping tipicamente femminile che favorisce il sostegno sociale in
numerosi domini della vita quotidiana, con particolare rilievo all’ambito
lavorativo.
Nel quarto capitolo la discussione verterà sul concetto di androginia, e sulle
prospettive teoriche a riguardo, seguendo un percorso che va dalle prime
misurazioni delle dimensioni di mascolinità e femminilità risalenti agli inizi del
‘900, passando dalle ricerche effettuate da Bem agli inizi degli anni ‘70, e dal
contributo di Spence e dei suoi colleghi, per finire con il contributo di Lorenzi-
5
Cioldi e le più recenti definizioni di androginia psicologica. La nascita della
teoria dell’androginia psicologica viene di solito fatta risalire al 1974, anno in
cui Sandra Bem presentò una innovativa tecnica di misurazione che
considerava la mascolinità e la femminilità come dimensioni indipendenti,
applicabili all’individuo in maniera complementare. Essendo totalmente in
contrasto con le precedenti metodologie la teoria fece clamore nell’ambito
scientifico ma attirò su di sé anche aspre critiche. L ’intento di Bem fu quello
di provare che l’individuo androgino, donna o uomo che sia, è molto più
flessibile degli uomini e delle donne comuni perché non si sente vincolato da
un concetto rigido di ruolo sessuale e grazie a questa duttilità riesce ad agire in
modo efficiente nelle situazioni più disparate. L’ultima parte del capitolo sarà
dedicata agli effetti dell’androginia psicologica sul comportamento d’aiuto che
si verifica nel contesto lavorativo. Ci si soffermerà sulle “situazioni di
aspettativa duale”, denominate così perché sono circostanze che richiedono
all’individuo di mostrare sia caratteristiche espressive che caratteristiche
strumentali, innescando, così, un conflitto di ruolo che fa aumentare i livelli di
stress e di ansia, soprattutto nelle donne. In ultimo ci si focalizzerà sulla
relazione tra condotta androgina e strategie di coping finalizzate a eliminare, o
almeno ridurre, lo stress che si esperisce sul posto di lavoro.
Nel quinto ed ultimo capitolo viene presentato uno studio empirico basato su
un gioco di simulazione e finalizzato a valutare l’influenza della androginia
psicologica, delle differenze di status e di genere, sugli aspetti comportamentali
e rappresentazionali del processo di richiesta di aiuto.
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Capitolo primo
LA RICHIESTA D’AIUTO: UNA VISIONE D’INSIEME.
CONTRIBUTI TEORICI ED EVIDENZE EMPIRICHE
Il comportamento di richiesta d’aiuto si verifica quando un individuo si trova in
uno stato di bisogno e si rende conto di non possedere le risorse sufficienti per
risolvere il problema da solo. Per questo, decide di chiedere aiuto ad un’altra
persona che gli fornisca l’assistenza necessaria.
Accade spesso però che l’individuo in difficoltà è conscio del fatto di non
potercela fare da solo, eppure, decide deliberatamente di non chiedere aiuto,
anche se questo decreterà il fallimento personale e/o un’intensificazione del
problema che lo affligge. In casi come questo, chiedere aiuto, per chi vive una
situazione di disagio, equivale ad un’aperta ammissione di fallimento e di
inadeguatezza nei confronti del mondo circostante.
1. Ricerca passata e prospettive teoriche sulla richiesta d’aiuto
Tutta la passata ricerca sul comportamento prosociale è focalizzata sul
comportamento d’aiuto. Inizialmente, però, si riteneva che l’unica incognita su
cui indagare in un contesto d’aiuto fosse la disponibilità del potenziale
donatore a fornire supporto, e che il solo atto d’aiuto, a prescindere dal
contesto in cui si verificava, e dalla persona a cui era rivolto, avrebbe
inevitabilmente suscitato una reazione positiva nel ricevente. Ad esempio,
furono analizzate le condizioni di predisposizione individuale ad aiutare gli
altri. Fino agli anni ’70, la maggior parte delle ricerche che avevano come
oggetto il comportamento d’aiuto, si focalizzò quasi esclusivamente sulle
variabili che facilitano o inibiscono la condotta del potenziale donatore. Si dava
per scontato che l’aiuto fornito sarebbe stato ben accolto, perciò la figura del
ricevente, considerato come un individuo passivo e privo di iniziativa
personale, era pressoché ignorata (Gross & McMullen, 1983: 45-46). Solo
negli ultimi decenni si è verificato un graduale passaggio dell’attenzione degli
studiosi dalla ricezione passiva dell’aiuto, alla ricerca proattiva dello stesso, e
7
di conseguenza, alle reazioni dei riceventi (cfr. Fisher, Nadler, & Whitcher-
Alagna, 1982). Maturò l’idea che un comportamento d’aiuto si realizza sempre
all’interno di una relazione, e che l’efficacia di tale aiuto dipende anche
dall’azione del ricevente. La psicologia del beneficiario, soffermandosi sulle
reazioni del destinatario come ricevente attivo del sostegno, ha suggerito che è
dal comportamento individuale che dipende la validità dell’aiuto. L’ aiuto non
rappresenta sempre, e in modo incondizionato, un vantaggio per chi lo riceve.
Questo corpo di ricerche ha dimostrato che il ricevere aiuto è un fenomeno
psicologico complesso. A volte, è un’esperienza positiva per il ricevente, ed è
associata a reazioni favorevoli. In altri casi, si rivela un’esperienza negativa ed
altamente minacciosa, associata a reazioni altrettanto negative. Fisher e
colleghi (1982), nel loro modello della minaccia all’autostima, hanno
denominato l’aiuto mixed blessing cioè “dono misto”, poiché suscita sentimenti
contrapposti in colui che lo riceve.
Gli elementi minacciosi o supportivi del sé contenuti nell’aiuto, condizionano
sia le auto-percezioni, che le percezioni riguardanti la realtà esterna, che le
risposte comportamentali. Sono le condizioni situazionali (caratteristiche
dell’helper e dell’aiuto) e le caratteristiche di personalità del ricevente a
determinare se una certa esperienza di ricezione dell’aiuto sarà supportiva o
minacciosa, cioè se conterrà messaggi riguardanti il sé positivi o negativi, si
conformerà o contrasterà con i valori socializzati, includerà qualità strumentali
oppure no.
L’aiuto risulterà prevalentemente sostenitivo, nella misura in cui le condizioni
situazionali e le caratteristiche della personalità del ricevente enfatizzeranno
elementi dell’aiuto positivi per il sé, rispetto a quelli minacciosi. Al contrario,
l’aiuto risulterà prevalentemente minaccioso, nella misura in cui le condizioni
situazionali e le caratteristiche di personalità del soggetto renderanno salienti
elementi dell’aiuto minacciosi per il sé, rispetto a quelli supportivi.
L’aiuto prevalentemente sostenitivo provoca un insieme di reazioni positive,
come auto-percezioni favorevoli (per esempio, stato emotivo e
autovalutazioni), percezioni esterne favorevoli (riguardo all’helper e all’aiuto),
non difensive a livello comportamentale, come ad esempio, scarsi tentativi di
8
auto-aiuto, maggiore disponibilità a chiedere e ricevere aiuto. L’aiuto
prevalentemente minaccioso suscita reazioni negative, come auto-percezioni
sfavorevoli, percezioni esterne sfavorevoli, e difensive a livello
comportamentale come, per esempio, un incremento degli sforzi di auto-aiuto
per frenare il disagio indotto dalla dipendenza dall’helper, o maggiore
riluttanza a chiedere e ricevere aiuto.
Il livello di controllo percepito del ricevente costituisce un importante
moderatore delle sue reazioni. Infatti, quando l’aiuto è minaccioso, e si associa
ad elevate aspettative di controllo causale, cioè l’individuo si aspetta di poter
esercitare il suo controllo sulla situazione che seguirà allo stato do bisogno,
proverà una minaccia al sé controllabile, mentre quando l’aiuto minaccioso si
associa a basse aspettative di controllo causale, cioè l’individuo non ritiene di
essere in grado di controllare la situazione che seguirà allo stato di bisogno,
vivrà una minaccia al sé incontrollabile.
La minaccia al sé derivante dall’aiuto, associata ad un alto grado di controllo
causale (minaccia controllabile) provoca difficoltà psicologiche a breve
termine (stato emotivo negativo, valutazioni sfavorevoli di sé e degli altri) e
determina una condotta efficace, come impegnarsi nell’auto-aiuto e chiedere
meno aiuto. La minaccia al sé, derivante dall’aiuto, incontrollabile, cioè
associata ad un basso grado di controllo dei risultati seguenti lo stato di
bisogno, provoca auto-percezioni e percezioni degli altri sfavorevoli, e
difficilmente induce risposte comportamentali efficaci, giacché tende a
confermare la fiducia in fonti esterne di aiuto.
La tradizione degli studi sulla richiesta d’aiuto si dipana su tre filoni di ricerca,
corrispondenti ad altrettante aree disciplinari, diverse sia a livello teorico, sia
metodologico, poiché hanno indagato situazioni problematiche diverse,
utilizzando metodologie differenti. In psicologia sociale sono stati condotti
degli esperimenti che riproducevano situazioni problematiche concrete: il
soggetto è impegnato nel completamento di un compito, ma per risolverlo con
successo ha bisogno di un aiuto esterno. Il comportamento di richiesta d’aiuto è
assunto come variabile dipendente ed è misurato in termini di quantità o di
latenza.
9
Gli studi epidemiologici si focalizzano sulla richiesta d’aiuto professionale, in
contesti medici o di salute mentale, e utilizzano dati d’archivio come l’effettivo
numero di visite richieste presso cliniche di salute mentale (ad es. Dew, Dunn,
Bromet, & Shulberg, 1988) o centri di counseling universitari (Robertson,
1988), rispetto a variabili demografiche, come età, status socio-economico,
livello d’istruzione… (Asser, 1978).
La letteratura sul supporto sociale infine, fa rientrare il comportamento di
richieste d’aiuto tra le modalità di coping e ha condotto ricerche basate su
resoconti individuali di persone che avevano vissuto periodi di stress e si erano
rivolte (o no) a persone intime per un sostegno emozionale (ad es. Folkman &
Lazarus, 1980).
2. Il processo decisionale sotteso alla richiesta d’aiuto
Il comportamento di richiesta d’aiuto sembra, apparentemente, alquanto
semplice e lineare: in teoria, chi ha un problema dovrebbe fare di tutto per
risolverlo, quindi, dovrebbe anche sfruttare quelle risorse utili che sono a
disposizione nel contesto in cui opera. In realtà si tratta di un meccanismo
altamente complesso, che rivela, a monte, un intreccio di fattori cognitivi e
sociali, che hanno un peso fondamentale nella decisione finale.
Gross & McMullen (1983) propongono un modello della richiesta d’aiuto
costituito da tre fasi principali:
1) Percezione del problema, l’individuo realizza che la situazione che sta
vivendo è problematica, oppure percepisce uno stimolo come un
problema. Tali problemi possono essere distinti in due categorie: quelli
che possono essere risolti contando solo sulle proprie forze, investendo
tempo e energie indispensabili, e quelli che è impossibile risolvere da
soli. Nel primo caso un aiuto esterno sarebbe conveniente ma non
indispensabile, mentre nel secondo caso l’aiuto esterno diventa una
conditio sine qua non per risolvere il problema. Se il l’individuo ha a
che fare col secondo ordine di problemi entra nella seconda fase della
10
2) Decisione di chiedere aiuto, in cui prende atto di dover necessariamente
affidarsi ad una fonte esterna di aiuto.
3) Operazionalizzazione delle strategie. In questa ultima fase, il soggetto
mette in atto tutte quelle tattiche funzionali al superamento del
problema. Inoltre, associa specifici costi e benefici alla specifica fonte
d’aiuto presa in considerazione.
Nella complessa scelta di mettere in atto un comportamento di richiesta, alcune
fasi del processo decisionale possono invertirsi d’ordine, fondersi, ripetersi
ciclicamente nel tempo, condizionarsi, o essere del tutto trascurate (Gross &
McMullen, 1983). Il tipo e la qualità dei problemi che acquistano importanza e
che innescano il meccanismo di richiesta, variano in base alle caratteristiche
fisiche, alle variabili socio-demografiche, e alle caratteristiche psicologiche
dell’individuo. Un serio problema può risultare importante per un bianco, una
classe media e una donna anziana, ed essere valutato come non problematico
ma normale da un nero, da una classe lavoratrice e da giovani uomini (Gross &
McMullen, 1983: 50-51). Zola (1966) sostiene che particolari sintomi o
problemi che riguardano alcuni individui, sono definiti come “rilevanti per
l’azione” dalla propria cultura, etnia, gruppo di appartenenza.
In sintesi, la definizione di un particolare stato fisico o emotivo come
“problema” rientra in un più ampio processo culturale e sociale, che condiziona
sia la percezione dei problemi, sia il modo in cui affrontarli.
3. Il dilemma del chiedere aiuto. Costi personali e costi sociali associati alla
richiesta d’aiuto.
Alcuni importanti studi condotti in psicologia sociale (ad es. Nadler, 1997),
hanno dimostrato l’esistenza del cosiddetto “dilemma del chiedere aiuto”:
l’individuo in stato di bisogno vive sentimenti contrastanti, è combattuto tra
l’effettivo bisogno strumentale di chiedere aiuto agli altri per risolvere il suo
problema, e i costi psicologici che possono ridurre la disponibilità a farlo. Tale
dilemma rispecchia un conflitto ancestrale, che da sempre attanaglia l’essere
umano, quando si trova ad affrontare situazioni stressanti o complesse, e
11
consiste in un interrogativo amletico: “Chiedere aiuto o non chiedere aiuto?”,
vale a dire, dipendere da se stessi (assecondando un bisogno d’indipendenza), o
dipendere dagli altri (rispondendo ad una pressante esigenza sociale d’aiuto,
guida e supporto)? Secondo autorevoli studiosi della personalità, dare una
risposta a questo interrogativo equivale ad un fondamentale compito evolutivo.
Il dilemma del chiedere aiuto è stato riscontrato nei più svariati contesti: di
comunità (ad es. Brown, 1978), educativi (ad es. Ames & Lau, 1982), di salute
mentale (ad es. Fisher, Weiner & Abramowitz, 1983), e organizzativi (ad es.
Burke, Weir & Duncan, 1976).
Nadler (1997) sostiene che “chiedere un aiuto esterno spesso comporta
un’aperta ammissione di inadeguatezza e, come tale, può essere minaccioso per
l’autostima, indurre sentimenti di imbarazzo, può essere persino stigmatizzante
per chi lo riceve. I costi psicologici inibiscono la richiesta d’aiuto, a danno
della persona bisognosa”. L’anticipazione di questi costi psicologici spesso
intralcia la richiesta d’aiuto e può portare ad una intensificazione del problema.
È possibile distinguere i costi psicologici in:
Costi personali: influiscono sull’autostima e sul concetto di sé. Valori
come fiducia in sé e autoefficacia vengono compromessi quando
l’individuo decide di chiedere aiuto, ammettendo la propria incapacità
di risolvere il problema solo con le proprie forze. Nella società
occidentale, in modo particolare, la richiesta d’aiuto contrasta con i
valori vigenti dell’indipendenza e del successo personale, e con le
aspettative sociali.
Costi sociali: condizionano le relazioni interpersonali e le percezioni
che abbiamo di chi ci sta intorno. Le teorie dell’equità (ae es. Adams,
1963; Hatfield, Walster, & Pilivian, 1978) sostengono che le persone
aspirano a mantenere l’equità nelle relazioni sociali e percepiscono le
relazioni avverse come ingiuste. Dato che la relazione d’aiuto è
caratterizzata da una condizione di disparità tra chi dà l’aiuto e chi lo
riceve, l’individuo percepisce iniquità nell’aiuto unilaterale. Per evitare
il disagio che ne deriva, cerca di ripristinare la giustizia attraverso una
reciprocità diretta (cfr. Greenberg & Frish, 1972).
12
4. La richiesta d’aiuto autonoma e dipendente
Un individuo in stato di bisogno, che vive il dilemma di base del chiedere
aiuto, oscilla costantemente tra la “fiducia in sé” e nelle sue capacità, e la
“fiducia negli altri”. Nadler (1998) afferma che il comportamento di richiesta
d’aiuto, pur avendo varie manifestazioni, rappresenta comunque un concetto
unitario, ma le ragioni recondite che lo determinano sono varie, e spesso
contraddittorie. In generale, è possibile attuare una distinzione fondamentale
riguardo la richiesta, in richiesta d’aiuto autonoma e richiesta d’aiuto
dipendente.
La richiesta d’aiuto autonoma soddisfa l’esigenza personale di utilizzare
l’aiuto richiesto per acquisire la competenza necessaria a diventare
indipendenti. Essa si verifica quando l’individuo cerca il supporto di un’altra
persona che gli fornisca solo gli strumenti per risolvere, poi il problema da
solo. Chiedere aiuto è un mezzo per un fine. Questa modalità permette alla
persona in stato di bisogno di mantenere la propria autonomia e il controllo
sulla situazione che sta vivendo, nonostante si trovi momentaneamente in una
posizione subalterna rispetto a chi fornisce l’assistenza. si tratta di un aiuto
parziale in quanto ci si rivolge agli altri per ottenere informazioni, indizi o
chiarimenti metodologici. La richiesta autonoma è caratterizzata da un alto
grado di fiducia in se stessi e di motivazione individuale a risolvere il
problema, infatti , favorisce un coping efficace a lungo termine
1
.
La richiesta d’aiuto dipendente si verifica quando la persona in stato di
bisogno non crede di essere in grado di risolvere da sé il problema che la
affligge e decide di affidarsi ad altri che risolvano il problema al posto suo. La
richiesta d’aiuto è fine a se stessa e serve solo a mettere fine al disagio e alla
sofferenza provocati dal problema che la persona sta vivendo. Il fallimento
della richiesta fa si che l’individuo si rassegni a convivere con il suo disagio.
Tale modalità è caratterizzata da passività, da un basso livello di auto-efficacia.
L’individuo, richiedendo un aiuto completo, demanda ad altri il compito di
1
Coping = capacità di far fronte allo stimolo stressante. Secondo Scherer (1984, 1988), il
coping può essere “primario”, inteso come capacità di controllare l’evento che ha provocato lo
stress, “secondario”, definito come la capacità di gestire le proprie reazioni emotive. Il coping
può essere anche attivo, quando l’individuo è pronto ad entrare in azione, e passivo quando
l’individuo si prepara alla difesa.
13
risolvere la sua difficoltà, rinunciando totalmente al controllo, e ponendo il suo
destino nelle mani di altri più competenti e capaci. La richiesta dipendente
esprime una strategia di coping inefficace (Nadler, 1997).
Questa distinzione supera la tradizionale dicotomia tra chiedere e non chiedere
aiuto, e suggerisce di prendere in considerazione ben tre alternative di
condotta, che si dispongono lungo un continuum comportamentale: ad un
estremo troviamo il sovra-utilizzo dell’aiuto che corrisponde ad una richiesta
dipendente, reiterata ed abituale di assistenza, anche quando si è capaci di
risolvere il problema da soli. Man mano che ci spostiamo lungo il continuum,
troviamo la modalità adeguata di richiesta d’aiuto, che è autonoma ed è messa
in atto quando l’alternativa è il fallimento nel compito, ed evitata quando
l’alternativa è il successo individuale. All’altro estremo del continuum si
colloca il sotto-utilizzo dell’aiuto, che si verifica quando l’individuo è
abitualmente restio a chiedere aiuto, anche quando l’alternativa è il fallimento.
Per quanto concerne il legame tra personalità e richiesta d’aiuto, la ricerca
sociale ha documentato che le persone con una personalità dipendente tendono
a sovrautilizzate le risorse di aiuto disponibile. Secondo Pincus e Gurtman
(1995), la richiesta d’aiuto è una manifestazione di sottomissione, e riflette così
una dipendenza debole.
Bornstein (1992), riporta due approcci teorici rilevanti alla definizione di
personalità dipendente:
• Il punto di vista psicodinamico (Psychodynamic Approach), secondo cui lo
sviluppo della personalità dipendente è da ricongiungersi ad un’eccessiva
indulgenza di bisogni relativi allo stadio orale nella prima infanzia, che
continuano a manifestarsi anche in età adulta. Basato sul pensiero di Freud,
questo punto di vista considera l’adulto con personalità dipendente,
eccessivamente dipendente dall’assistenza e dal supporto altrui.
• L’approccio dell’apprendimento sociale (Social Learning View) enfatizza la
natura acquisita della dipendenza, ritenendo che lo sviluppo della personalità
dipendente derivi da un livello di un comportamento passivo rinforzato dalle
cure e dalle attenzioni ricevute durante l’infanzia. Di conseguenza, le
esperienze piacevoli della dipendenza agiscono come rinforzi secondari e sono
14
generalizzate nell’età matura a tutte le attenzioni potenziali (ad
esempio,insegnanti, superiori) [Bornestein 1992, Masling & Schwartz 1979].
Le persone dipendenti sarebbero dotate di qualità positive, come sensibilità
relazionale, maggiore capacità di cooperazione, e volontà ad aiutare gli altri
(Bornstein et al., 1993).
Le ricerche sperimentali indicano che le donne risultano maggiormente
dipendenti rispetto agli uomini (Birtchnell e Kennard, 1983).
Bornstein (1992), ipotizza che le persone dipendenti si sentono indifese e
hanno bisogno di una guida e del supporto altrui, perciò manifesteranno
un’elevata percentuale di comportamenti di richiesta d’aiuto in varie situazioni.
Ciò, predice il legame tra dipendenza e richiesta d’aiuto trattato in maniera
considerevole dalle ricerche passate.
In uno studio, Bernardin e Jessor (1957) hanno dimostrato che gli uomini
altamente dipendenti cercano più aiuto in una situazione di problem-solving,
rispetto agli uomini caratterizzati da bassa dipendenza. Bornstein (1992) indica
che la richiesta d’aiuto implicherebbe dipendenza quando l’helper è in una
posizione di autorità e di status elevato.
La relazione di proporzionalità tra dipendenza e richiesta d’aiuto è stato anche
dimostrato in condizioni naturali. Studiando la richiesta d’aiuto in ambito
medico, Bornstein, Krukonson, Manning, Mastrosimone e Rossner (1993)
riferiscono che il livello di dipendenza relazionale è connesso all’utilizzo di
cure sanitarie nei soggetti di entrambi i sessi.
L’immagine generalmente negativa della personalità dipendente affiora anche
in un’enunciazione di Fromm (1947), il quale presenta questi individui come:
“eccessivamente preoccupati dei giudizi degli altri nei loro confronti, e sempre
alla ricerca di un helper magico…sempre riconoscente verso chi lo nutre e
costantemente timoroso di perderlo” (pp. 62-63).
Ciò suggerisce che le persone con elevata dipendenza abbandonano il proprio
controllo personale impegnandosi in una richiesta d’aiuto dipendente.
La dipendenza non è necessariamente associata alla richiesta d’aiuto
dipendente. A proposito del legame tra dipendenza, richiesta d’aiuto ed
efficacia del coping, in linea con la concezione secondo cui le persone con un
15
orientamento sociale attivo migliorano la loro capacità di affrontare lo stress
con l’assistenza altrui, i soggetti con elevata dipendenza, data la maggiore
socievolezza e volontà a chiedere aiuto, richiedono un aiuto autonomo,
espressione di un coping efficace.
5. Variabili situazionali e di personalità nella richiesta d’aiuto
Tre sono gli elementi fondamentali che compongono un contesto di richiesta
d’aiuto:
1. un individuo in difficoltà denominato “helpseeker”, che presenta
2. uno specifico bisogno d’aiuto. Questi può decidere di rivolgersi o meno
3. ad un’altra persona, definita “helper”, che gli fornirà assistenza per
rimediare al suo problema.
La ricerca passata sulla richiesta d’aiuto basa i presupposti teorici su questo
schema generale e assume che condizioni situazionali, quali le caratteristiche
dell’aiuto e dell’helper, e le caratteristiche demografiche e di personalità
dell’helpseeker, siano le variabili indipendenti che influenzano il processo di
richiesta d’aiuto.
Nei paragrafi seguenti, passeremo in rassegna queste tre categorie principali di
variabili.
5. 1. Caratteristiche dell’helper
5. 1. 2. Fonte d’aiuto personale vs. impersonale
Una delle prime questioni affrontate è stata la preferenza dell’individuo a
chiedere aiuto ad una fonte personale o ad un’impersonale. Esperimenti di
laboratorio hanno dimostrato che le persone preferiscono chiedere aiuto
quando vengono loro garantiti sicurezza e anonimato. Nadler & Porat (1978) e
Shapiro (1978) hanno riscontrato una preferenza nella richiesta d’aiuto ad una
fonte anonima soprattutto quando l’aiuto richiesto rivela inadeguatezza su una
dimensione psicologica significativa.