II
luogo ove queste identità maturano e prendono forma non solo per perfezionare ciò
che ogni bambino di lingua madre impara a casa, con i compagni e i parenti, ma
anche per dare voce e nuova identità a quei piccoli che, sradicati dal loro paese
d’origine, pur possedendo già una loro voce e una loro identità, all’improvviso si
trovano a fare i conti con una realtà che li rende muti e privi del loro essere
“qualcuno”. Quanti gli studi per favorire la loro integrazione nella nuova città, nel
nuovo quartiere, nella nuova classe! Quante le ricerche di metodi didattici per
facilitare l’apprendimento della seconda lingua!
Ma se da un lato il bambino si trova spaesato e travolto dal turbine delle
nuove conoscenze ed esperienze, dall’altro ha il pregio di adattarsi velocemente
spinto dal desiderio di comunicare, giocare e scherzare con i coetanei, un’esigenza
che va al di là delle più forti motivazioni che spingono un adulto immigrato ad
imparare la lingua del paese d’arrivo.
E se la lingua è per i bambini uno strumento per il gioco, perché il gioco non
deve essere lo strumento per imparare la lingua? È questo il fulcro delle
innumerevoli sperimentazioni didattiche degli ultimi decenni. La prospettiva è
radicalmente cambiata: non si va più a scuola per imparare la grammatica, ma si va a
scuola per giocare con la grammatica. Forse qualche insegnante tradizionalista può
rimanere sconcertato da questo nuovo punto di vista e storcerà un po’ il naso, ma val
la pena di rischiare il mutamento di prospettiva… i cambiamenti fanno sempre paura,
ma nulla può fermare le trasformazioni, e la scuola, in quanto specchio dei tempi e
delle società, è la prima a lavorare nel presente per creare il futuro, senza
abbandonare l’enorme bagaglio del passato!
E se il futuro è un mondo in cui le «le lingue e le distanze non conteranno
niente», allora è doveroso che la scuola, prima di ogni altra cosa, diventi il primo
baluardo dell’educazione interculturale e della centralità dell’alunno (di qualunque
colore sia la sua pelle) all’interno dei suoi progetti didattici, linguistici e non.
Il presente lavoro vuole essere solo un pallido scorcio di quanto la scuola sta
facendo per progettare una didattica ludica dell’italiano per bambini stranieri e non;
di quanto impegno, energia, ma soprattutto fantasia e creatività stanno investendo
III
nella sperimentazione e nella ricerca i docenti che, rimettendo in discussione i loro
metodi, i loro programmi disciplinari, ma soprattutto se stessi, stanno tentando di
guardare l’insegnamento e l’apprendimento con gli occhi di un bambino… chissà,
forse si tratta di quel famoso fanciullino di cui tanto parlò Pascoli, che «ciarla
intanto, senza chetarsi mai; […], perché egli è l'Adamo che mette il nome a tutto ciò
che vede e sente. Egli scopre nelle cose le somiglianze e relazioni più ingegnose.
[…]. E a ciò lo spinge meglio stupore che ignoranza, e curiosità meglio che
loquacità: […].»!!
4
Capitolo 1
LINGUE, TIPOLOGIA LINGUISTICA E SOCIOLINGUISTICA
1. Lingua e linguaggio
L’universo umano è un concentrato di bellezze che continuamente
stupiscono, sorprendono e fanno percepire agli esseri umani quanto esso è perfetto e
imperfetto allo stesso tempo. Una di queste bellezze è il linguaggio umano, unico nel
suo genere proprio perché possiede dei tratti che lo distinguono nettamente da tutti
gli altri linguaggi al mondo e lo rendono speciale e superiore ad essi per le funzioni
che è in grado di svolgere. Per non creare confusione tra i due termini urge darne
una definizione scientifica3:
linguaggi › sistemi di comunicazione che servono a trasmettere informazioni
da un individuo a un altro.
linguaggio umano › un tipo di sistema di comunicazione, sviluppato dagli
esseri umani, dotato di alcune specifiche caratteristiche tra cui la discretezza – i suoi
elementi si distinguono gli uni dagli altri tramite dei confini ben precisi - la doppia
articolazione – la possibilità di formare un numero altissimo di segni dotati di un
significante e un significato per mezzo di un numero molto limitato di elementi, i
fonemi – la ricorsività – meccanismo che permette di costruire frasi sempre nuove,
inserendo in una frase un’altra frase e così via – la dipendenza da una struttura –
le relazioni complesse tra le parole non sono determinate dalla semplice successione
delle stesse. Il linguaggio, dunque, è un sistema di simboli convenzionali, adottato e
utilizzato da un gruppo di persone per comunicare i propri pensieri e sentimenti. I
simboli possono essere verbali o non verbali, cioè parlati oppure scritti o ancora
mimati con gesti e movimenti del corpo. Nel linguaggio parlato si usano le tecniche
di articolazione, mentre nel linguaggio scritto queste vengono sostituite
dall'ortografia e da altri segni convenzionali. Per la comprensione e l'espressione del
3
Cfr. Graffi G. e Scalise S., 2002, Le lingue e il linguaggio, Il Mulino, Bologna, pp. 18 - 25; p. 29.
5
linguaggio parlato sono essenziali le capacità uditive e visive di chi ascolta, nonché
la velocità e il ritmo con cui vengono scandite le parole.
Ma cosa sono i simboli (o più correttamente, segni)? Agli studi di Ferdinand
De Saussure – ci si riferisce in particolare al suo Corso di linguistica generale,
pubblicato postumo, nel 1916 – si deve la definizione di segno: l’unione tra
significato e significante, dove per significato si intende la rappresentazione mentale
che abbiamo di un oggetto, mentre per significante si intende la forma sonora con cui
viene realizzata tale rappresentazione. Tra le proprietà del segno vi ritroviamo la
distintività – ad es. il segno “botte” si distingue dal segno “notte” ecc… - la
linearità – il segno ha un’estensione sia nel tempo che nello spazio, ciò implica una
successione di suoni – l’arbitrarietà – non esiste alcuna legge di natura che associ il
significante al significato.
A queste definizioni va aggiunta un’altra fondamentale:
lingua4 › la forma specifica che il linguaggio umano assume nelle varie comunità.
Essa è un sistema di sistemi i cui livelli linguistici sono costituiti dai suoni
(fonologia), dalle parole (morfologia), dalle frasi (sintassi) e dai significati
(semantica). La lingua è un codice, ossia un sistema di segni convenzionali la cui
concatenazione, secondo regole ben precise del sistema, sviluppano un messaggio,
cioè un atto linguistico concreto (Jakobson). Secondo R. Jakobson le componenti
necessarie per compiere un atto linguistico sono sei: il parlante (o mittente); il
referente (o contesto); il messaggio; il canale; il codice, costituito da due livelli – le
unità di base e le regole che combinano tali unità - e l’ascoltatore (o destinatario). Il
parlante e l’ascoltatore sono due nozioni intuitive; il referente indica ciò di cui si
parla, ciò cui si riferisce l’atto linguistico; il messaggio e il codice sono stati già
definiti; il canale indica, infine, il mezzo attraverso cui avviene la comunicazione. A
ciascuna di tali componenti corrisponde una ben precisa funzione. Una lingua,
dunque, possiede le seguenti funzioni:
1. emotiva (o espressiva), se incentrata sul parlante e su ciò che esso sente e
prova. Serve ad esprimere gli stati d’animo;
2. referenziale (o informativa), se si incentra sul contesto;
4
Cfr. Graffi G. e Scalise S., 2002, Le lingue e il linguaggio, Il Mulino, Bologna, p. 24; pp. 33 – 44;
pp. 45 – 46.
6
3. poetica, se si incentra sul messaggio e sul modo in cui esso è costruito, tanto
da costringere il destinatario a ritornare su di esso;
4. fatica, se si incentra sul canale. È quella che serve a decifrare se il canale è
aperto e funzionante;
5. metalinguistica, se si incentra sul codice: si realizza quando si utilizza il
codice per parlare del codice stesso;
6. conativa, se si incentra sul destinatario. Si realizza sotto forma di comando o
esortazione al fine di modificare il comportamento dell’ascoltatore.
Tutte le lingue del mondo realizzano queste funzioni, pur adottando codici
diversi, ma esse non sono in grado di realizzare tutte le possibilità date dal codice, in
nessuno dei suoi livelli. Per questo si dice che ogni lingua compie delle scelte.
L’insieme delle scelte di cui i parlanti di una data lingua hanno conoscenza, viene
chiamato grammatica dei parlanti. Essa è costituita da fattori innati biologicamente e
dalle esperienze acquisite all’interno della comunità linguistica di origine. In altri
termini, la grammatica dei parlanti non è altro che l’insieme delle competenze – ossia
l’insieme delle conoscenze - dei singoli parlanti. Vi sono diversi tipi di competenze,
corrispondenti ai singoli sistemi di una lingua: la competenza fonologica, quella
morfologica, quella semantica e quella sintattica.
1.1 La linguistica
Tutto ciò che rientra nelle nozioni di lingua e linguaggio viene studiato dalla
linguistica, affermatasi come disciplina scientifica nel XX secolo, tramite gli studi di
Ferdinand de Saussure e di Franz Boas, ma le cui radici risalgono a studi effettuati
durante i secoli precedenti. La linguistica studia i suoni, la grammatica e il lessico
delle singole lingue, così come le relazioni fra queste o i tratti comuni a tutte le
lingue o a loro gruppi. Si occupa anche degli aspetti culturali, sociali e psicologici
della comunicazione. Gli studi di linguistica possono essere teorici o applicati: la
linguistica teorica si occupa della costruzione di teorie e modelli che descrivano le
lingue o ne spieghino la struttura e l'uso; la linguistica applicata trasferisce i risultati
dello studio teorico all'insegnamento delle lingue, alla compilazione di dizionari o
7
alla teoria della comunicazione. Tutti gli approcci prevedono lo studio dei suoni
(fonetica e fonologia), delle sequenze dei suoni (morfologia e formazione delle
parole), dei rapporti fra le parole nella frase (sintassi), del lessico e dei significati
delle frasi (semantica). I rapporti5 tra alcuni elementi del sistema e altri elementi
dello stesso, possono essere, secondo F. de Saussure, di due tipi: sintagmatico e
paradigmatico. Secondo il primo tipo, il rapporto tra i vari elementi si basa sulla
posizione che un elemento occupa rispetto ad un altro all’interno del testo, oppure in
base all’ordine costante con cui gli elementi si presentano, o ancora, in base alla loro
occorrenza (o indice di frequenza) nel testo. Secondo il secondo tipo, invece, i
rapporti tra gli elementi dello stesso sistema si possono basare sull’opposizione tra
elementi parzialmente identici e parzialmente diversi, o sull’indice di frequenza di
determinate categorie di elementi nel sistema di una lingua in ragione del rapporto
con la frequenza di altre categorie. La linguistica descrittiva raggiunge il suo scopo
quando «le funzioni di tutti gli elementi di una lingua vengono fissate in tutti gli
ambiti indicati e quando in questo modo vengono determinati tutti i rapporti tra gli
elementi della lingua» (Ramat P., 1976: 195).
2. La tipologia linguistica
Esaurito il compito della linguistica descrittiva, si può dunque procedere al
confronto delle lingue. Questo può avvenire secondo diversi criteri6:
1. il criterio genealogico;
2. il criterio areale;
3. il criterio tipologico.
Il tipo (1) classifica le lingue basandosi sulla loro appartenenza alla stessa lingua
originaria (o lingua madre). Un esempio è dato dalle lingue romanze, tutte derivanti
dalla stessa lingua madre, l’indoeuropeo. Ogni gruppo di lingue imparentate viene
chiamato famiglia linguistica, all’interno di questa vi sono altri gruppi, o rami.
5
Cfr. Milewski T., Presupposti per una linguistica tipologica, in Ramat P., 1976, La tipologia
linguistica, Il Mulino, Bologna, pp. 193 – 194.
6
Cfr. Graffi G. e Scalise S., 2002, Le lingue e il linguaggio, Il Mulino, Bologna, pp. 56 – 58.
8
Il tipo (2) classifica le lingue in base alla vicinanza geografica. Due, o più lingue,
possono essere arealmente legate, nonostante appartengano a famiglie linguistiche
completamente diverse, proprio perché il loro contatto, dovuto alla vicinanza
geografica, ha fatto sviluppare in esse delle strutture comuni. In questo caso, il loro
raggruppamento viene chiamato lega linguistica.
Il tipo (3), su cui si pone maggiore attenzione lungo il presente capitolo, classifica
le lingue in base a una o più caratteristiche comuni. Questa relazione non esclude
quella genealogica, infatti, due lingue tipologicamente affini possono derivare dalla
stessa lingua madre. La scienza che si occupa specificamente della ricerca dei tipi
comuni a due o più lingue viene chiamata linguistica tipologica. Essa è, secondo
Milewski7, un ramo che si sviluppa direttamente dalla linguistica descrittiva perché si
occupa del confronto dei sistemi linguistici descritti appunto, da quest’ultima. Il
confronto tipologico è un confronto tra funzioni di elementi linguistici che si basa sul
concetto di identità:
Dovrebbero quindi valere come tipologicamente identici quegli elementi di due lingue che –
ciascuno nell’ambito del proprio sistema – hanno un’analoga funzione linguistica, cioè assumono
un’analoga posizione linguistica, cioè assumono un’analoga posizione nel testo e nel sistema e in
entrambi i casi presentano un indice di frequenza comparabile.
La linguistica tipologica, o tipologia linguistica – come verrà chiamata nel corso del
capitolo – presenta due conseguenze rilevanti: la presupposizione di caratteristiche
universali del linguaggio umano in quanto tale, sulle quali proiettare le differenze tra
lingue secondo tipi; e la presupposizione di criteri universali per procedere alla
tipologizzazione (Dressler, Sprachtypol., 470).
Innanzitutto, bisogna chiarire cosa si intende per tipo linguistico: Skalicka
intende «“un estremo che si realizza raramente (o mai)”» (Ramat P., 1976: 12), una
sorta di modello metodologico che consiste nella combinazione di determinate
proprietà (strutture, ossia insieme di elementi funzionalmente interrelati). Questa
definizione viene completata dalla seguente: «un tipo linguistico riunirà in sé, in una
prospettiva politetica di modello strutturale, ciò che è tipico delle lingue costituenti
7
Cfr. Milewski T., Presupposti per una linguistica tipologica, in Ramat P., 1976, La tipologia
linguistica, Il Mulino, Bologna, pp. 194 – 196.
9
tale tipo» (Ramat P., 1976: 14). Secondo Upsensky, esiste la possibilità di ordinare
gerarchicamente le lingue con riferimento ad un determinato livello di lingua, cioè le
caratteristiche di un tipo grammaticale A appaiono come le caratteristiche di un
etalon language rispetto a qualsiasi lingua del tipo grammaticale B. Per etalon
language si intende un modello astratto, un tipo che non ha mai esistenza nella realtà
allo stato puro. La successione di essi costituisce una struttura generalizzata (o
struttura profonda), povera dunque di determinazioni e di informazioni, fondata su
degli universali appartenenti al linguaggio in quanto tale. Birnbaum introduce diversi
livelli di tale struttura: uno, universalissimo, del linguaggio umano in sé; un altro,
intermedio, proprio di lingue tipologicamente raggruppabili; un altro ancora, di
minore profondità, caratteristico di ogni lingua.
Per comprendere a fondo cosa sono gli universali di cui si è accennato sopra,
è d’obbligo un breve excursus della storia della tipologia la cui svolta fondamentale
avvenne nel 1966, grazie a Joseph H. Greenberg e alla sua teoria degli universali
implicazionali.
2.1 Alcuni cenni storici
Le radici storiche8 della disciplina sono molto antiche: esse affondano in
matrici filosofiche del periodo illuministico in cui le diversità tra lingue venivano
viste come un fenomeno superficiale dietro cui si nascondeva una struttura costituita
da un insieme di concetti innati. Il modo per far venire alla luce tali concetti era
ritenuto il confronto interlinguistico. Nel XIX secolo, il concetto di comparazione
interlinguistica si caricò di nuove valenze: con Wilhelm von Humbolt le lingue
vennero considerate delle entità storiche che differiscono le une dalle altre sia nella
forma che nel contenuto. Obiettivo del confronto, a questo punto, erano le differenze
intercorrenti tra le varie lingue «che corrispondono ad altrettante differenze socio -
culturali» (Cristoforo S. e Ramat P., 1999: 16). Contemporaneamente si svilupparono
nuove concezioni che consideravano la comparazione delle lingue secondo le loro
8
Cfr. Cristoforo S. e Ramat P., Introduzione, in Cristoforo S. e Ramat P., 1999, Introduzione alla
tipologia linguistica, Carocci, Roma, pp. 15 – 18.
10
caratteristiche strutturali, indipendenti dalla loro parentela. Nasceva la cosiddetta
tipologia morfologica ad opera di alcuni autori tedeschi, tra cui i fratelli Schlegel,
August Schleichert e lo stesso von Humbolt. Scopo della tipologia diventava allora,
quello di classificare le lingue in base alla loro appartenenza a determinati tipi
strutturali ed è così che si ebbe la suddivisione delle lingue in isolanti, agglutinanti,
flessive e polisintetiche. Questa teoria tipologica riteneva che vi fosse un’evoluzione
linguistica irreversibile basata sulla gerarchia di sviluppo linguistico sopra indicata.
Secondo tale concezione, prima o poi tutte le lingue del mondo sarebbero passate da
uno stato, per così dire “primitivo” - proprio delle lingue isolanti - fino a giungere al
livello più avanzato delle lingue polisintetiche. Inoltre, questa teoria supponeva che
l’agglutinazione fosse una normale tecnica di affissazione meccanica e la flessione la
tecnica opposta; e infine, riteneva che ogni lingua dovesse appartenere rigorosamente
ad una determinata categoria. Ovviamente queste convinzioni furono presto smentite
dagli studi successivi.
Nel XX secolo, Sapir ha ridefinito tale suddivisione, introducendo altri due
parametri: il grado di complessità morfologica delle parole di una lingua e il tipo di
concetti che una lingua esprime. Egli, infatti, nel suo Language del 19219, riteneva
che una lingua non può essere categorizzata, piuttosto possono essere individuati dei
criteri indipendenti attraverso cui classificare le lingue. Tra questi criteri, vi erano:
1. il criterio della sintesi che stabilisce l’ordine di complessità crescente delle
lingue in analitico, sintetico e polisintetico. Agli estremi teorici vi si trovano,
da un lato l’inglese, con parole di scarsa complessità, dall’altro il cinese,
l’annamita e l’ewe che utilizzano ogni parola come unità significativa.
2. il criterio della tecnica di costruzione che si basa sulla proprietà delle lingue
di aggiungere degli elementi subordinati ad elementi radicali. Tale aggiunta
può avvenire in modo tale che i primi vengano semplicemente giustapposti ai
secondi ed entrambi gli elementi non subiscano modifiche, oppure in modo
tale che la loro unione provochi una fusione ed entrambi gli elementi vengano
modificati. Secondo questo criterio le lingue si distinguono in isolanti,
agglutinanti, fusive e simboliche.
9
Cfr. Greenberg J., Un approccio quantitativo alla tipologia morfologica della lingua, in Ramat P.,
1976, La tipologia linguistica, Il Mulino, Bologna, pp. 171 – 176.
11
3. Quest’ultimo criterio si basa sulla distinzione tra due concetti che tutte le
lingue devono esprimere: a) le radici con significato concreto e b) le idee
puramente relazionali che servono a correlare tra loro gli elementi concreti di
una proposizione. In questo modo vi sono quattro gruppi linguistici: il gruppo
delle lingue semplici pure - relazionali; il gruppo delle lingue complesse pure
– relazionali; il gruppo delle lingue semplici miste – relazionali; infine, il
gruppo delle lingue complesse miste – relazionali.
La svolta metodologica, però, avvenne nel 1966, grazie al lavoro pionieristico
di Greenberg. Con lui nacque infatti, la tipologia moderna. Dal punto di vista
metodologico, le innovazioni sono due: l’adozione di una prospettiva particolaristica,
che porta l’attenzione su singoli settori della grammatica delle lingue e l’esplorazione
sistematica delle possibili correlazioni tra singoli tratti strutturali.
2.2 La teoria greenberghiana
Secondo la teoria greenberghiana10, la tipologia ha due scopi principali:
scoprire a) quale sia una lingua umana possibile e b) quali siano le differenze e le
somiglianze tra le lingue umane. Per lingua umana possibile si intende una lingua
vista come un insieme restrittivo in cui vengono stabiliti schemi di variazione e di
uniformità interlinguistica, che corrispondono ad altrettante restrizioni sui tipi
linguistici possibili. Questi ultimi hanno valore predittivo poiché implicano che i tipi
linguistici esclusi non possano verificarsi mai (o si verificano raramente), mentre i
tipi linguistici che effettivamente occorrono devono sempre conformarsi ai modelli
attestati. In questa prospettiva, risulta centrale la correlazione tra tratti linguistici
logicamente indipendenti resa possibile attraverso l’implicazione logica.
Quest’ultima è costituita da una proposizione composta il cui valore di verità dipende
dai valori di verità di volta in volta assunti dalle due proposizioni che la
costituiscono: se l’antecedente è vero e il conseguente è falso, essa risulterà falsa;
sarà vera, invece, in tutti gli altri casi. Grazie ad essa, la quale costituisce un vero e
10
Cfr. Cristoforo S. e Ramat P., Introduzione, in Cristoforo S. e Ramat P., 1999, Introduzione alla
tipologia linguistica, Carocci, Roma, pp. 18 – 28.
12
proprio strumento predittivo, si sono potute costruire gerarchie implicazionali che
hanno dato forte sostegno alla ricerca tipologica. Da quanto detto derivano i principi
su cui si fonda la tipologia. Essi, detti universali, si dividono in due categorie: 1.
universali, ossia validi per tutte le lingue del mondo, indipendentemente dalle
caratteristiche specifiche di ciascuna lingua; 2. implicazionali, cioè principi di
variazione che pongono in relazione la presenza di un determinato tratto in una
lingua con quella di un altro tratto nella stessa lingua. La metodologia di Greenberg è
così in grado di compiere delle restrizioni ai tipi linguistici possibili. Da queste
derivano due importanti generalizzazioni: a) un universale negativo, in base al quale
nessuna lingua può comportarsi in un determinato modo; b) un universale positivo, in
base al quale ciascuna lingua deve conformarsi ad uno o più schemi possibili. Se lo
schema possibile è uno, allora si ha a che fare con universali assoluti; se gli schemi
possibili sono più di uno, si ha a che fare con universali implicazionali. Questi ultimi
sono disposti lungo delle gerarchie (vedi supra) che stabilisce una connessione tra
loro, basata sul fatto che la presenza di un tratto in una lingua comporta l’esistenza di
una connessione tra una serie di altri tratti. Ciò che determina una gerarchia
implicazionale è un insieme di fattori, tra cui la marcatezza e il prototipo. La prima
indica l’asimmetria che si determina tra gli elementi linguistici coinvolti all’interno
della gerarchia stessa. In senso tipologico, un elemento si definisce marcato rispetto a
un altro se è costituito da un maggior numero di morfemi (marcatezza strutturale); è
flesso per un minor numero di parametri grammaticali (marcatezza flessiva); ricorre
in un minor numero di costruzioni e tipi linguistici (marcatezza distribuzionale); è
meno frequente a livello testuale. Ciò che permette di stabilire una gerarchia in base
al parametro della marcatezza è il fatto che la presenza in una lingua del membro
marcato di un’opposizione implica sempre la presenza del corrispondente non
marcato (ad es. se una lingua possiede il duale, possiede anche il plurale, se ha il
plurale ha anche il singolare, se ha il femminile ha anche il maschile e così via). Il
secondo elemento che determina la gerarchia implicazionale è, come si è accennato,
il prototipo, definito come la forma che riassume in sé tutto l’insieme dei valori non
marcati dei parametri relativi all’ambito grammaticale cui appartiene.
La campionatura delle lingue analizzata da Greenberg è molto ampia - trenta
lingue circa - per due motivi ben precisi: in primo luogo, è sembrato verosimile che
13
ogni affermazione valida per tutte queste lingue avesse buone probabilità di avere
una completa, o quasi, portata universale; in secondo luogo, essa fornisce la relativa
frequenza di certi tratti grammaticali.
La base dell’analisi degli universali sono il morfema e l’ordine delle parole,
perché in esse è stata riscontrata una forte regolarità. Per morfema si intende la
minima sequenza della parola dotata di significato. Secondo i principi evidenziati da
Nida (Language, 1948) e ripresi da Greenberg, i morfemi sono definiti da tre
parametri: l’identità di significato, la distribuzione complementare e il requisito
riguardante i morfi di natura fonematica variabile, che se devono essere assegnati alla
stessa unità morfemica, ci deve essere un’unità invariante con una distribuzione
almeno altrettanto vasta. Per quanto riguarda la distribuzione complementare, si
considerano alternative dello stesso morfema solo i membri della stessa serie
strutturale, quelli cioè, sostituibili l’uno con l’altro all’interno dello stesso intorno
tattico.
Greenberg, sulla base delle definizioni sopra indicate, stabilisce alcuni criteri
di classificazione11, alcuni dei quali sono molto simili a quelli adottati nella
classificazione di Sapir. Essi sono i seguenti:
1. Il grado di sintesi e di complessità di una lingua. Considerato il morfema
la minima sequenza significativa della parola, con il rapporto M/W (dove
M = morfema; W = parola) si individua l’indice sintetico. Le lingue
analitiche daranno risultati bassi circa questo indice, quelle sintetiche e
polisintetiche rispettivamente, alti e molto alti.
2. La tecnica di costruzione. Ad un estremo si trovano le lingue in cui gli
elementi significativi sono collegati con lieve o nessuna modificazione
(agglutinazione); all’altro estremo vi si trovano le lingue in cui i vari
elementi si fondono e si modificano reciprocamente. Il rapporto A/J
(dove A = numero delle costruzioni agglutinanti; J = numero delle
giunture di morfo) stabilisce l’indice agglutinante.
11
Cfr. Greenberg J., Un approccio quantitativo alla tipologia morfologica della lingua, in Ramat P.,
1976, La tipologia linguistica, Il Mulino, Bologna, pp. 176 – 184.