Fotografia, giornalismo e realtà.
Seppur nati in epoche differenti, fotografia e giornalismo sono stati, sin
dagli albori, accomunati dall'ambizione difficile ed eccitante allo stesso modo, di
riproduzione fedele ed imprigionamento della realtà; ambizione che appare
lampante quando nel leggere un articolo diciamo che “fotografa” una situazione,
un problema, in maniera efficace; o altrettanto quando, guardando una fotografia,
ci sembra tanto più riuscita, quanto più ci mostra nel suo oggetto ciò che vogliamo
conoscere. Ma a pensarci bene, non c'è niente di assolutamente vero o di
astrattamente oggettivo nel giornalismo, così come nella fotografia: ambedue
hanno con la realtà un rapporto molto complesso, per niente lineare e di semplice
riproduzione.
Tralasciando gli aspetti tecnici (per ovvi motivi di spazio, in quanto
concorrono in maniera rilevante e altrettanto importante al risultato di una foto),
possiamo affermare che ogni fotografia della realtà determina una interpretazione
e selezione del reale stesso; ne consegue che la fotografia della realtà è tutt'altro
che un atto oggettivo, neutro, impersonale: nel voler documentare un qualsiasi
fatto, influirà in maniera decisiva il nostro interesse conoscitivo, la nostra visione
della realtà appunto. Tutto ciò non vuol dire che la fotografia non rappresenti il
reale o ne sia la falsificazione: semplicemente non ne è la fredda e piatta
rappresentazione, bensì ciò che “ci aiuta a capire la realtà quanto più e quanto
meglio la interpreta con certezza, senza sottrarre elementi indispensabili della
realtà alla visione del fruitore della foto.”
10
10 D.Faccioli – G.Mazzei, Fotografia tra cronaca e arte. Cedam 2004, pag. 4
7
Come per la fotografia, l'idea che il giornalismo sia uno specchio asettico
e oggettivo della realtà, è una mistificazione: tanti, troppi diremmo, criteri di
“notiziabilità”, intervengono nella scelta della notizia pubblicabile; e quando
viene comunicata è sempre un atto soggettivo, e in quanto tale frutto di una
inevitabile interpretazione della realtà. Il giornalista deve darne una “lettura” che
non la stravolga, ma che anzi la renda interessante e comprensibile, non
manipolando la realtà (raccontando fatti mai avvenuti per esempio...), rispettando
quella “legge” non scritta con il fruitore, che vorrebbe non se ne tradisse la
fiducia.
Detto ciò, appaiono chiari i limiti e le potenzialità di queste due attività di
relazione con la realtà, di cui il fotogiornalismo ne è l'espressione massima, e la
necessarietà di una obiettività giornalistica e fotografica come regola cui tendere:
quel giusto mix di rigore morale e competenze professionali, di capacità tecniche
e senso della notizia, il tutto nella consapevolezza che ogni notizia fornita non sia
l'unica possibile, dando per scontato il rapporto fiduciario con il pubblico,
evitando bugie e manipolazioni.
Alfredo de Paz, docente di Metodologia della critica dell'arte e Sociologia
dell'arte , chiarisce alcuni termini utili per il nostro lavoro:
“Se ogni fotografia in generale - in quanto riporta immagini del (dal)
mondo - può essere detta reportage, il reportage vero e proprio si riferisce a quelle
immagini riprese da un fotografo in tempo reale sul luogo stesso di un
determinato evento; in questo senso, la fotografia di reportage, in quanto
registrazione meccanica del mondo, si distingue dalla “fotografia di atelier” in cui
determinate situazioni vengono artificialmente costruite e messe a punto per
finalità estetiche” 11
.
11 Alfredo De Paz, op. cit. p. 107
8
Perciò ci si dovrebbe spingere oltre la vecchia, seppur imprescindibile
questione, dell' ubi consistam 12
estetico della fotografia, dell'essere traccia
altamente evocativa del reale e appartenere, allo stesso tempo, all'universo del
linguaggio, dei codici che informano la realtà facendone un universo di significati:
si dovrebbe considerare la fotografia come un medium fra gli altri, come una
forma di comunicazione che ha incarnato, al pari della letteratura e del cinema,
della scultura, della pittura e della musica, una “determinata visione” del reale,
quindi soggettiva.
Ancora De Paz ci viene in aiuto, rimarcando una sottile distinzione tra due
termini che normalmente si sovrappongono fino a confondersi: reportage e
fotogiornalismo. Nel “reportage il fotografo si limita a riprendere determinati
frammenti di realtà aventi precisi significati (soggettivi, sociali, politici,
etnologici…), nel fotogiornalismo emerge maggiormente il desiderio di
raccontare, attraverso le immagini, una storia avente valenze semantiche
prevalentemente storiche, sociali, politiche 13
”. Procede quindi ad una distinzione,
che andremo ad esplorare nel capitolo che segue , dei due grandi ambiti rinvenibili
nella fotografia di reportage e fotogiornalistica: il cosiddetto “reportage della vita
quotidiana” (anche chiamato “reportage umanistico”), e quello “eroico”.
12 L.Sciascia, Fotografo nato , in Ferdinando Scianna, a cura di A.Piovani, Milano 1983, p. 4
13 Alfredo De Paz, op. cit. p. 107
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TRATTI SALIENTI DEL FOTOGIORNALISMO
10
La nascita della “fotografia sociale”.
“Mentre le fotografie non possono dire bugie, i bugiardi possono scattare
fotografie” Lewis Hine 14
“Fotografia sociale” non indica un preciso genere fotografico, quanto un
atteggiamento ed una sensibilità verso la realtà storico-sociale contemporanea; [la
f. s.] “cerca di stimolare nell'osservatore il risveglio di una coscienza e quindi una
reazione critica e partecipata verso le ingiustizie, le oppressioni, la povertà, lo
sfruttamento dell'uomo sull'uomo e, in genere, verso condizioni umane che
coinvolgono precise responsabilità individuali ed istituzionali.”
15
Come accennato in precedenza, la questione del realismo fotografico nasce
con la nascita stessa della fotografia: i primi fotografi parlavano infatti di
“osservazione imparziale della realtà”, convinti che la macchina fotografica fosse
lei stessa a vedere e copiare la realtà; ma ben presto si resero conto che nessuno
fotografa una cosa allo stesso modo di un altro, e che l'idea che le macchine
restituissero una immagine oggettiva ed impersonale fosse solo una chimera: ciò
lasciò presto il posto alla consapevolezza che la fotografia restituisse non solo
quello che è nella realtà, ma anche ciò che qualcuno vede, la sua valutazione ed
interpretazione del mondo.
14 Considerato uno dei “fondatori”, Lewis Hine fu il primo a parlare di “fotografia sociale” nel
descrivere la propria opera.
15 Alfredo De Paz, op. cit. p. 57
11
Rimane il fatto che proprio per il suo valore documentario, malgrado
l'immediato contrasto che vi fu tra “soggettività” ed “oggettività” della visione, i
giornali beneficiarono da subito di quella che ben presto venne definita
“fotografia documentaria”: volta a rappresentare scene di vita quotidiana di gente
comune, si diffuse negli Stati Uniti ad opera soprattutto di Jacob Riis 16
e Lewis
Hine 17
nel periodo a cavallo tra il XIX e il XX secolo, di Dorothea Lange, e
Walker Evans (tra i principali esponenti), nel periodo della Grande Depressione
degli anni trenta. Bisogna ricordare che verso la fine del XIX secolo si
attraversava un particolare momento “in cui una prospettiva riformista divenne il
fondamento del progressismo americano, nella convinzione che i problemi di
natura sociale avrebbero potuto essere proficuamente risolti se fossero stati fatti
opportunamente fatti conoscere agli strati più colti e sensibili delle popolazioni.
18
” 16 Giornalista di “nera” a New York, Riis era convinto della predominanza del linguaggio
fotografico rispetto a quello della parola stampata: fu per questo che si servì della “fotografia al
magnesio” per far conoscere ai lettori la miseria dei bassifondi dell'East Side, seppur con con
uno sguardo di simpatia e umana partecipazione verso le persone fotografate; memorabile in tal
senso il suo primo libro ' Come vive l'altra metà della città', primo sforzo in direzione di una
spinta progressista che illuminasse certe situazioni di vita che richiedevano un cambiamento
radicale; aspre, crude con una rara capacità di penetrazione nelle situazioni che
rappresentavano, le foto di Riis “risultano importanti non solo come sorgenti d'informazione,
ma anche per la loro forza emotiva e quindi si pongono, al contempo, come interpretazioni
sociologiche e testimonianze umane.” - Cfr. Beaumont Newhall, Storia della fotografia, ed. it.
Torino, 1984
17 Per comprendere adeguatamente la fotografia di Hine (sociologo formatosi all'Università di
Chicago), così come per quella di Riis, è necessario rapportarla al contesto situazionale: una
fotografia che permise “ai riformatori progressisti di mettere in discussione e di criticare
aspramente le contraddizioni del sistema capitalistico […] fondato sullo sfruttamento dei
lavoratori e degli strati sociali economicamente non (o meno) garantiti”; con le foto degli
sbarchi delle famiglie di immigrati ad Ellis Island, o quelle del lavoro full time dei bambini,
dense di quella consapevolezza sociologico-umanistica che derivava dalla sua preparazione
culturale, Hine espresse un messaggio diametralmente opposto a quello di altri fotografi
americani accecati dalla fede incrollabile nel progresso: “l'autentico progresso industriale (e
sociale) avrebbe dovuto fondarsi sull'unione sempre più armonica fra l'uomo e la macchina, ma
in una prospettiva in cui l'essere umano assumesse un ruolo di elemento centrale, allo scopo di
ridurre al minimo l'alienazione che sempre esiste del apportarsi dell'uomo ai mezzi tecnici.”
Alfredo De Paz, op. cit. pp.59-61
18 Ibid., pp.58-59
12
13
W. Evans, Venditori sul ciglio della
strada nei pressi di Birmingham, 1936
(©Library of Congress e Martson Hill
Editions)
Migrant Mother, Dorothea Lange,
1936.
Man on Beam, Empire State Building.
Lewis Hine, ca. 1931 © George
Eastman House Jacob Riis, A Black and Tan Dive in
"Africa" ca. 1890
Si è soliti distinguere due grandi “tendenze” nel parlare di fotografia sociale:
1. una sociologica , alla quale si associano i lavori eseguiti da Riis,
Hine e Lange, “allo scopo di pubblicizzare campagne di riforma sociale e di
sostenere l'operato di istituzioni come la Charity Organisation Society, il National
Child Labour Committe e la California State Emergency Relief Administration”,
che ponevano l'accento “sul lavoro minorile, sugli incidenti sul lavoro e sulla vita
dei bassifondi 19
”; non si possono non ricordare i reportage commissionati da lla
Farm Security Administration (progetto che il governo americano fondò nel 1937
per risollevare finanziariamente le migliaia di contadini in crisi) allo scopo di
illustrare le attività dell'ente e documentare le condizioni di vita delle zone
depresse dell'Ovest: le fotografie di D.Lange 20
, W.Evans 21
e L.Hine, divennero il
simbolo di quella stagione sociale e politic a; fotografia utilizzata dunque non solo
come strumento estetico di rappresentazione della realtà, ma anche come efficace
strumento di comunicazione e informazione visiva e documentaria: tutto ciò le
diede la dignità di mezzo per la conoscenza della realtà;
19 Peter Burke, op. cit. p.26
20 In occasione di una retrospettiva a lei dedicata nel 1966 a New York, G.P.Elliot ebbe a dire
riguardo la fotografia “La madre migrante”, che è “universalmente riconosciuta come un'opera
d'arte che esprime il suo messaggio e non quello dell'autore. Sono infatti più numerosi coloro
che conoscono questa foto che quelli che sanno chi l'ha realizzata.” Le fotografie scattate dalla
Lange per il lavoro commissionatele dalla FSA, costituiscono una “testimonianza fedele e un
commento partecipato e commosso” sulla situazione delle migliaia di affamati, senza tetto,
disoccupati, costretti a trasferirsi da un paese all'altro piuttosto che a vivere in dormitori
pubblici o accampamenti di fortuna, che incontrò sulla sua strada; lei stessa disse del suo
modo di lavorare, che cercava di non alterare minimamente le situazioni che le si
prospettavano, al fine di restituire inalterati il senso del tempo e del luogo rappresentati.
21 Reclutato come per la Lange dalla FSA, compì molti viaggi nel sud americano, raccogliendo
“documenti sulle condizioni del paese, sulla situazione finanziaria dei fittavoli, le loro case, i
loro beni, i loro metodi di lavoro, i raccolti, le scuole, le chiese, i negozi”,[che] “tematizzavano
una dimensione di squallore facendo emergere più o meno esplicitamente, una nobile carica di
critica sociale e di denuncia.” - Alfredo De Paz, op. cit. pp. 63-64
14
all'interno della stessa tendenza, rientra la cosiddetta "ritrattistica”, quel tipo
di fotografia che va sotto la definizione di “fenomenologia dei tipi sociali”: della
Germania di Weimar, fotografata nella “rappresentatività archetipica” di August
Sander 22
(che sceglieva i soggetti da fotografare in rapporto alle classi cui
appartenevano e alle professioni che svolgevano), la cui intenzione era “di
edificare il ritratto plurale di una società attraverso le immagini visibili dello
status sociale di coloro che la compongono.
23
”; dell'America di strada, ritratta
nella poetica di Diane Arbus, che si ispirò a quelli che Sander chiamava gli
“ultimi uomini”: immagini che assieme ai lunghi ed incisivi titoli che la Arbus
apponeva in fondo alle proprie opere, erano capaci di trasmettere tutta
l'inquietudine di un sistema di vita; cosciente che la fotografia potesse essere
un'aggressione, la fotografa americana la considerava però un “passaporto per
raccontare frammenti di un esistenza, una specie di singolare segreto che occorre
sapere usare nel modo più corretto per svelare altri e diversi segreti, soggettivi e
sociali, dei propri simili.” Una prospettiva che vuole illustrare la “mostruosità”, la
precarietà di esseri umani “diversi”, come “brandelli della nostra stessa umanità
'altra', che è la stessa da cui siamo pervasi e a cui apparteniamo. Perché gli altri, i
diversi, siamo sempre e in una certa misura anche noi che guardiamo e che non
ci accorgiamo di essere spesso guardati dallo stesso tipo di sguardo con cui
osserviamo la cosiddetta “umanità differente.”
24
22 Il romanziere di origine ebraica Alfred Döblin, nella prefazione a Antliz der zeit – Volto del
tempo , primo volume dell'opera di Sander, lo descrisse come una “sociologia senza testo”, e
descrisse le sue immagini come “uno splendido materiale per la storia culturale di classe ed
economica degli ultimi trent'anni.” Si può immaginare come questo “panorama sociale” ritratto
da Sander, risultasse inviso alla mistificatoria fede nazista dello stereotipo ariano, ed è perciò
che venne incluso nella lista degli artisti “degenerati”.
• Walter Benjamin, descrisse l'opera di Sander come “più di una raccolta di fotografie: è un
atlante su cui esercitarsi” da L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica ,
Einaudi, Torino, 1966, p.73
23 Alfredo De Paz, op. cit. p. 71
24 Ibid., pp. 81-88
15
2. Una ideologico 25 -politica o di testimonianza , associabile ai lavori
di Tina Modotti, John Heartfield e Roman Vishniac, dei quali tratteremo ora
brevemente.
• Italiana di origini, intorno agli anni venti Tina Modotti si trasferisce in
Messico in compagnia dell'americano Edward Weston, grande maestro della
fotografia dal quale apprenderà le basi del mestiere; è a partire dal 1926, dopo la
separazione definitiva da Weston, che svilupperà gran parte della sua esperienza
nell'utilizzo della fotografia come strumento di indagine e denuncia sociale, in
particolare all'interno del mondo politico (passando per la militanza nel partito
comunista messicano, e partecipando attivamente alla Guerra civile spagnola,
dopo aver abbandonato definitivamente l'attività fotografica); nel corso della sua
pur breve vita (muore prematuramente d'infarto – così almeno è la versione
ufficiale – nel 1942, a 46 anni), stabilì rapporti di amicizia e collaborazione con
artisti messicani come la pittrice Frida Kahlo e il fotografo Manuel Alvarez
Bravo, intellettuali ed artisti del calibro di Ernest Hemingway, Robert Capa,
Sergei Eisenstein; dimostrò nella sua attività fotografica, “un'alta consapevolezza
della lotta di classe e del suo impegno, in un processo politico esplicitamente di
parte”, utilizzando le proprie immagini funzionalmente alla propria forma
ideologica, al di là della pura descrizione sociologica: tali testimonianze
fotografiche, sul Messico e sulla Rivoluzione messicana in particolare, si
“caratterizzano altresì come uno strumento antagonistico che l'intellettuale
impugna, mettendolo a disposizione immediata dei soggetti che lottano (o
dovrebbero lottare), per la propria liberazione.”
26
25 Inteso nel senso ampio del termine.
26 Alfredo De Paz, op. cit., pp. 89-96
16
• Pseudonimo di Helmut Herzfelde, John Heartfield, berlinese di nascita
(1891), anglicizzò il nome per protesta contro il nazionalismo tedesco; cresciuto
nei circoli berlinesi dell'avanguardia, rivoluzionaria prima, dadaista poi, era
chiamato “montatore dadaista” per la sua attitudine al fotomontaggio, al quale
conferì una dimensione politica: pensava infatti che il proprio lavoro fosse un
“mezzo di lotta per la libertà e la rivoluzione[…]per battersi simultaneamente
contro un ordine sociale storicamente determinato”; utilizzava sapientemente il
montaggio fotografico, al fine di produrre shock e contrasto visivo spaziale,
ritenendo la sua arte come il mezzo più idoneo per l'analisi e la critica della realtà
politico sociale che voleva trasformare; grazie alle riproposizioni del reale
mostrateci con i collage, Heartfield proponeva un'analisi che seppur nella sua
simulazione, acquisiva una dimensione intellegibile e razionale, che scaturiva dal
contrasto con gli eventi e l'attualità trattati: è innegabile infatti la chiarezza degli
aspetti documentari mostrati, pur nella dimensione simbolica che le immagini nel
suo complesso assumevano.
27
• Roman Vishniac, nato in Russia nel 1897, si trasferì prima a Berlino per
poi stabilirsi negli Usa; di un corpus originario di sedicimila foto che Vishniac
scattò nei quartieri e ghetti ebraici nell'Europa orientale degli anni trenta, ne
rimangono duemila, che compongono, nelle parole del fotografo americano
Edward Steichen, un “importante documento storico, in quanto estremo sguardo
sugli esseri umani da lui fotografati, prima che la furia nazista li sterminasse” […]
e che ci restituiscono la sensazione di “una rara profondità di comprensione, un
calore e un amore per la propria gente, da figlio di quelle terre. Le fotografie che
ne risultano sono fra i più bei documenti fotografici di un'epoca e di un luogo”.
28
27 Alfredo De Paz, op. cit. pp. 97-102
28 Ibid. p. 103
17